Oggi stavo sistemando la mia libreria e, nello spostare alcuni volumi da una mensola, ho trovato una pila di vecchi numeri del giornalino scolastico per cui scrivevo al liceo.
Ho iniziato a sfogliarli distrattamente, finché non mi sono capitate tra le mani le fotocopie di un tema scolastico.
Incuriosito dalla consegna – “Un ministro ha recentemente affermato che di cultura non si mangia. Cosa ne pensi a riguardo? Argomenta la tua risposta.” – mi sono messo a leggerlo, ma la mia testa si è persa, vittima di un’epifania.
Era uno dei primi giorni nella mia nuova classe. Ripetevo il secondo anno di liceo scientifico, dopo una rocambolesca bocciatura di cui non mi sono mai vergognato e cui devo molto. Avevo deciso di rimanere nella stessa sezione: sperimentale in scienze + pni. Questo voleva dire avere più o meno gli stessi insegnanti.
Mi avevano assegnato un posto in ultima fila, nell’angolo. Non sarebbe stata facile.
La professoressa di italiano era diversa da quella che avevo avuto l’anno precedente. E’ una materia in cui sono sempre andato bene, con una certa predisposizione, ma qualcuno del corpo docenti confida ai colleghi che a scrivere sono proprio un incapace – e questa persona, oltre a non essere la mia insegnante di italiano, non aveva mai letto un mio tema.
La nuova professoressa di italiano assegna un compito da fare a casa: scrivere una pagina ispirandosi a “L’addio ai monti” de “I promessi sposi” di Manzoni. L’elaborato viene poi consegnato il giorno seguente per essere valutato.
Passata una settimana, la professoressa restituisce i temi con i rispettivi voti. Non aspettavo altro. Ero felicissimo e curioso di sapere come fossi andato.
Manca solo più il mio, ma l’insegnante, invece di consegnarmelo, mi chiede di alzarmi in piedi.
Io lo faccio, mentre i miei nuovi compagni, con i quali non c’era ancora stato tempo sufficiente per socializzare, si girano a guardarmi.
L’insegnante mi chiede da dove ho copiato il tema.
Io resto incredulo.
Mi rivolge nuovamente la domanda, calma, mentre lei e tutti i miei compagni mi guardano con sospetto.
Rispondo che non l’ho copiato, che l’ho scritto io.
Lei non ci crede.
Ripeto di non averlo copiato e inizio ad agitarmi e a non capire il perché di quell’accusa.
L’insegnante resta impassibile: non l’ho convinta.
Vado alla cattedra e recupero il tema: nessun voto.
Quando la mia testa è tornata al presente, ho sentito la stessa stretta allo stomaco di quel giorno; sono stato male così come lo ero stato quel giorno, quando ero un ragazzino di sedici anni che non capiva perché nessuno credesse che fosse in grado di scrivere un buon tema come quello.
Quel giorno ho capito che non sarei partito allo stesso livello degli altri, che per molto tempo sarei stato senza motivo la pecora nera, quello incapace di prendere un buon voto per proprio merito.
E ho imparato che se vieni bocciato, se sei un disastro in matematica, per molti di quelli che si occupano della tua formazione, di arricchirti, sarai un disastro in tutto, incapace persino di scrivere un buon tema. D’altronde, come per tutte le cose, in Italia non esiste il beneficio del dubbio: o innocenti, o colpevoli.
Questo è il tema incriminato:
Ed eccola là, la flotta che tanto lontano mi porterà dalla mia città. I miei occhi non potranno più soffermarsi sulle candide mani delle donne, intente a filare ai telai, né la serenità potrà impadronirsi della mia faccia, nel vedere i pastorelli guidare le greggi di pecore, su per le imponenti rocce dell’Attica. Resteranno sfocati ricordi, nel susseguirsi di uomini armati che passeranno davanti ai miei occhi, come un branco di cervi in fuga da un cacciatore, così incauto da aver attirato la loro attenzione. Non sarà più il tempio della pallade Atena, ove da bambini facevamo impazzire le nostre madri, assalendoci armati di legni d’ulivo, a farmi ombra … Bensì le alte e splendenti mura di Ilio, che dovremo abbattere per volere di un re ingordo di potere. Non saranno più le leggiadre fanciulle della mia gente ad allietarmi, la mia famiglia non sarà più meritevole di attenzione … lo sarà unicamente il mio corpo, protetto da un bronzeo scudo e da una tagliente lama. Non più i seni delle giovani ateniesi attireranno i miei sguardi, ma lo faranno le rozze forme dei dadi intenti a rotolare su di uno sgabello, accompagnati dalle imprecazioni degli avidi scommettitori. Il mio è un addio, perché so di non tornare. È un addio alle caldi estati che, per venti lunghi anni, hanno accompagnato la mia vita. È un addio ai visi dei miei genitori, ricchi d’amore e malinconia, perché, dopotutto, il destino di un figlio è perire in battaglia, assai prima dei suoi cari. È un addio alla bella Agave, che per prima assaporò le mie labbra e che sarà destinata a vedermi tornare sul mio scudo, o a non ritrovarmi affatto.
La partenza non è mai dolce ed ancor meno lo è se imposta da estranei, ma che importa? Cosa importa della mia morte o di quella di altri mille? Non siamo tutti destinati a morire? Non siamo destinati tutti a dare il nostro addio a questo mondo, in attesa che il traghettatore ci porti dai nostri padri? Cosa importa se oggi o domani … Terra natia, madre dei miei padri … io oggi ti dico addio e ti ringrazio per tutti i tuoi doni. Per la pioggia, pronta a coprire il mio volto straziato dalle lacrime. Per il sole, che sempre ha illuminato il suo sorriso. Per il cibo, di cui ho potuto nutrirmi e per la dimora che sempre ho avuto. Ti ricorderò, mentre la gelida lama si bagnerà del mio caldo sangue, affondando nella mia troppo giovane carne. Il calore del sole, sulle navi che mi porteranno al mio crepuscolo, non sarà mai così opprimente da farmi dimenticare di te. Né così devastante sarà la fatica da rematore. Né così malvagia, la morte che mi strapperà dalle tue braccia … addio …