Tutto è cominciato una domenica mattina.
Ero nel letto con la mia puttana preferita, Sasha, una slava di vent’anni che se ne fregava dei miei quaranta. Se ne fregava di mia moglie, se ne fregava di mia figlia, se ne fregava del mio lavoro. A lei importava solo dei soldi e a me andava bene così. Non si faceva problemi a dire che si faceva rompere il culo solo per mettere altri cinquanta euro sotto il materasso. Che gran troia, Sasha. Ma comunque meno di tutti gli altri, quei leccaculo che mi circondano ogni giorno nella speranza di essere notati.
Ad ogni modo me ne stavo là a guardare il soffitto, con la sua testa tra le gambe, quando il cellulare ha iniziato a squillare. L’ho lasciato fare, non avevo alcuna intenzione di interrompere quel momento. Poi ha ripreso, con lo schermo illuminato e la vibrazione a farlo muovere per tutto il comodino. Sasha ha fatto per alzare la testa. Io l’ho ricacciata giù con la mano prima che riuscisse a guardarmi negli occhi. Ma ormai tutto era finito. La mia voglia aveva lasciato posto alla curiosità di sapere chi rompesse i coglioni alle otto di mattina. Persino Dio si riposò la domenica. Ma noi siamo uomini e non abbiamo proprio nulla di divino.
Il telefono riprese a squillare e questa volta risposi.
Era Mancosu, il brigadiere più stupido che conoscessi.
“Marescia’, la disturbo?” disse.
“Sì.”
“Senta, qui c’abbiamo un morto. Anzi, una morta.”
Non dissi nulla.
“So che è domenica, marescia’, ma mi hanno detto di chiamare lei, che questa c’ha i soldi e vogliono lei.”
“Dov’è?”
“Precollina, marescia’, Via delle Viole 4. La passo a prendere?”
“No, Mancosu. Adesso vengo.”
Non mi ero nemmeno fatto una doccia. Quella giornata non se lo meritava. Questa città di merda non se lo meritava. Avevo lasciato la macchina a tre isolati da casa di Sasha, in Via De Sanctis. I palazzi più brutti che abbia mai visto. Di giorno è la zona più lercia di Torino, di notte la più trafficata. Qui alle puttane ci tengono. Hanno pure messo una corsia apposta per loro, così uno non le tira sotto mentre passa. Ogni dieci metri ce n’è una e si alternano: quelle che ti mostrano il culo e quelle che allungano la gamba per fermarti, per farti capire che hanno la cocaina. Le ho provate tutte. Poi è arrivata Sasha e ho iniziato a essere fedele, come è giusto che sia un uomo della mia età. La prima volta che l’ho caricata in macchina non ha detto niente, a differenza delle altre. Guardava dritto davanti a sé e per un momento ho pensato che fosse una principiante e che avessi sbagliato. Ma una puttana non puoi mica lasciarla in mezzo alla strada. Quando l’hai presa te la devi tenere. Le ho messo una mano tra le cosce ed era così bagnata che ho pensato fosse predestinata a quel lavoro. E che sarebbe stata una bella scopata.
Mentre passavo in macchina da Corso Vittorio vedevo le persone entrare in chiesa. Io non sono credente. Ho fatto finta di esserlo quando ho sposato Giulia, quindici anni fa. Lei era così felice. Si era convinta della mia conversione, che fossi diventato un uomo migliore. Diceva che un carabiniere doveva essere un buon cristiano, che non poteva rischiare di morire e trovarsi le porte del Paradiso chiuse. E se tu muori, Massimo? Se ti sparano, come la trovo la pace io, sapendo che sei all’Inferno diceva. Forse aveva ragione e per un po’ ci ho creduto anche io. Poi un pallettone ha fatto saltare la testa a Filippo mentre era seduto accanto a me e, un po’ per questo, un po’ perché il proiettile non me lo sono beccato io, ho smesso di credere a tutte quelle puttanate. Filippo sì che era un brigadiere. Sceglievo sempre lui come compagno per i turni. Aveva un umorismo tutto suo, un’ironia cinica che non ti saresti mai aspettato da un ragazzetto con la faccia d’angelo. Avrebbe fatto carriera, lo sapevano tutti. Era glaciale, ambizioso, duro. Quello che dovremmo essere tutti noi. Pace all’anima sua.
Quando sono arrivato in Via delle Viole, ho riconosciuto il posto dalle macchine dei colleghi lasciate in mezzo alla strada, davanti al cancello. Quelle villette sono tutte uguali: bianche, con un po’ di edera, il giardino ben curato. Banali e scontate, come i loro proprietari. Ho inchiodato e sono tornato indietro di duecento metri. Volevo farmeli a piedi, avevo bisogno di fumare senza che nessuno mi disturbasse. Ho assaporato ogni singolo tiro di quella sigaretta. Ho riempito i polmoni di quel fumo grigio e denso, sperando che vi ci si appiccicasse. Mi ero rotto i coglioni. Volevo morire. E volevo farmi una striscia.
Quello che ho imparato di questo lavoro e più in generale della vita, è che devi mostrarti agli altri come se fosse impossibile scalfirti. Devi dominarli, intimorirli, umiliarli. Così ho gettato con forza il mozzicone per terra, senza pestarlo, lasciandolo là a consumarsi sull’asfalto. Ho percorso quei duecento metri come se mi portassero alla mia tomba. Testa alta, sguardo fermo nel vuoto.
Sono entrato in casa strappando il nastro giallo alla porta e ho puntato Mancosu.
“Che cazzo è successo?” ho detto prima che aprisse bocca.
Mancosu ha balbettato qualcosa e mi ha indicato il piano di sopra, la stanza che stava proprio sopra di noi. Sembrava un topo, Mancosu, con quei suoi baffetti neri, gli occhi schiacciati e le orecchie pelose. Mentre salivo per le scale, lo sentivo sgattaiolare dietro di me, squittendo ad ogni passo su quella moquette rossa che rivestiva i gradini. Sono entrato nella stanza da letto facendomi spazio tra quelle nullità che si facevano da parte al mio passare, riverendomi e abbassando la testa.
“Di chi è il cadavere?”
Mancosu si affrettò a rispondermi, ma io non gli prestai attenzione. Sapevo esattamente di chi fosse.
La baronessa Veronica Verri, una di quelle donne convinte che si stia ancora nell’ottocento. Di quelle che conoscono le persone giuste nei posti giusti. Di quelle che la mattina guanti rosa, pelliccia e un foulard stretto al collo come un guinzaglio, mentre portano a passeggio il loro cane da concorso. La feccia. Ti guardano dall’alto della loro condizione, coperte dalle loro maschere di finto pudore. Ma io ho imparato a conoscerle. So che non possono reggere questo inganno, che prima o poi il trucco cola e la loro debolezza si manifesta sotto forma di vizio. Quello che è successo a questa Veronica Verri, che mi stava davanti sdraiata nel suo letto, nuda nella sua guepière nera, la testa sfondata da un martello.
Quel cazzone di Mancosu si stava trattenendo dal vomitare e non faceva nulla per nasconderlo. Filippo, invece, avrebbe ghignato e detto qualcosa tipo che una massaia aveva lasciato là il mortaio con cui stava preparando il paté di olive, con il pestello ancora dentro e il lavoro da finire. E avremmo riso. Cristo se avremmo riso.
“Mancosu, cazzo.”
“Sì, commissa’.”
Se avesse vomitato, l’avrei preso a schiaffi davanti a tutti. Il suo sguardo mi stava implorando di lasciarlo andare in bagno, come se avesse annusato delle briciole di formaggio, ma io non avevo alcuna intenzione di dargli quella soddisfazione. Doveva imparare a essere uomo. E così lo guardavo farfugliare e boccheggiare, la pelle grigia, e pensavo che doveva essere la stessa faccia che faceva quella poveretta della moglie quando se lo ritrovava nudo in camera da letto.
“Che schifo, Mancosu. Che schifo.”
Il cadavere della Verri fu coperto con un telo bianco, ma questo non lo avrebbe aiutato a nascondersi da me, a mentirmi sulla sua morte. Avevo già capito ogni cosa. La puttana si era portata il suo giocattolo a casa per farsi scopare, e magari prima l’aveva pure fatto ubriacare, ma alla fine qualcosa doveva essere andato storto ed era finita a martellate in testa. Un ragazzo adescato con l’unico scopo di sbattere quella carne flaccida, che ora si ritrovava rovinato per il resto della sua vita. Perché io l’avrei trovato e lui sarebbe finito a marcire in galera, poco ma sicuro. Mi sarebbe dispiaciuto, ma è il mio lavoro. L’unica cosa che so fare bene, l’unica cosa che mi piace.
Levai il lenzuolo da quello che restava della testa. L’occhio destro era di poco fuori orbita, una pallina bianca che sembrava fissarmi. Il copriletto bordeaux era ricamato dal sangue nero che era colato dalla parte cava della faccia. Frattaglie di cervello e osso erano incrostate tutto intorno. Mi chiesi perché un martello e non un proiettile. Ma il disgusto per quello che rappresentava quella persona mi spinse a compiacermi di questa sua morte, avvenuta con la stessa intensità che vi avrei messo io.
Ero lì, fermo in un ghigno, quando il dottor Verano mi raggiunse. Disse che sarebbe stato un caso semplice, che sul manico del martello erano ben visibili le impronte dell’assassino. Questo gli fece dedurre che poteva essere stato un raptus e che l’omicida doveva essere scappato in preda al panico, una volta realizzata la cosa.
“Lei lo sa come vanno queste cose, commissario. Quanti ne ha visti, di questi casi? Comunque, io me ne vado a casa. Mia moglie mi starà preparando un bel pranzetto. La fortuna che abbiamo, Aressa. Non come questi disperati, questi figli della strada, pronti ad ammazzarti per una mela marcia.”
Dissi di sì, ma pensavo a Sasha. Pensavo a lei nuda sotto di me. Pensavo a lei che soffocava le urla nel cuscino. E alle grida di Aurora, mia figlia, che ogni notte spazzavano via il silenzio e il mio desiderio per Giulia. L’unica fortuna che avevo con lei era che non si lamentasse quando me ne andavo e la lasciavo ad occuparsi di nostra figlia. Era una donna forte, poteva farcela benissimo da sola. E poi non ho mai sopportato di stare in tre nello stesso letto, con la bambina in mezzo, a ricordarmi ogni istante la distanza che c’era tra me e sua madre.
Ai due lati del letto della baronessa c’erano due comodini in legno di chissà quale epoca, con sopra due lampade in oro e alcune fotografie. In una, dalla cornice in legno lucido, se ne stava sorridente accanto a quella che doveva essere stata la sua servitù anni prima; nell’altra, più recente, veniva tenuta sottobraccio da un uomo molto più anziano di lei, con i capelli bianchi ben pettinati e un completo nero. Avevano entrambi un’espressione composta, ma lasciavano trasparire un velo di triste umanità dei loro occhi. Quelli di lui scuri, quelli di lei di un azzurro sciupato, quasi verdi. Pensai fosse il maggiordomo, magari uno che aveva passato la vita a servire e riverire quella famiglia. Mi domandai ad alta voce dove potesse essere in quel momento.
“In cucina” rispose Mancosu.
Alzai gli occhi su di lui, che subito li abbassò.
“E’ il marito, marescia’. Vuole parlare con lei. Scende o gli dico che sale?”
“Domani, Mancosu. In caserma. Oggi è domenica.”
La notizia di un marito mi aveva sorpreso. Invece di stringersi, il cerchio si allargava e tutte le certezze che avevo avuto fino a quel momento erano diventate polvere. Uscii dalla casa passando per la porta di servizio. Non avevo voglia di parlare né con quell’uomo, né con i giornalisti, così diedi a Mancosu carta bianca sul da farsi. Che ci mettesse lui la faccia, che i cittadini rimanessero soddisfatti nel vedere che il loro ideale di carabiniere si realizzava in quel sorcio balbettante frasi di circostanza in televisione.
Raggiunsi la macchina e mi voltai per guardare il gruppo di persone che si era riunito davanti alla casa. I flash degli scatti schiarivano quella giornata invernale che non si decideva a iniziare. Entrai e presi il mio secondo cellulare. Chiamai l’unico numero salvato, quello di Sasha.
Tornai a casa alle quattro del mattino, ubriaco e con il naso imbottito di cocaina. Giulia aveva lasciato accesa la lampada del mio comodino. Era rannicchiata nella sua metà di letto, quella che dava alla porta, coperta di una sola vestaglia di raso nera. Ricordai di quando gliel’avevo regalata. Stavamo insieme da quattro anni e io ero stato via per lavoro, dalle parti di Roma. La vestaglia era in una vetrina e pensai a come sarebbe caduta sui suoi seni e poi sui suoi fianchi. La immaginai ballare sotto la luna, con i capelli castani a rifletterne i raggi. Avremmo fatto l’amore e le avrei chiesto di sposarmi. Avrei voluto ricordarmi solo di quello e per una volta dimenticare quello che venne poi. Il suo respingermi tutta la notte, le sue lacrime, lei che confessa di avermi tradito. La vestaglia di raso per terra, ai piedi del letto, calpestata.
Stava là e ogni cosa mi ricordava il cadavere della baronessa. Pensai di estrarre la pistola dalla fondina e di sfondarle la testa con il calcio. Poi di andare nella stanza di Aurora e urlarle che la mamma era morta. Le avrei messo la canna della pistola in bocca e avrei sparato due colpi. Le pareti della cameretta sarebbero state finalmente di quel rosso che Giulia voleva tanto. Sarei andato in bagno a guardarmi nello specchio sopra il lavandino e mi sarei passato le mani sporche di sangue sulla faccia. Avrei sparato al mio riflesso e avrei potuto iniziare una nuova vita.
Di colpo smisi di fantasticare e mi sorpresi in ginocchio sul letto. Con una mano spostavo la vestaglia dal culo di Giulia, con l’altra mi tenevo il cazzo. Non indossava gli slip e la luce della lampada creava il suo gioco di ombre tra quelle cosce ancora sode. Iniziai a masturbarmi in silenzio e avrei voluto fosse tutto lì, che il solo guardarla svestita potesse restituirmi un’eccitazione quasi infantile. Ma come sempre qualcosa mi ricordò che non c’era più nulla. Prima la mia lingua tra le labbra umide di Sasha, poi il cazzo di Filippo tra le cosce di mia moglie.
Le misi la mano sinistra sulla schiena per tenerla ferma e glielo spinsi dentro con un unico colpo di bacino. Sentii una fitta di dolore e digrignai i denti. Era il prezzo da pagare per riprendermi mia moglie. Rimasi zitto e lasciai che fosse lei a urlare. Mi limitai a tenere fermo l’arco della sua schiena sotto la mia mano e a spingere. Sentivo la mia testa più pesante a ogni colpo. Mi pentii. Sperai finisse presto. Venni.
“Giulia.”
Poi nulla.
Torino di notte è la Città Nera, quella che dà vita insieme a Londra e San Francisco al triangolo della magia oscura. E’ la città di Satana, che dall’alto della statua di Piazza Statuto tiene d’occhio l’ingresso per gli Inferi. E che uno creda o meno a queste cose, non può non pensare che qualcosa di vero ci sia, che l’atmosfera che viene a crearsi è quella della dolce scoperta del peccato, quella del nulla è reale e tutto è lecito. Torino ti strega e ti seduce, prima di abbandonarti nel bel mezzo dell’amplesso, quell’istante che precede il sole alzarsi dietro al Faro della Maddalena per dare vita a quella che sarà per tutta la giornata la Città Bianca, al pari di Praga e Lione. Chiunque abbia vissuto almeno due giorni per le sue strade si sarà accorto di questo bipolarismo cromatico, di questa strana influenza che mostra l’uomo per quello che è: agnello di giorno e lupo di notte.
Rimasi con gli occhi sbarrati al soffitto, a chiedermi se la mia vita fosse tutta lì. Se le mie giornate dovessero soltanto essere un mal di testa cronico e un continuo bruciore di stomaco. Mi sentii soffocare dal profumo di Giulia, che era diventato lentamente il più pesante dei fetori. Per la prima volta nella mia vita provai compassione per Mancosu. Riuscivo a capire come si sentisse un topo in gabbia. E’ che una scappatoia pensi sempre di averla e ci basi sopra ogni tua strategia di vita. Ma è proprio come il sorcio e il labirinto, perché il sollievo arriva solo quando hai svoltato l’angolo dell’ostacolo e ti trovi davanti un corridoio, quello che pensi sia l’ultimo, quello che ti porterà fuori e ti farà gridare che sei libero. Ma alla fine il corridoio finisce e ti trovi di nuovo di fronte a due strade e non importa quale prenderai, perché sarà sempre quella sbagliata. Non si esce dai labirinti, è tutta una balla di chi li ha creati. Sono progettati per farti arrendere e morire, come questa vita di merda. Ma io non sono fatto così e me lo ripetei una volta, poi due, serrando i denti fino a sentire il sapore del sangue che mi usciva dalle gengive. Mi alzai e recuperai i vestiti dal pavimento. Erano le sette ed io scappavo da casa mia come l’amante perfetto, quello che non lascia tracce per il marito cornuto. Che poi ero io.
Feci tutta via Garibaldi, poi piazza Statuto, via Cernaia e corso Vinzaglio, dove vivevano i veri ricchi di Torino, quelli che non avevano bisogno di ostentare il proprio benessere e nascondevano le proprie ricchezze dentro palazzoni comuni, al più provvisti di un bel balcone in pietra.
Entrai in caserma senza salutare i due di guardia. Andai nel mio ufficio, al piano di sopra, e mi sedetti al buio, i gomiti sulla scrivania. Con una mano buttai per terra i pacchetti di sigarette vuoti, con l’altra presi la cornice con la foto di Sasha e la guardai negli occhi. Erano grigi. Come tutto. Sembrava più piccola di quello che fosse realmente e pensai che ero entrato nell’Arma che lei ancora doveva nascere. Pensai che avevo iniziato a scopare che lei ancora doveva nascere. Pensai che la mia vita era finita che lei ancora doveva nascere. Pensai. Pensai e basta.
Mancosu arrivò che erano le nove, sudato e con il sorriso di uno che stava per iniziare il suo primo giorno di lavoro. Aprì la porta del mio ufficio convinto non ci fosse nessuno e si mise a canticchiare una stupida canzoncina. Abbozzò anche un balletto, finché non si accorse di me è si fermò. Tra noi iniziò un inutile gioco di sguardi. Inutile perché sapevo già come sarebbe finito, con io vincitore e lui a guardarsi le scarpe di pelle consumata.
“Sai a cosa pensavo, Mancosu?”
“No, marescia’.”
“Che sono felice di averti come brigadiere.”
Mancosu sorrise, ma io continuai prima che potesse aprire bocca.
“Sono fortunato perché sei un coglione. E quelli come te, che ce l’hanno così moscio da pisciarsi le palle, sono come dei pesci rossi, che non reagiscono nemmeno quando li tiri fuori dall’acqua. Sì, certo, fai onestamente il tuo lavoro e magari a qualcuno piacerai anche, nulla da dire in contrario, ma questa è la tua misura, la tua boccia di vetro. Ti guardo il muso e so di avere le spalle coperte, di non avere nessuno che vuole fottermi il posto, né qui dentro né fuori. Sei fortunato perché tu non rischi un pallettone in testa. Chi potrebbe mai voler fare del male al povero Mancosu?”
Continuò a guardarmi, in silenzio.
Vaffanculo, pensai, vaffanculo Mancosu. Abbassa gli occhi su quelle cazzo di scarpe e faremo finta che non sia successo nulla.
Ma lui si limitò ad uscire, lasciandomi nel buio in cui mi ero rintanato. La giornata continuava a non promettere bene.
E infatti quel pomeriggio ricevetti una telefonata dal dottor Verano che mi comunicò l’identità dell’assassino della baronessa, tale Ivan Jonelus. Feci lasciare a Mancosu l’incarico di trovare qualsiasi cosa su di lui, mentre io mi preparai a ricevere il marito della baronessa.
Non ci mise molto ad arrivare. Il barone Gustavo Verri, così si era presentato, preoccupandosi di mettere bene in evidenza il suo titolo. Ebbi la stessa impressione di quando lo vidi in foto e cioè che avrebbe potuto essere tranquillamente il maggiordomo di quella casa da una vita. Racchiudeva in sé qualsiasi luogo comune, tant’è che pensai il suo comportamento fosse figlio di anni e anni di emulazione. La “r” moscia, il braccio destro sempre piegato in avanti e mai lungo il corpo, le labbra flesse verso il basso, in un sorriso di disprezzo.
“Sono il barone Gustavo Verri, marito dell’ormai defunta baronessa Veronica Verri” disse.
“Sì, sì, so chi è. Si sieda.”
“Volevo anzitutto manifestarle il mio sdegno e la mia incredulità per il trattamento ricevuto nella giornata di ieri da lei e i suoi uomini. Trovo insolito che il capitano Arnì, mio personalissimo amico, nonché compagno di innumerevoli doppi di tennis, non abbia comandato di seguire con urgenza l’omicidio della mia povera moglie, e devo quindi dedurne che la decisione sia la sua, maresciallo. Ovviamente mi aspetto delle scuse e delle spiegazioni.”
“L’unica spiegazione che posso darle è che sua moglie stava stesa sul vostro letto con il cranio sfondato da un martello, in intimo nero.”
Il barone mi fissò sorpreso. Non aveva capito che quelli come lui me li mangiavo quando volevo.
“Quindi,” continuai “perché non mi spiega dov’era lei mentre sua moglie veniva ammazzata?”
“Come si permette a insinuare una cosa del genere?”
“Senta, senza fare storie. Mi dica dov’era lei. È un formalità, mi serve il suo alibi. Io non ho voglia di stare qui ad ascoltarla e lei non mi trova molto simpatico, giusto? Avanti.”
“A un’importante serata di beneficenza a casa di un amico, il professor Santomoro, che lei di sicuro conoscerà.”
“No e non mi interesserebbe farlo.”
Non riuscivo più a sopportare di respirare la stessa aria di quell’uomo. Avevo la strana impressione che avesse ancora la sua bella maschera di trucco che non si decideva a colare. Mi alzai e me ne andai dal mio ufficio e dalla caserma.
Quella sera ricevetti due telefonate, una dal capitano Arnì, che non stetti manco ad ascoltare, e l’altra da Mancosu, che telegraficamente mi riferì che avevano tentato di mettersi in contatto con Ivan Jonelus, ma la madre aveva detto che era sparito da qualche giorno. Decisi che saremmo andati da lei il mattino seguente. Quella storia iniziava a non piacermi. Poi fu il turno della mia telefonata.
Mi svegliai con una serie di immagini che mi sfilavano in testa. Io che entravo in casa con un mazzo di fiori e trovavo sul mio letto Filippo e io accanto a lui in quel bar e io che vedevo uno che tirava fuori il cannone davanti a noi e io che mi abbassavo e Filippo che no e i suoi capelli biondi che non c’erano più e nemmeno la sua testa e lui che cadeva a terra e con lui il suo cervello. Proprio accanto a me. Ed ora accanto a me c’era Sasha e le sue labbra sul mio cazzo erano l’unica cosa reale di cui mi ricordassi.
La signora Jonelus aveva un viso asciutto e gli zigomi alti, i capelli corti e a boccoli. Disse che faceva le pulizie in una piccola azienda locale e che suo figlio non tornava a casa da tre giorni. Ci guardò con diffidenza e ci mostrò la camera di Ivan. Appesi al muro i poster di alcuni calciatori e qualche fotografia. Mancosu le chiese perché non ne avesse denunciato la scomparsa e la signora rispose che era già capitato che il figlio sparisse nei fine settimana, soprattutto quando aveva a che fare con dei clienti esigenti.
“Che genere di clienti, signora? Che lavoro fa suo figlio?” chiesi davanti a una tazza di caffè.
“Clienti molto importanti. Donne, perlopiù. Loro pagare bene, no?”
“Pagare bene per cosa, signora? Non abbiamo molto tempo da perdere.”
“Ma per sesso, no? Mio Ivan molto bello e tutte lo vogliono.”
“Lei vuole dire che suo figlio si prostituisce?”
“No. Mio Ivan porta a casa soldi della cena.”
“Vede signora,” si intromise Mancosu “suo figlio è ricercato per omicidio. Abbiamo trovato le sue impronte sull’arma del delitto.”
Dentro la mia testa tutto iniziò a sistemarsi come avrebbe dovuto. Veronica Verri approfitta del ricevimento del marito, un’amica le consiglia un ragazzo rumeno, Ivan, e lei lo chiama. Se lo coccola, lo riempie di soldi, ma lui vuole di più. E così la uccide. E tutti felici e contenti, pensai.
“Lei ha idea di dove potrebbe essere suo figlio?” domandai aggirandomi per la cucina e guardando le foto di Ivan appese.
L’idea ce la facemmo noi qualche giorno dopo, quando trovammo il suo cadavere sventrato in un sentiero di collina. Sul braccio destro si leggeva ancora la parola “libertà” tatuata in caratteri gotici. Nella tempia destra un buco da cui doveva essere colata via l’anima. Lo mettemmo in un telo bianco e lo maledicemmo per averci rovinato le indagini. Io ero particolarmente incazzato e un Mancosu così dedito al lavoro mi toglieva ogni possibilità di sfogo. Decisi di montare da solo in macchina e di andare a casa del barone Verri, per aggiornarlo sullo sviluppo delle indagini, come ordinatomi dal capitano.
Fu un’accoglienza fredda, ma di certo non mi ero fatto troppe aspettative. Mi trovai di nuovo a guardare le fotografie della baronessa, ma questa volta con svogliatezza. Informai il barone della morte di Ivan e lo avvertii che le indagini sarebbero andate avanti a lungo, ora che non c’era più un colpevole da far confessare.
“Le impronte sul martello, no? Quelle non bastano?” disse il barone, scocciato.
Stavo per rispondere, quando la frase del barone risuonò nella mia testa.
“Come dice?”
“Che mi sembrano un chiara prova.”
“Chi le ha detto delle impronte” chiesi, avvicinandomi.
I balbettii del barone mi ricordarono quelli di Mancosu e subito ripensai al topo nel labirinto e l’unica cosa che può stanarlo: il gatto.
“Dovremmo farci una bella chiacchierata, vero baronuccio? C’è forse qualcosa che non ci ha detto?”
Il signor Verri indietreggiò fino al muro, muovendo in avanti le sue mani coperte di guanti in pelle, come per allontanarmi.
“Vediamo se indovino. Lei torna a casa e trova sua moglie nel letto con un bel ragazzo. Sì, li trova avvinghiati nel suo letto che si divertono e magari lei urla pure di smettere che è tornato suo marito. Allora lei, signor Verri, spara in testa al ragazzo e poi ammazza sua moglie, giusto? Magari con quei guanti di pelle per non lasciare tracce. Poi cos’ha fatto? Ha messo il pestello in mano a Ivan quand’era già morto?”
Il barone si lasciò scivolare in terra e scoppiò a piangere. E nel mentre che piangeva sfoderò la pistola da dietro la schiena e fece fuoco. Uno contro uno.
Ho visto il proiettile partire e attraversare la testa di Filippo e la bocca di mia figlia Aurora. L’ho visto perforare le orecchie di Mancosu e i seni di mie moglie. Poi gli occhi di Sasha e fermarsi. Ho sentito Dio chiedermi se valesse la pena andare avanti, in un tripudio di colori e in preda a un’euforia mai provata. Io l’ho guardato negli occhi e gli ho detto che no, non ne valeva la pena. Poi ho sparato anche io, senza saperlo, e quel bastardo è rimasto inchiodato al muro.
“Non c’è lieto fine, non c’è nulla. Ci saremo solo noi, io e te. E la nostra bambina. Che poi sarà tutto quello che avremo. E la chiameremo Aurora, per ricordarci che c’è sempre il sole, prima e dopo ogni raggio di tenebra, no?”
“Sì…”
“E sarà la bambina più bella di tutte, perché sarà uguale a te e a nessun’altra. E riderà e guarderà il mondo come fai tu. E amando lei, io potrò amarti due volte.”
“Adesso stringimi, ho freddo. E dimmi che sarò solo tua.”
“Sì.”
“E tu solo mio.”
“Sì.”
“E che mi ami. Dimmi che mi ami.”
“Ti amo.”
“Anche io.”
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