Capisci di essere arrivato a Ground Zero perché la città di colpo tace, come se le fronde degli oltre 400 alberi del parco riuscissero a trattenere le molte voci della città di New York. Ci vuole un po’ di tempo prima che le tue orecchie riescano a sostituire il vociare delle persone con il cinguettio degli uccelli e il rumore del traffico con il gorgoglio dell’acqua che scorre della fontane della rimembranza. Il tempo sembra fermarsi. O meglio: il tempo sembra essersi fermato quattordici anni prima. Ti guardi attorno sperduto: New York torna a essere a misura d’uomo.
Avvicinandoti alle due fontane, che poi sono due vasche ricavate dalle fondamenta delle Torri Gemelle, non puoi fare a meno di provare un senso di vuoto. Un senso di vuoto fisico, sì, ma anche spirituale. Perché ogni mattina, là, si aggiravano migliaia di persone e ora non più.
Di quegli uomini e di quelle donne, ora, non rimane altro che i nomi incisi sulle due cornici delle fontane. Inizi a leggerne uno, poi un altro, e vai avanti perché non riesci a fermarti. Vorresti sapere chi sono, la loro storia. È la forza nascosta di questo memoriale, il ricordarti che quelli non sono soltanto dei nomi. Sono quei nomi. E dietro quei nomi ci sono delle vite sgretolatesi in un istante che non è soltanto un istante, ma è quell’istante.
Tanti sono cognomi italiani, figli e nipoti di emigranti. Ti chiedi cosa li abbia portati là. In fondo conosci la risposta, ma cerchi un’individualità che forse non esiste.
Sottolinei i nomi con l’indice, come si fa quando si impara a leggere. Vuoi essere sicuro di non sbagliare neppure una sola lettera.
Ogni tanto una rosa rossa: il gambo infilato nel vuoto delle lettere di un nome. Emily, leggi. Ti dicono che oggi sarebbe stato il suo compleanno. Trattieni il respiro. La rosa non ha spine, ma è come se ti avesse punto comunque. È il compleanno anche di John. E di Mark e di Joy. Di Mary.
Fa male, sì.
Guardi l’acqua scorrere nelle vasche. Viene risucchiata non appena tocca il fondo. Vorrebbe riempire quel vuoto, ma non può farlo. Ti ricorda che non può farlo.
Abbandoni le fontane, ma vorresti tornare sui tuoi passi. Ti sembra di non aver dedicato abbastanza tempo a quei nomi.
Ti metti in fila per entrare nel museo. I parenti delle vittime entrano gratis. Torni bruscamente alla realtà. Esistono dei mariti, delle mogli, dei genitori e dei figli. Quel giorno non è poi così lontano. Per noi è storia, per loro sono quattordici anni.
Mostri il biglietto e ti avvii verso il controllo sicurezza. Svuoti le tasche, passi il detector. Ti chiedi se ce ne sia davvero bisogno. In un mondo normale no. Poi ti guardi attorno, pensi a cos’hai appena visto e cosa stai per visitare, e ti ricordi che qui di normale non c’è proprio nulla.
Ti trovi davanti una smisurata parete di mattonelle blu. Una frase al centro no day shall erase you from the memory of time. Virgilio.
Continui a scendere nelle viscere di quelle che erano le fondamenta delle due torri. Un pilastro è rimasto in piedi, ora è ricoperto di nomi e foto. Capisci che da quel momento non sarà facile.
Viene ricostruito quel giorno, ora per ora. Ti spiegano chi fossero i terroristi. Puoi guardarli in faccia, ci sono anche le loro foto.
Ti muovi tra camion dei pompieri distrutti ed effetti personali recuperati intatti ed esposti in piccole teche di vetro. Scarpe col tacco che non hanno più ritrovato i loro piedi, bambolotti, ventiquattrore. Un telefono nero. Alzi la cornetta e la porti all’orecchio. La voce di un uomo che dice alla moglie che la ama, che il volo è stato dirottato, che non si rivedranno mai più. Quell’uomo era sull’aereo, la donna no. Posi la cornetta e piangi.
Continui ad aggirarti nella ricostruzione di quel giorno spettrale, senza sapere che sarà sempre peggio. Ti trovi a fissare una foto di Mike Kehoe, un ragazzo vestito da pompiere immortalato su una delle scale mentre sgrana gli occhi verso la camera. Cosa sta succedendo si chiede. Mike, in quel momento, mentre aiutava nelle operazioni di soccorso, non sapeva che sarebbe sopravvissuto.
Prosegui, passi davanti a un’enorme bandiera americana fatta di brandelli mandati da ogni stato del mondo e cuciti insieme. La fratellanza esiste solo nei momenti drammatici?
Tra i molti oggetti personali raccolti, una bandana rossa attira la tua attenzione. Leggi il pannello descrittivo, scopri la storia di Welles Crowther, piangi. La rileggi, piangi di nuovo. L’uomo con la bandana rossa. Nei fumetti, il supereroe si salva sempre. È per questo che continui a rileggere quel maledetto pannello: speri che il finale possa cambiare. Non è così. Welles è morto. Ti allontani per riprendere il controllo sulla tua respirazione, ma dietro l’angolo vedi la proiezione di un filmato: una donna si lascia cadere da una finestra della torre in fiamme (Un passo appena). Un gesto ripetuto da più di duecento persone.
Nella sala regna il silenzio, ma tu vorresti scappare. Senti il frastuono dei pilastri che cedono, delle torri che crollano, le urla di chi cerca disperatamente aiuto senza trovarlo. Vorresti gridare anche tu, dire basta, ma non succede nulla. Così come non successe nulla quando sono state quelle persone a chiedere disperatamente che tutto finisse.
Ormai non ti importa più di quello che puoi vedere. Sei pronto a tutto. O quasi. Perché di trovarti davanti a un muro con sopra più di 2800 facce, proprio non te lo aspetti. Ti fermi, ti perdi nei loro occhi. Capisci cosa voglia dire vita spezzata. Alle tue spalle c’è una piccola saletta. Prima di entrare, scorri il dito sui dei pannelli touch-screen: puoi vedere la biografia di ciascuna vittima. Lo fai. Quando capisci di essere al limite, che forse quelle storie non volevi davvero conoscerle, sposti finalmente la tenda ed entri nella piccola saletta.
Da un altoparlante, la voce di una donna legge dei nomi. Per ogni nome, viene proiettata una foto sul muro. Un cenno biografico. E così per sempre, senza sosta. Le tue gambe non reggono e ti siedi su di una delle panche di legno ospitate dalle pareti nere. Ai lati di ogni panca c’è un distributore di fazzoletti. Decidi di alzarti prima di doverli usare. Alle tue spalle, mentre esci, quei nomi scanditi nell’eternità e il rumore di fazzoletti strappati via.
Via.
Via.
Esci dal museo e il gorgoglio dell’acqua delle fontane ti sembra ora l’infrangersi di una cascata. Puoi sentire quei nomi urlare e vedere le rose appassire. Entri di fretta nella Freedom Tower e sali al centoduesimo piano.
New York si estende davanti ai tuoi occhi. Cerchi la Statua della Libertà. La trovi.
Sorridi.