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Rael, lo spirito della palude (o studio su “Racconti fantastici di Liao” di Pu Songling)

C’era un tempo un ricco funzionario del ministero che si chiamava Alheen. Era un uomo molto importante e quando camminava per strada tutti si affrettavano a inchinarsi per riverirlo. Aveva una barba nera molto lunga e molto folta di cui era orgoglioso e tutti i bambini della città di Ahreheo sognavano di averne una bella come la sua. Gli anziani dicevano che la sua barba era così pesante da andare a fondo in una bacinella d’acqua, anziché galleggiare.
Era molto arrogante e maltrattava tutti quelli che il suo rango gli permetteva di maltrattare. Molti erano i poveri e i mendicanti che aveva picchiato con il suo bastone di giada bianca. Al ministero lo temevano tutti, soprattutto una vecchia puzzolente che faceva le pulizie e che lui prendeva sempre a sputi, calci e bastonate mentre i funzionari guardavano e ridevano.
Un mattino, dopo essersi lavato e cambiato d’abito, Alheen notò nel lavandino un pelo lungo e bianco. Dapprima lo scambiò per il baffo della tigre Saar, spirito di Ahreheo, e se ne rallegrò perché compariva solo alle persone illustri in segno di buon auspicio. Dopo averlo osservato con attenzione, però, gli sembrò invece un pelo della sua barba e si preoccupò molto perché non ne aveva mai perso uno e non ne aveva mai avuto uno bianco. In preda all’agitazione e ai brutti pensieri, si affrettò a uscire.
Alheen non si presentò al ministero e tutti furono sorpresi perché era andato anche il giorno che era morta sua moglie.
La voce si sparse veloce veloce e alcuni funzionari dissero di aver visto Alheen correre per le vie di Ahreheo senza fermarsi, come se il demone Aru muovesse le sue gambe per produrre calore con cui bruciare la legna dell’Inferno. Altri ancora riferirono che l’Imperatore lo aveva chiamato alla Capitale perché voleva farlo governatore della regione.
Sentendo fare questi discorsi e dire tante bugie, la vecchia puzzolente che faceva le pulizie al ministero affermò di sapere dove fosse Alheen e che lo avrebbe detto in cambio di una ciotola calda di brodo di lepre e una caraffa di vino. Tutti erano curiosi e così le promisero ciò che voleva.
La vecchia puzzolente si sentì importante e disse che Alheen era andato in gran segreto dal contabile Turuc e che lei lo sapeva perché lo aveva seguito.
A quel punto tutti scoppiarono a ridere e così anche la vecchia puzzolente scoppiò a ridere e chiese la sua ricompensa. Così i funzionari continuarono a ridere più forte e la presero a turno a calci nel sedere dicendole che quello era il suo premio per essere una spiona e di continuare a lavare i pavimenti, o le avrebbero dato altre ricompense.
Ma Alheen era andato davvero dal contabile Turuc, che era un suo uomo di fiducia e caro amico. Ogni anno Turuc contava i peli della barba di Alheen e riportava il numero su un foglio segreto che nascondeva. E ogni anno Turuc contava cinquemilaquattrocentosettantatré peli di colore nero.
Anche se li avevano contati pochi mesi prima, Alheen gli raccontò del suo ritrovamento e lo pregò di controllare.
Così Turuc contò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Così Turuc ricontò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Poi Alheen scoppiò a piangere e cominciò a darsi pugni sulla testa e Turuc lo fermò prima che si strappasse la barba a grandi ciuffi.
Alheen era disperato e Turuc era dispiaciuto per l’amico. Provò a consolarlo ma non ci riuscì e allora gli disse dopotutto è solo un pelo bianco e menomale che ne è caduto uno bianco!
Ma Alheen si arrabbiò molto e gli disse stupido, non lo sai che se cade un pelo bianco da una folta barba nera è presagio di grande sfortuna? Sei davvero un figlio di un cane e me ne vado prima di prenderti a bastonate!
E infatti dopo pochi giorni Alheen fu colpito da numerose sventure.
Ogni mattino trovava nel lavandino numerosi peli e la sua barba diventava sempre più striminzita e tutti i bambini della città di Ahreheo lo prendevano in giro e gli tiravano addosso le pietre quando passava. Alheen anche dimagrì molto perché tutto il cibo che comprava veniva divorato dalle formiche prima che riuscisse a mangiarlo. Era così asciutto da sembrare un fantasma delle paludi e, siccome molti al lavoro si spaventavano nel vederlo, il magistrato gli ordinò di rimanere a casa per curarsi e non tornare finché non fosse guarito.
Nessuno riconosceva più Alheen e tutti lo scambiavano per un mendicante pidocchioso.
Lui si sentiva a poco a poco morire perché nessuno gli dava del cibo e in casa non ne aveva più.
Così un giorno andò nella locanda di Shyin dove andava sempre, ma Shyin non lo riconobbe e lo cacciò via a manate. Allora provò nella locanda di Assaji dove anche andava sempre, ma Assaji non lo riconobbe e lo cacciò via a calci. Allora provò nella locanda di Semin dove anche andava sempre, ma Semin non lo riconobbe e lo cacciò via a bastonate.
Ormai rassegnato e col corpo livido, Alheen il ricco funzionario del ministero si trascinò verso l’uscita della città, deciso a farla finita.
Proprio mentre superava l’ultima casa, vide uno splendido edifico che non aveva mai visto prima. Era una grossa locanda con enormi tavoli in legno e stendardi dorati a forma di dente di tigre. Alheen pensò che un posto così bello non lo aveva mai visto ed era strano e che avrebbe tanto voluto andarci. Ma nessuno lo avrebbe voluto e lo superò.
Una voce di donna però lo chiamò signore! signore! e lui incredulo si girò e vide questa donna vestita da cameriera che gli faceva segno di avvicinarsi. Lui non si mosse e così la donna andò da lui, lo prese sottobraccio e lo fece sedere a uno dei tavoli. L’uomo rimase meravigliato, ma non fece in tempo a parlare perché la donna scomparve nella locanda.
Dopo un po’ che l’aspettava, la donna tornò con un vassoio pieno di cibi di ogni tipo e Alheen divorò tutto con grande voracità, senza preoccuparsi di sporcarsi tutta la faccia. Tanto non sono più io pensò.
La donna portò molti vassoi per molto tempo e Alheen mangiò tutto.
Perché siete così buona con uno schifoso mendicante chiese e la donna rispose io so chi siete voi. Siete voi che non lo sapete più. Ma io vi voglio aiutare e ora che avete mangiato potete partire. Partire per dove? chiese Alheen. Per le paludi. Dovete cercare Rael lo spirito della palude. Sono sicura che vi si mostrerà e vi aiuterà, anche se vi farà credere di no. Voi fate tutto quello che vi dice e sarete chi eravate.
L’uomo ringraziò la donna molte volte chinando il capo e uscì dalla città.
Arrivò alle paludi dopo molte ore. La notte non lo spaventava più, perché egli stesso era un fantasma e gli spiritelli facevano i dispetti solo agli uomini.
Cercò e cercò, ma non trovò nulla. Era disperato ma continuò a vagare per le paludi.
A un certo punto vide una palla di luce bianca sopra a una pozza di acqua putrida.
Vieni qui e purificati disse la voce di donna più bella che avesse mai sentito.
Alheen pensò che fosse Rael e fece ciò che gli era stato comandato.
Sei proprio uno scemo iniziò a canzonarlo la voce. Sei uno scemo, stupido puzzone di un mendicante fantasmino. Adesso che sei entrato nella pozza il tuo fetore è come quello di dieci elefanti morti. Fai così schifo che le acque non ti annegano perché nemmeno la Morte ti vuole con lei.
Alheen disse è vero.
Adesso devi saltellare come le pulci che vivono nelle tue orecchie e poi rotolare come i maiali nel fango.
Sì disse Alheen e lo fece.
Adesso devi bere tutta l’acqua che puoi bere e non devi né vomitare né cacarti addosso.
L’uomo bevve tutta l’acqua putrida e con grande forza di volontà riuscì a non vomitare e a non cacarsi addosso.
Bravo scemo disse la palla di luce bianca fai più schifo dell’acqua in cui sguazzi.
E sparì.
Alheen scoppiò a piangere e decise di ammazzarsi. Così si inginocchiò e mise la testa sott’acqua e si obbligò di respirare.
Proprio quando i polmoni erano pieni di melma putrida, Alheen spalancò gli occhi e vide una giovane sott’acqua come lui che lo guardava. Era sicuramente la ragazza più bella che avesse mai visto e subito s’innamorò. Lei lo prese per i capelli e lo fece riemergere. I polmoni si riempirono di aria e Alheen vide che la ragazza aveva orecchie di volpe. Capì che era Rael lo spirito della palude. Tu sei un uomo povero, perché sei sempre stato povero disse Rael e dopo un po’ tutte le verità degli uomini si mostrano per quelle che sono. Alheen sapeva che era vero e rimase zitto. È scritto che tu farai cose importanti ma tu hai già sprecato metà della tua esistenza e non hai fatto nulla di buono. Gli dei ti hanno dato tanti talenti e tu li hai usati per accontentarti di una vita mediocre da uomo mediocre e allora è giusto tu muoia e che i tuoi talenti vengano riassegnati a un uomo migliore di te. Alheen sapeva che era tutto vero e allora disse voglio cambiare, ti prego dimmi cosa devo fare, tu hai ragione perché io sono un uomo piccolo piccolo e tu una una giovane ragazza grande grande. Mettimi alla prova, io farò tutto ciò che mi comanderai e non ti deluderò. Rael lo guardò sospettosa, poi gli sorrise e gli disse di tornare a casa. Alheen si innamorò del suo sorriso e tornò a casa pensando solo a esso.
Trascorsero molti giorni e Alheen recuperò l’aspetto e la salute di un tempo: persino la barba ricrebbe folta, nera e rigogliosa. Il suo prestigio tornò a precederlo e per strada tutti lo riverivano e nelle locande tutti lo servivano. Il magistrato gli restituì il suo impiego e tutte le voci su di lui cessarono.
Una sera stava mangiando un cosciotto di capra quando sentì bussare alla porta. Aprì e si trovò davanti la vecchia puzzolente. Ho fame gli disse inginocchiandosi e sbattendo molte volte la fronte contro il terreno. Alheem scoppiò a ridere e stava per chiuderle la porta in faccia, quando si ricordò di cosa volesse dire morire di fame. Allora si affrettò ad aiutare la vecchia puzzolente ad alzarsi e la fece entrare.
La vecchia teneva lo sguardo basso e si vergognava molto, ma Alheen la fece accomodare alla sua tavola e le servì tutte le pietanze che aveva cucinato per sé. La vecchia mangiò tutto molto in fretta e dopo aver ringraziato andò via.
Alheem era molto felice ed ebbe un sonno riposante e ricco di sogni, come non ne aveva da tempo.
Il giorno dopo al ministero vide che la vecchia puzzolente veniva derisa e presa a calci da due giovani funzionari e si ricordò dei calci e delle bastonate che aveva ricevuto anche lui. Allora ordinò smettetela! e li fece frustare cinquanta volte per uno. Da quel giorno nessuno maltrattò più la vecchia.
La sera stessa, all’ora di cena, sentì nuovamente bussare alla sua porta. Era la vecchia che inginocchiata sbatteva la fronte contro il terreno dicendo ho fame. Alheen la portò in casa e la sfamò con tutto il cibo che aveva.
Lei sorrise soddisfatta e sazia e lui si innamorò del suo sorriso.
Così fu per molte sere e molte cene, finché Alheen disse io sono un uomo solo e vedovo e la mia casa ha bisogno di una donna. Io amo il tuo sorriso e soddisfarti mi rallegra e fa sentire un uomo migliore. La donna arrossì e rimase davvero sorpresa quando Alheen le chiese vuoi sposarmi?
Due settimane dopo erano marito e moglie e al matrimonio non era andato nessuno, dato che tutti ridevano della vecchia puzzolente e dicevano che Alheen era diventato matto.
Ma Alheen non se ne curò, perché era molto innamorato e non gli importava d’altro.
Passarono molti giorni e molte notti, quando una sera la vecchia disse non mi sento molto bene e si ammalò.
Alheen era in pena per la sua sposa e il suo animo soffriva.
Mentre piangeva e accendeva numerosi bastoncini di incenso agli dei, pregandoli di salvare sua moglie, successe qualcosa di straordinario.
La vecchia gli disse avvicinati al letto e accarezzò la sua faccia e la sua barba. Alheen piangeva e la donna, veramente colpita per quanta devozione il marito avesse per lei, sorrise. Subito, il suo corpo divenne luce blu e poi azzurra, fino a diventare una palla di luce bianca.
L’uomo non capiva, ma invece di spaventarsi rimase immobile, pronto ad affrontare ciò che sarebbe accaduto.
Ora che ti sei salvato disse la palla di luce bianca riavrai indietro tua moglie.
La luce esplose e tornò a essere corpo e carne.
Alheen ci mise un po’ a riaprire gli occhi accecati dalle scintille bianche e quando riuscì trovò davanti a sé, seduta sul letto, Rael lo spirito della palude.
La giovane ragazza disse hai fatto ciò che volevo quando ero una palla di luce bianca nella palude e mi hai dimostrato rispetto e fedeltà quando ero una vecchia puzzolente. Ora io sono tua moglie perché da molto tempo siamo sposati e la volontà degli dei si realizzerà.
Alheen, grazie a una serie di eventi straordinari, divenne imperatore e con la sua saggezza evitò molte guerre e salvò molte vite. Sotto di lui, il regno fu prospero e la vita serena. Dall’unione con Rael ebbe tredici figli e morì a centotrentasette anni insieme alla propria moglie. Il suo spirito salì in Paradiso e divenne Imperatore del Regno dei Cieli con la sua fedele Rael come regina.

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La capra e l’alluvione (ft. Valerio Codispoti)

  • Allora, Buteo… ˗ Disse il Tenente Marcolin. Si tenne con una mano alla scrivania e iniziò a far dondolare la sedia. ˗ …È tutto?

Il Maresciallo Staglianò riassestò il peso scostando il dorso dallo schienale e annuì. Incrociò velocemente lo sguardo del superiore. Poi fissò il calendario dell’Arma inchiodato al muro, davanti a sé: ˗ È tutto. ˗ Confermò.

  • Tutto, tutto? Sei sicuro, buteo?

  • Tutto, Tenè! ˗ Esclamò Staglianò, la lingua tra i denti e un filo di saliva a bagnargli le labbra.

  • E va bene, calmati. Va bene… ˗ Minimizzò Marcolin. Con il mento indicò la scrivania al fondo della stanza e diede ordine all’Appuntato di procedere: ˗ Avanti Rosolino, rileggi. Ad alta voce, dall’inizio.

Rosolino cliccò due volte il mouse e avvicinò la testa al monitor. Schiarì la voce con un colpo di tosse e cominciò in un italiano stravagante, fatto d’accento siciliano e cantilena settentrionale.

Nel corrente anno, in data ICS, durante l’ultimo (e tra parentesi piovosissimo) giorno di servizio presso caserma di prossimità in IPSILON, frazione di ZETA, io sottoscritto – Maresciallo Staglianò Vito -, in attesa di riassegnazione presso codesta sede(tra parentesi la scrivente), asservita al capoluogo DOPPIAVVU, mi trovavo nel pieno adempimento del mio solitario dovere, ovvero: aspettavo l’arrivo dell’ufficiale incaricato all’avvicendamento…

QUANDO…

Sentivo bussare al portone.

  • Un momento. ˗ Interruppe la lettura Staglianò. ˗ “Piovosissimo” rende poco l’idea del clima che c’era quel giorno. Altro che pioggia: tempesta, direi. Burrasca perfino, dal cielo l’iradiddio è venuta giù!

  • E va bene. ˗ Confermò Marcolin. Poi, rivolgendosi all’Appuntato: ˗ Rosolin, correggi con “…durante l’ultimo (e tra parentesi tempestosissimo) giorno…”. Anzi, no! Meglio: “l’ultimo (e tra parentesi burrascosissimo) giorno di servizio…” e vai avanti.

Pertanto, continuando a udire persistiti colpi al portone, rallegrato all’idea di effettuale arrivo del tanto agognato sostituto, mi recavo ad aprire il predetto dovendo altresì constatare che dinnanzi a me non si parava l’auspicato ufficiale, quanto il cittadino Andracchio S., di Notargiacomo M. A., (tra parentesi già vedova del fu Andracchio P.).

Professione del vivente Andracchio: impiegato pastorizio. Età: variabile, anni presumibilmente compresi tra 40 e 65. Causa di tale approssimazione: sole.

  • Ma non s’era detto che pioveva? ˗ Intervenne con scrupolosità e annesso vanto l’appuntato. ˗ E mo che c’azzecca ‘sto sole?

  • Quell’Andracchio lì fa il pastore, Rosolin. ˗ Spiegò il Tenente, compiaciuto del ragionamento che stava facendo. ˗ L’età è variabile perché il sole, col mestiere che fa, negli anni, gli ha arrostito la faccia, il collo, le mani, tutto. Vai avanti: leggi oltre, per favore.

  • Dunque… ˗ Riprese l’appuntato.

A puntuale interrogazione del sottoscritto Maresciallo Staglianò Vito (tra parentesi testuale: che ci fate voi qui?), segue immediata risposta dell’Andracchio.

Piove.

E quindi?

Dilluvia.

E allora?

Un maciello.

Un macello?

Dalla montagna, per la fiumara, se n’è venuta giù la pineta. Pini, tavolini da pic nic e tiro al piattello annessi.

Addirittura?

Addirittura.

Ci sono vittime?

Macchè, qui se fa due gocce si chiudono tutti in casa, figurarsi co ‘sta tempesta.

Ah.

Un’allucione, vero e proprio.

Un che?

L’allucione.

Parlate chiaro, Andracchio!

Come si dice quando l’acqua si mangia tutto?

Alluvione?

Ecco, alluvione! Vedesse che ha fatto l’alluvione, Marescià! Il mare è venuto su, fino alla statale. S’è mangiato mezza strada.

E ci sono stati incidenti?

Zero. Tutti a casa stanno, pure le macchine, ve l’ho detto.

E allora, che c’è? Che siete venuto a fare qui?

M’è sparita una capra.

Una capra?

Teresa.

Teresa come?

Teresa, la capra.

Ah.

Eh.

Andracchio, io non ho capito. Insomma, che volete da me?

Voglio fare denuncia. Indagine, ricerche, avvisi, chil’havisto, e tutto quanto.

Ma io non posso mica uscire da qui. Da un momento all’altro aspetto il sostituto da OMEGA, Andracchio. Voi capite bene, non posso proprio assentarmi.

Forse non mi sono spiegato, Staglianò. Il mare pure la ferrovia s’è mangiato. I binari sembrano crosta di pecorino. E quello che non se l’è preso il mare, sospeso in aria sta, come il canestro di una ricotta.

Quindi il treno da OMEGA…

Ma quale treno e treno! Qui di treni, da ALFA e da OMEGA, oggi e chissà per quanti anni a venire, non ne vediamo più.

Ah.

E allora?

Allora… (tra parentesi puntini sospensivi a indicare esitazione)…Allora andiamo a cercare ‘sta capra.

Teresa.

Chi?

Teresa, la capra. La amo, Marescià.

  • Staglianò, ˗ Intervenne Marcolin. ˗ Detto tra noi, fuori verbale, da uomo a uomo. Ma la capra, Teresa intendo, com’era?

  • Ehhhh, Tenente mio… ˗ Sospirò il Maresciallo. Incrociò le braccia e inarcò il busto, la testa ciondolante oltre lo schienale. ˗ Una meraviglia, ma che dico: una bellezza, sette bellezze. Voi ce l’avete presente la Loren da giovane?

Marcolin annuì serrando le labbra; sul mento la pelle e la barba raggrinzirono in profonde pieghe.

  • Bella, bellissima. Mezza bianca, e mezza marrò. Un pelo lungo lungo, liscio, morbido. Seta, pareva. E poi due corna, che corna, Tenente mio! Toste, dure, dritte. Di marmo, sembravano fatte.

  • Quindi lei… tu Staglianò…con la Teresa… ˗ Avrebbe voluto chiedere Marcolin, ma stabilì di mantenere un contegno. Drizzò la schiena, tirò i polsini della camicia e piantò i pugni sul piano della scrivania. ˗ Va bene, Rosolino. ˗ Disse, ˗ Procediamo, vai avanti.

Così, a seguito di regolare denuncia, il sottoscritto procedeva a regolare indagini sul campo di cui – le indagini e non il campo – si fornisce precipuamente evidenza:

  1. UNO: sopralluogo preliminare in località PIANI DEI PECORAI, all’interno dell’attività pastorizia del già citato ANDRACCHIO S. con alacre verifica strutturale della costruzione lignea delimitante il domicilio della Dispersa (tra parentesi cosiddetto OVILE);

  1. DUE: accertata – attraverso carotaggio del terreno per mezzo di apposito tirabusciò – positivamente tale tenuta, l’indagine proseguiva raccogliendo testimonianza oculare. Il soggetto testimone, Arbusto di Gramigna selvatica (le cui generalità, tra parentesi, sono quivi secretate in rispetto alla normativa sulla privacy), dichiarava: “A ora di pranzo vidi Teresa uscire dal proprio domicilio per dirigersi spedita direzione sud, in località marina, in prossimità di secolare campo d’ulivi.”

Note di identikit a margine: a protezione dalla pioggia battente – ma che dico pioggia, tempesta, ma che dico tempesta, burrasca – al momento della scomparsa la suddetta indossava zoccoli con galosce e cerata impermeabile sulle corna. Colore della cerata: variabile dal carminio al fucsia. Marca: irriconoscibile causa pioggia, ma che dico pioggia;

  1. TRE: alla luce di tali indicazioni proseguiva pertanto l’indagine con ridiscesa(tra parentesi imperviosissima) del sottoscritto a valle. Non potendo valicare il fiume a causa degli innumerevoli detriti che lo stesso trasportava – dalla fonte fin l’ estuario – ostruendone ponti, valichi e stradine limitrofe, si ricorreva all’utilizzo d’un mezzo d’emergenza fornito dallo stesso Andracchio: una scrofa domestica, (è noto, tra parentesi, quanto i maiali abbiamo agio e sollazzo tra il fango) e finalmente si raggiungeva campo di ulivi in località MARINA.

TRE BIS: Qui, a causa delle innumerevoli, reticenti e finanche contraddittorie testimonianze dei citati alberi secolari, il sottoscritto, come da sub regolamento investigativo dell’Arma, procedeva a un contraddittorio all’americana. Tale confronto forniva incontrovertibile riconoscimento che ultimo avvistamento della capra era stato rinvenuto a margine del campo, lungo la strada statale 106quatris, in prossimità del mare;

  1. ivi recaticisi, il sottoscritto e la scrofa domestica senza parentesi, lungo lingua d’asfalto prospiciente recentissima frana,

SI CONVENIVA

inequivocabile traccia visivo/olfatto/gustativa di sangue e latte caprino. Il Catrame (tra parentesi nome e cognome secretati a causa di provvedimento restrittivo già in atto sull’indagato in questione) interpellato circa tali evidenze accusatorie, si limitava a rispondere, in lacrime (o forse, tra parentesi, vista la tempesta non erano lacrime ma soltanto pioggia, ma che dico tempesta, burrasca): “È colpa dell’acqua, se l’è portata via lei.”;

QUATTRO BIS: incalzato circa le citate presenze di sangue e latte il catrame fatalmente e definitivamente illustrava: “Il latte è perché quando è arrivata l’onda la povera Teresa s’è spaventata, se l’è fatta sotto dalla paura. Il sangue… bhè, il sangue Iddio solo lo sa. In ogni caso,” aggiungeva il Catrame, “ma questo rimanga tra noi, Maresciallo, per me è tutta colpa del mare. Io non le ho detto niente, Marescià, ma con le opportune verifiche si renderà anche lei conto che è l’unica spiegazione plausibile…”

  • Fine. ˗ Disse Rosolino. ˗ Data ICSIPSILONZETA , luogo DOPPIAVU. E poi mancano solo le vostre firme.

  • Scusa Staglianò, ma a quel punto tu perché non sei andato a chiedere al Mare? ˗ Incalzò Marcolin.

  • Ci ho provato Tenente, ci ho provato. Mi creda che ci ho provato. Lei può immaginare la difficoltà, peraltro, di riuscire ad ottenere un colloquio. Sa quante volte ho dovuto fare avanti e indietro dalla battigia? Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.

  • Insomma Staglianò…ma tu…con la Teresa… ˗ Congetturò ancora nella propria testa Marcolin. ˗ Tu e la Teresa, diciamo, eravate amici? ˗ Stava per chiedergli, ma il Maresciallo riprese a parlare interrompendo il filo di quel ragionamento.

  • E poi mi era arrivata la voce che era meglio lasciar perdere. Che il Mare è una cosa troppo grossa per un Maresciallo. E a forza di fare avanti e indietro avrei finito per bagnarmi i calzoni. Lei capisce cosa intendo, vero, Tenente?

  • Capisco, capisco. ˗ Lo confortò Marcolin. Poi, dopo una breve pausa, finalmente: ˗ Staglianò, posso farti una domanda personale? ˗ Chiese abbassando di un tono la voce.

  • Prego.

  • Ma tu l’avevi mai vista prima la Teresa?

  • No.

  • E scusa, ma allora come…?

  • Così. ˗ Disse candido Staglianò. Sganciò i bottoni dorati d’ordinanza e dalla tasca interna della giacca estrasse un articolo di giornale ripiegato in quattro. ˗ Così. ˗ Ripeté. Poi stese la carta sul piano della scrivania e la ruotò, immagini e testo in favore del Tenente Marcolin.

L’articolo, strappato da una rivista settimanale di gossip, ritraeva il pastore Andracchio in posa con la sua nuova compagna, un cinghiale. La quale teneva in braccio un neonato. Tra le righe dell’intervista risaltava, in grassetto, un virgolettato dell’Andracchio: “ Grazie a lei ho superato il dramma di Teresa.”

Poi, più in basso, in un angolo della pagina, incastonata in un tondo dai contorni sottili, la foto di Teresa, la capra. “Era bella,” recitava la didascalia dell’immagine, “come la Loren da giovane. Ma il Mare me l’ha portata via.”

Le onde mi cullano e non mi resta che immaginare di essere tra le tue braccia.

Intorno a me, l’acqua riflette il cielo notturno più bello che si possa sperare di vedere.

Quante volte abbiamo guardato le stelle, amore mio? Seduti sul prato, la schiena contro lo steccato di legno: io mi spaventavo per ogni ombra troppo lunga e tu subito afferravi le mie corna e mi accarezzavi dolcemente, fino a farmi addormentare.

Vorrei essere lì con te, adesso, ma so che non posso.

Nemmeno tu, per quanto coraggioso, puoi sfidare il Mare.

Il Mare è immenso – è davanti gli occhi a tutti, è nella carne di ognuno – il Mare è un bambino egoista: si prende ciò che vuole da noi, senza chiedere, e non ce lo restituisce mai.

È un sadico, il Mare: t’illude d’avere speranza, ti spinge verso riva, ma poi ti richiama subito a sé. Non ci lascia mai liberi davvero. Ho provato a ribellarmi, sai amore mio? Pensavo avesse un senso lottare, pensavo che in nome di noi due valesse la pena farlo. E invece: guardaci, adesso, guardami. Guardami da dove ti scrivo. Giù, a fondo, nel buio più buio.

Qui dove sono adesso, amore, non c’è alto e basso, né destra né sinistra. Non ci sono curve, non ci sono rettilinei. Solo acqua. Acqua e altra acqua ancora. Nera nera.

L’idea di morire in questo modo mi ammazza più della morte stessa. Se potessi esprimere un desiderio, amore mio, uno soltanto, vorrei chiedere di scappare e tornare ai tuoi occhi scuri.

Ma desideri, qui, non ce ne sono più. Ne ho avuto uno quand’ero viva: amare, amarti. Vedi dove mi ha portato? Dove ci ha portati? Ora, l’unica cosa che mi è concessa, è dirti che ho sbagliato. E se è vero come è vero che sono qui sperduta nel nero, ti chiedo scusa, amore mio. Ti chiedo scusa per il dolore che ti procurato. Ti chiedo scusa di averci provato, di essere andata io al Mare. Solo adesso mi rendo conto che non avere scelta equivale ad avere una scelta precisa. Col Mare, ho scoperto, è così. Tutto, e allo stesso tempo niente. Come quello che è rimasto del nostro amore.

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Tutto il resto può aspettare

Prendere una curva agli ottanta non è il massimo, soprattutto su una strada non illuminata. Dirò che c’era un cinghiale e ho sterzato per evitarlo. Cappottarsi è inevitabile. Era successo anche a Massimo e nessuno ne aveva dubitato. Il problema sarà spiegare perché mi sono ribaltato su questa strada. Puttane. Dirò che volevo vedere le puttane. Quando sei triste, non c’è cosa migliore. Noi lo facevamo sempre, prima di tornare a casa. Abbiamo iniziato che ancora non eravamo maggiorenni. Tranne Massimo, lui è più grande di un paio d’anni e la macchina era sua. Finito l’ultimo grammo d’erba e buttata giù l’ultima goccia di tamango, riempivamo quella maledetta Panda, partivamo da Piazza Vittorio e andavamo a vederle. Ogni tanto ci parlavamo pure. Una volta io, un’altra Davide, poi Fabrizio. Massimo mai, che doveva essere pronto a partire se passava la polizia. Immagino che per le puttane fosse noioso perdere del tempo con noi. Un giorno, però, la ragazza di Fabrizio l’ha scoperto e gli ha detto di smetterla. Ci abbiamo riso sopra. Poi è successa la stessa cosa a Davide e alla fine mi sembrava di essere in una canzone, solo che al posto del bar noi avevamo la macchina. Non conoscevo ancora Cristina. Quando ci siamo messi insieme, ho smesso anche io.

Non mi dà neanche il tempo di entrare in casa. Mi prende la testa tra le mani, mi bacia, sussurra qualcosa. Dice che ha sbagliato tutto, che adesso ha capito. Ride, sorride, piange. Mi guardo attorno, mentre mi trascina in camera sua. Non entro in questa casa da un paio d’anni. È uguale a quando l’ho lasciata. La casa, intendo. Lei, invece, è diversa. Non è più una ragazza. È come se si fosse liberata dell’età con una scrollata. Penso di amarla ancora.

Che poi secondo me anche una pianta si accorge di star morendo. Mi fa un po’ ridere pensare di essere estirpato da questo mondo. Fa molto filosofo, o scrittore. Io ci ho provato a fare lo scrittore, ma non avevo l’attitudine. O forse non è andata così. È che a un certo punto non me ne è più fregato niente. Da quando Cristina se n’è andata, non ho più avuto obiettivi. E’ tutto così vuoto, così grigio. A ogni modo, dicevo che non so se avrò il tempo di dire a qualcuno del cinghiale.

Resta accesa solo una piccola lampada. Lei è raggomitolata al mio fianco. Il letto è a una piazza e mi costringe a starle vicino abbastanza da sentirne il respiro caldo. Ha gli occhi grigi, o almeno è quello che sostiene. Ho smesso di dirle che secondo me sono verdi, di un verde bellissimo. Ho smesso di dirle tante cose. Una, però, provo a non reprimerla. Il tuo profumo mi fa sempre impazzire, dico. Lei sorride.

Facciamo finta che il cellulare sia ancora nella tasca destra dei miei pantaloni e che non si sia rotto: come lo prendo? Non sono mai stato molto atletico, ma sfido chiunque a stare a testa in giù – se non per vomitare, come facevamo noi – con le gambe piegate che fanno di tutto per caderti addosso, il braccio destro spezzato, il sangue che dalla fronte ti gocciola nei capelli e qualcosa che attraversa la spalla sinistra. Sfido chiunque nella mia situazione a prendere quel maledetto cellulare. Credo che la cintura di sicurezza mi abbia compresso al punto che lo stomaco mi si è piazzato tra i polmoni. Dovrò dire al meccanico che non è esploso l’airbag. L’assicurazione pagherà? Ma soprattutto, qualcuno passerà da queste parti? Tutto questo mi ricorda che volevo fare un’esperienza di rally. Solo che là ti fanno affiancare da un professionista. Io non capisco niente di motori, ma la velocità della macchina mi fa impazzire. Ogni tanto, quando torno a casa, sposto indietro il sedile e inclino lo schienale. Sostanzialmente resto sdraiato. Poi, quando so che la strada sarà libera, inizio a spingere come un dannato. È che mi sento libero.

Dimmi qualcosa che non so, chiede mentre le accarezzo i capelli. Sono morbidi, castani, mossi. Non so cosa dire. Non riesco a staccare gli occhi dalle sue labbra. Lei le fa vibrare, sottili, e insiste. La sua schiena è perfetta. Non come la mia, simile a una S. Ricordo che ero bravo con le parole, che in fondo era quello che volevo fare nella vita. Guardo per un istante il soffitto. Stringimi in un calice infuocato/fa di un ricordo l’odore che hai assaporato/io sono il do/la nota più bassa che tu hai trascurato. Sospira. Mi sei mancata, dico. Sai cosa? dice stringendosi a me. La guardo curioso. Non le stacco gli occhi dalle labbra. È strano, ma anche divertente. Se uno dei due morisse, per l’altro sarebbe una tragedia. Sorride. Già, dico. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.

Mi sentivo libero quando scrivevo. Mi divertiva giocare con le parole e con lo stile. In redazione dicevano: bravo Valerio, hai talento. Mi piaceva mandare i miei racconti, pensavo di aver trovato finalmente qualcosa di vero, di sincero. Ma nella scrittura, di vero e sincero c’è poco o niente. In fondo, com’è che diceva quello stronzo del direttore? Che è come essere artigiani, apprendisti, garzoni. Che a furia di lavorare si diventa migliori. Ma lo si deve fare tutti i giorni. Ho mollato perché non trovavo niente di spontaneo nel dirsi mi alzo e lavoro per otto ore. Mi sono detto: è l’unico modo, c’è poco da fare, ma allora non mi va. Facciano loro. Continuino con le loro stupide gare. Io mollo tutto. Non mi piacciono le catene. Invece il parapendio sì. Non l’ho mai fatto, ma voglio provare da anni. Mi immagino con le cuffie – non so nemmeno se sia possibile – e Neffa che mi dice è il ritorno del guaglione sulla traccia. Cristo, quanto mi manca Neffa. Comunque poi mi butto giù, guardo la Morte in faccia e le dico buh.

Vado via da Torino, dico. Lei mi guarda. Pensa che non sia vero. Non sto scherzando. Si mette cavalcioni su di me, le mani sul mio petto. I capelli le cadono fermi nel vuoto. Anche i seni, con le punte all’insù. Penso che restare non sarebbe neanche male. Si china a baciarmi. Tanto ci vedremmo solo quando hai voglia di ricordarti cosa vuol dire essere amata, come in questi due anni dico. Lo so, dice. Non finirà mai, ma non ho voglia di pensarci. Per una volta voglio credere che esista solo il qui e ora. Che se sto bene adesso, non per forza starò male domani. Perché? chiedo. La nostra vita è questa. Strana, ma è questa.

Fuori dalla macchina c’è Cristina. Sono sicuro di averla vista, chinata a sbirciare dal finestrino. Ha cercato il mio sguardo e l’ha trovato. Un po’ come quando ci siamo conosciuti. Ero appena andato a vivere da solo, per scrivere senza distrazioni. C’era un locale sotto casa e la sera stavo sempre là, seduto al bancone, da solo. Bevevo vino e leggevo. Una sera, un gruppo di ragazze entra. Il proprietario le indirizza verso un tavolo nell’altra sala. Riuscivo a vedere solo un posto, quello dove era seduta lei. L’ho guardata per tutta la sera, finché non se ne sono andate. Ma il giorno dopo è tornata, da sola. E ora è qua, fuori dalla macchina, che poi è ancora sua. Ricordo ancora quando l’abbiamo comprata. Avevo ventiquattro anni e convivevamo da uno. Abbiamo preso una Seicento usata, molto usata. L’ha comprata lei, ma ha voluto cointestarla. Mi ha lasciato tre anni dopo. Ha detto che potevo tenermi la macchina, che lei aveva i soldi per comprarne un’altra. E io l’ho tenuta, l’unica cosa che mi ricordasse di lei ogni giorno, che ancora ne respiravo il profumo.

La portiera si apre e Cristina entra dal lato del passeggero. Guarda il parabrezza sfondato, poi me. Provo a sorridere. Non credo di esserci riuscito. È strana. Il suo colorito tende al grigio, come gli occhi. Ora che li guardo, penso che abbia ragione lei. Non so come, ma è riuscita a sedersi. Al contrario. Come me. Le chiedo come ha fatto. Lei mi guarda senza rispondere. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Io chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.

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Un passo appena

Lei si alza la gonna.
Lei si alza la gonna e si lascia andare.
Cadere.
Morire.

Era bionda, forse bruna. Di sicuro non rossa.
Io ero seduto in un bar, lo sguardo costretto alla televisione.
Col passare dei minuti sempre più persone sono entrate e si sono accalcate davanti allo schermo. Il gestore non si è preoccupato che consumassero. Nessuno osava parlare. Avevamo capito tutti che stava succedendo qualcosa di grosso, che da quel momento il nostro paese sarebbe cambiato.
Pensai a mio figlio: era arruolabile.
Pregai Cristo Nostro Signore che non scoppiasse la guerra e che non lo richiamassero. Mio padre ha fatto il Vietnam. Non l’ho mai conosciuto.

Le torri crollano dicono.
Siamo sotto attacco insistono.
E’ un triste giorno per l’America concludono.

Il fumo riempì l’inquadratura e le nostre certezze vennero abbattute da due aerei di linea. Poi tre. Forse quattro.
Un uomo vicino al bancone scoppiò a piangere, mentre una giovane donna strinse a sé il proprio bambino.
Lasciai che la birra si scaldasse nel bicchiere. La gola secca mi fece tossire appena.
I giornalisti della CNN si fecero carico delle emozioni di tutti noi. Dissero esattamente ciò che stavamo pensando, senza lacrime e singhiozzi. Il fiume della storia umana si stava mostrando ai nostri occhi e loro avevano il privilegio di raccontarlo. Penso lo sapessero.

La telecamera decise di fendere il fumo che avvolgeva i piani alti della torre e provò a guardare oltre, nel tentativo di darci speranza. Non si può dare speranza quando non si vede nemmeno più il cielo.
C’erano degli uomini affacciati alle finestre. Alcuni si sporgevano, altri si sbracciavano, come passeggeri di un treno in partenza.
Probabilmente urlavano.
Nessuno di noi, compreso il cameraman, riuscì a levare lo sguardo. Rimanemmo tutti in silenzio, forse convinti che stando zitti non avremmo sottratto loro la voce e che se avessero continuato a urlare, qualcuno, magari Dio, li avrebbe sentiti e ascoltati.
Pregai anche per loro.
Pregai per mia moglie, che si era trasferita da poco nel Wisconsin. Il biglietto aereo gliel’avevano dato le mie continue sbronze e le troppe telefonate dei vicini al 911.
Non ho più toccato una donna, neanche una carezza.
Lei mi odia e anche mio figlio. Ma io pregai per loro. Da quel giorno non ho mai smesso.

Mi ricordai di essere in un programma di recupero per gli alcolisti. Non avrei dovuto stringere in mano un bicchiere. E quegli aerei non dovrebbero essere in quelle torri pensai. Se l’America si fosse arresa, l’avrei fatto anche io.
Ero un fatalista, uno di quelli che cercano dei segni per giustificare le proprie azioni. Probabilmente sarebbe stato corretto anche definirmi un senzapalle.
Le mie dita si adattavano alla forma del bicchiere, pronte a non lasciarlo andare.
Una sorta di bipolarismo faceva sì che una parte di me chiedesse di fornirle un motivo valido per non smettere di bere e l’altra, una sorta di cancro, glielo fornisse semplicemente guardandosi attorno.

Poi la inquadrarono.
Fu questione di un attimo, una manciata di secondi che decisero di apparire minuti.
C’era una donna in piedi, là dove avrebbe dovuto esserci una finestra.
Indossava una camicetta rossa e una gonna nera e guardava nel vuoto. Fissava ciò che le stava davanti come se non lo temesse e, al contrario, potesse controllarlo. Mentre tutti urlavano e sbracciavano, lei se ne stava ferma davanti alla tempesta proprio come l’uomo di quel quadro.
Nel silenzio generale del bar, io me ne innamorai. Un amore sincero e infantile, quello che ti fa chiedere a una perfetta sconosciuta di sposarti. Lo avrei fatto, lo leggevo nel fondo del mio bicchiere. Avrei lasciato alle spalle tutti i miei fallimenti per quella giovane donna e insieme avremmo avuto dei bambini, sì, e la domenica saremmo andati tutti insieme fuori città e io le avrei tenuto la portiera aperta, porgendole la mano per aiutarla a scendere.
Mi alzai in piedi pronto a correre fuori dal bar, per andare ad aspettarla ai piedi della torre. Nel momento stesso in cui l’avrei vista uscire, mi sarei inginocchiato ringraziando Dio. L’avrei presa per un braccio e insieme saremmo corsi via, al sicuro.

Poi la vidi.
Controllò che la camicetta fosse priva di pieghe e le cadesse ai fianchi così come provato più volte davanti allo specchio, quella mattina.
Si alzò la gonna nera perché non le intralciasse i movimenti. Giusto un po’, come dovesse affrontare la lunga scalinata di una chiesa.
Infine quel passo nel vuoto, avvolta dal fumo e dalla sua bellezza.

D’istinto, tesi le braccia in avanti come ad afferrarla, aspettandomi che potesse cascarmi addosso.
Non accadde.

La televisione continuò a restituirci la stessa inquadratura per molto tempo e molti furono gli uomini e le donne che guardammo buttarsi, padroni della propria vita e della propria morte.

Tornai al mio tavolo e al mio bicchiere. Lo strinsi, sconvolto nel mio lutto.
Brindo a te, amore mio pensai.
Per smettere di bere, ci sarebbe sempre stato un giorno migliore.

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Civetta

Non era ancora il tramonto, ma il cortile era già in ombra. L’uomo sul balcone del secondo piano pensò che le case popolari fossero così povere da non avere nemmeno diritto alla luce. Appoggiato alla ringhiera, lasciò la cenere penzolare dal mozzicone che stringeva tra pollice e medio. Aveva smesso con le cose superflue.

Il monolocale era spoglio, giusto un materasso per terra e qualche libro. Una lampadina bruciata era appesa al soffitto. Le serrande si erano rotte tempo prima. Ne aveva approfittato e si era fatto staccare la luce. Viveva secondo natura, svegliandosi all’alba e dormendo quando era troppo scuro per leggere. Una parte dei soldi guadagnati pulendo le scale finiva in sigarette, il resto nelle rose. Da quando aveva iniziato a comprarle, non poteva permettersi più di un pasto al giorno.

Si mise addosso qualcosa di pulito e riempì un sacco nero con i vestiti sparsi per terra.

Al lavasecco scambiò un saluto con gli altri clienti. Le solite facce, il solito cenno. Avviò la centrifuga e uscì, come sempre. Coprì l’isolato che lo separava dalla fioraia sentendo crescere in lui l’eccitazione.

La donna dietro al bancone sorrise. Arrossendo, gli chiese se avrebbe comprato una rosa al giorno anche per lei. L’uomo scosse la testa, poi lasciò le monete sul bancone e uscì.

Giorno dispari: rosa bianca.

Non faceva pulire il gambo; le spine dovevano ricordare il possibile dolore di ogni bellezza. Soffrire ogni giorno aiuta a non soffrire più. Una sorta di veleno. Recuperò i vestiti e tornò a casa. L’eccitazione era diventata aspettativa.

Pochi metri distanziavano il suo balcone da quello dell’appartamento di fronte. Le tende fini e l’interno ben illuminato erano suoi complici. Su quello strano palcoscenico, lo spettacolo era già iniziato. Un letto matrimoniale e due ragazzi davanti: lei era inginocchiata, stava facendo un pompino.

L’uomo non riusciva a mettere a fuoco la nudità di lei ed era costretto a immaginarla. Si accese una sigaretta; i due ora erano sul letto.

All’uomo parve che la ragazza lo guardasse. Urlava e gemeva e lo guardava.

L’uomo spense la sigaretta e si abbassò i pantaloni.

Iniziò a masturbarsi cercando lo sguardo di lei. Il buio escludeva tutto ciò che li circondava. C’erano solo lui e la ragazza. Di lei sapeva che aveva gli occhi grigi e qualche lentiggine, i capelli castani e un cappotto rosso. Sapeva anche che le piaceva essere presa da dietro, come in quel momento. Le sue urla gli facevano credere che fosse lui a fotterla.

Non era venuto. Quei due avevano finito e lui era rimasto col cazzo mezzo moscio in mano. Avevano spento la luce e l’avevano lasciato là da solo, in mezzo al nulla.

Ancora nudo, si buttò sul materasso.

La sveglia suonò: il sole ancora non illuminava la casa nella sua interezza. Aveva dormito poco e male. Mentre si radeva, le crepe dello specchio gli restituirono il volto deforme di un mostro. Arricciò le labbra. Le guance scavate erano lenzuoli impigliati agli zigomi pronunciati. Non sì sentì più brutto del necessario.

Prima di uscire recuperò la rosa dal vaso. L’acqua aveva mantenuto i petali freschi. Uscì di casa e, come ogni mattina, deviò verso l’altro condominio. Il portone era spalancato come tutti gli altri. Salì per i due piani e si trovò di fronte all’appartamento. Posò la rosa sul gatto dello zerbino e se ne andò.

A lavoro, la ripetitività del pulire le scale lo fece sprofondare nel proprio malessere. La ragazza lo aveva deluso. Per la prima volta, dopo mesi, non era più riuscita a soddisfarlo. Forse era il momento di cambiare. Decise di non pensarci.

La giornata proseguì anonima. Niente eccitazione, nessuna aspettativa. Al lavasecco, anche le facce degli avventori gli parvero maschere di tristezza. Persino la fioraia aveva di meglio da fare che dargli attenzione.

Giorno pari: rosa rossa.

Questa volta era in anticipo. Rimase in balcone a fumare finché non vide accendersi la luce dell’appartamento di fronte. Era irrequieto: aveva persino già sbottonato i pantaloni. Si concentrò su quello che vedeva e, quando non bastava, su quello che immaginava. Con la mano emulava il ritmo del bacino del ragazzo.

Non funzionò. Non era riuscito a concentrarsi, le urla della ragazza erano un’eco lontana. Si rivestì. Ormai era chiaro cosa dovesse fare. Non poteva più evitarlo.

Aspettò di vedere il ragazzo uscire dal condominio.

Le due: era una civetta pronta a braccare la preda per il proprio sostentamento.

Si vestì di tutto punto. Prese la rosa dal vaso e strinse il gambo, poi lo sfregò contro le proprie guance.

E’ necessario pensò nel salire le scale.

E’ necessario pensò nel bussare alla porta.

E’ necessario pensò nel guardare la ragazza.

E’ necessario pensò mentre sentiva rinascere il desiderio dentro di sé. Il corpo nudo di lei a terra, una collana di lividi a cingerle il collo e il sangue, il sangue a ridare passione a quel fiore che sembrava ormai appassito

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Racconto estratto dal libro “Io e la mia storia”

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Il volume completo, edito Mondadori, da un progetto di AIL, TITA e Scuola Holden, è scaricabile gratuitamente in pdf al link:
http://www.ail.it/ioelamiastoria/

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Carl e Jen

“Quando ero bambina, mio padre mi faceva sedere su una poltrona rossa. Sì, più o meno come questa. Diceva che era il mio trono e io la sua principessa. Avevo i capelli biondi, lunghi fino alla spalla, che finivano in boccoli. E un vestitino azzurro, sì. Lui si sedeva di fronte a me, al di là del tavolino, come te adesso.”

L’uomo abbassa di poco il giornale, per guardarla.

“E fumava la pipa, una vecchia pipa che aveva prima di conoscere mia madre. Aveva smesso, ma quando lei è morta ha ricominciato, finché non è morto anche lui.”

“Io non fumo la pipa” dice l’uomo.

“Sai Carl,” riprende la donna “lui non voleva che ti sposassi. Diceva che non avrei mai potuto essere felice con te. E sai perché lo diceva?”

“No, Jen. Avanti. Perché lo diceva?” dice Carl, ripiegando il giornale e posandolo.

“Perché era come te. O meglio, perché tu sei come lui.”

Carl non ha nulla da dire. Tutto quello che riesce a fare è lisciarsi i baffi e guardare sua moglie.

“Lui sapeva,” incalza Jen “che mi avresti trascurata. Mi avete messo entrambi su un trono e poi? Guardati, Carl. Guardati.”

E Carl prova a guardarsi, si alza pure. Decide di muovere i suoi passi silenziosi fino allo specchio sopra al pianoforte.

“Non capisco, Jen. Cos’ho che non va?”

La moglie, che ha seguito ogni suo movimento con una punta di divertimento, torna di colpo seria.

“Nulla. Proprio nulla” insiste Carl, ispezionando ogni suo profilo.

“Appunto.”

“Appunto cosa?”

“Persino tu, se ti guardi allo specchio, non vedi niente. Anzi, vedi il niente. Perché sei una nullità, Carl.”

Carl si volta verso la moglie, poi si ferma pensieroso. Non capisce perché gli stia facendo questo. Si è sempre assicurato di soddisfare ogni sua esigenza. Non ha nemmeno dovuto lavorare, pensa a tutto lui. E lei non se lo merita, lei che non è stata neanche capace di dargli un figlio. Questa storia del padre, poi. No, non può proprio accettare tutte queste cose.

“Jen, penso che dovresti portarmi più rispetto.”

“Rispetto!” gli fa il verso lei, prima di scoppiare a ridere. “E sentiamo, Carl, per cosa dovrei portarti questo rispetto?”

No. Questo non può proprio accettarlo. E’ pur sempre sua moglie!

“Non ti ho mai fatto mancare nulla, Jen. Dovresti essermi solo riconoscente. Se sei diventata la signora che sei, è solo grazie a me. E adesso basta, vattene a dormire. A quanto pare il brandy ti fa solo del male.”

“Oh. Non mi hai mai fatto mancare nulla. Ma non le senti le voci in giro? Possibile che siano arrivate a tutti tranne che a te?”

“Quali voci?”

“Quelle sulla moglie del grande Carl Hidle, che se la spassa allegramente con Billy Joy. Oh sì, Carl. Non hai idea di quante cose tu mi faccia mancare. Ma non preoccuparti, perché Billy riesce sempre a rimediare.”

Lo dice ridendo, con cattiveria.  E Carl non riesce proprio a spiegarsi questa crudeltà. Billy Joy, il ragazzetto che lavora nella drogheria del vecchio Murph. Sì, lo sapeva. Sapeva tutto. Quelle voci erano arrivate anche a lui, ma non le aveva mai ascoltate. Lui è fatto così. E anche adesso, le parole che sua moglie prova a piantargli come lame nel petto, non sono altro che un lontano ronzio che prova a distrarlo dalla sua vita.

“Oh Carl, come mi scopa bene Billy Joy! Lui sì che mi fa sentire una principessa.”

“Vuoi stare zitta, Jen?” urla.

“Attenzione! Carl si è arrabbiato!” lo canzona lei, sdraiandosi fin sui braccioli della poltrona.

“Ma guardati, Jen. Sei ubriaca e non sai nemmeno quello che stai dicendo. Te ne stai sulla tua poltrona, il tuo trono e mi punti il dito contro. Ma chi sei tu? Una viziata come tua madre. Sì, perché tua madre è stata la rovina di quel pover uomo che era tuo padre. Sempre con il suo bicchiere in mano, attaccata ai suoi soldi come una sanguisuga. E tu ne sei la degna erede.”

“Non ti permettere, Carl.”

Questa volta non lo dice ridendo. Le labbra si serrano in una sottile linea retta. Non le importa di quello che pensa Carl, è stato il mettere sullo stesso piano lei e sua madre ad averla risvegliata. Riprende il controllo di se stessa e si ricompone, dritta e poggiata allo schienale. Nella sua mano, il bicchiere trema. Di poco, ma trema.

“Voglio il divorzio.”

Lo dice velocemente, con un tono di voce impercettibile. Alza gli occhi al soffitto e stringe le labbra in una fessura. Sembra quasi lo faccia apposta: richiama al movimento ciascuno dei suoi muscoli facciali, a comporre mimiche definibili estreme. Agita le mani e riprende fiato e lo fa come se le due azioni fossero legate tra loro.

“Voglio il divorzio.”

Questa volta lo dice con calma. Dedica a ognuna delle tre parole il tempo di cui necessita. Le scandisce, ma sembra ripetere il tutto più per se stessa che per il povero Carl che, nel mentre, rimasto tanto fermo da sembrare rigido, si domanda se quelle che sente siano realmente le pulsazioni del suo cuore.

Tum. Tum. Tum.

No, Carl, non cadere. Fai qualcosa, presto: impedisci al tuo cuore di fermarsi proprio ora. L’orgoglio, Carl! Ma Carl non sembra volerci ascoltare e continua a precipitare. Giù, sempre più giù, nel nero abisso dell’amore. Si porta le mani al petto. Ci tiene, Carl. Ci tiene a quel matrimonio. Si porta le mani al petto per gridare il suo amore, ma l’urlo gli resta strozzato in gola, non vuole saperne di uscire. La bocca non ha spazio per far uscire la sua voce, è appena sufficiente a fare entrare l’aria di cui ha bisogno. Respira, Carl. Respira e urla e ama. Fai qualunque cosa, ma continua a vivere. Forza, Carl, forza!

Carl, però, non può più sentirci, né tantomeno ascoltarci. E’ in viaggio e non sa per dove. L’angoscia lo assale e lo rende consapevole del fatto che non avere più un corpo non ha alleviato il suo dolore. Forse Carl adesso crede che gli uomini abbiano un’anima e che i sentimenti ne facciano parte. Non potrebbe essere altrimenti. E che sollievo c’è nel morire, se le bestie peggiori continuano a girarti intorno, aspettando un tuo momento di debolezza? Oh, Carl, hai agognato così tanto la morte da rimanerne deluso. E’ così anche per gli altri uomini? Riponiamo davvero aspettative in un qualcosa che non potremo mai vivere? Forse Carl avrà modo di saperlo, dopotutto è in viaggio per il regno dei cieli. Si domanda cosa lo stia aspettando. Di fatto, Carl, si sente ancora vivo. Pensa ancora a quelle tre parole e di non essere più un uomo sposato.

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Nobiltà di strada

Tutto è cominciato una domenica mattina.

Ero nel letto con la mia puttana preferita, Sasha, una slava di vent’anni che se ne fregava dei miei quaranta. Se ne fregava di mia moglie, se ne fregava di mia figlia, se ne fregava del mio lavoro. A lei importava solo dei soldi e a me andava bene così. Non si faceva problemi a dire che si faceva rompere il culo solo per mettere altri cinquanta euro sotto il materasso. Che gran troia, Sasha. Ma comunque meno di tutti gli altri, quei leccaculo che mi circondano ogni giorno nella speranza di essere notati.

Ad ogni modo me ne stavo là a guardare il soffitto, con la sua testa tra le gambe, quando il cellulare ha iniziato a squillare. L’ho lasciato fare, non avevo alcuna intenzione di interrompere quel momento. Poi ha ripreso, con lo schermo illuminato e la vibrazione a farlo muovere per tutto il comodino. Sasha ha fatto per alzare la testa. Io l’ho ricacciata giù con la mano prima che riuscisse a guardarmi negli occhi. Ma ormai tutto era finito. La mia voglia aveva lasciato posto alla curiosità di sapere chi rompesse i coglioni alle otto di mattina. Persino Dio si riposò la domenica. Ma noi siamo uomini e non abbiamo proprio nulla di divino.

Il telefono riprese a squillare e questa volta risposi.

Era Mancosu, il brigadiere più stupido che conoscessi.

“Marescia’, la disturbo?” disse.

“Sì.”

“Senta, qui c’abbiamo un morto. Anzi, una morta.”

Non dissi nulla.

“So che è domenica, marescia’, ma mi hanno detto di chiamare lei, che questa c’ha i soldi e vogliono lei.”

“Dov’è?”

“Precollina, marescia’, Via delle Viole 4. La passo a prendere?”

“No, Mancosu. Adesso vengo.”

Non mi ero nemmeno fatto una doccia. Quella giornata non se lo meritava. Questa città di merda non se lo meritava. Avevo lasciato la macchina a tre isolati da casa di Sasha, in Via De Sanctis. I palazzi più brutti che abbia mai visto. Di giorno è la zona più lercia di Torino, di notte la più trafficata. Qui alle puttane ci tengono. Hanno pure messo una corsia apposta per loro, così uno non le tira sotto mentre passa. Ogni dieci metri ce n’è una e si alternano: quelle che ti mostrano il culo e quelle che allungano la gamba per fermarti, per farti capire che hanno la cocaina. Le ho provate tutte. Poi è arrivata Sasha e ho iniziato a essere fedele, come è giusto che sia un uomo della mia età. La prima volta che l’ho caricata in macchina non ha detto niente, a differenza delle altre. Guardava dritto davanti a sé e per un momento ho pensato che fosse una principiante e che avessi sbagliato. Ma una puttana non puoi mica lasciarla in mezzo alla strada. Quando l’hai presa te la devi tenere. Le ho messo una mano tra le cosce ed era così bagnata che ho pensato fosse predestinata a quel lavoro. E che sarebbe stata una bella scopata.

Mentre passavo in macchina da Corso Vittorio vedevo le persone entrare in chiesa. Io non sono credente. Ho fatto finta di esserlo quando ho sposato Giulia, quindici anni fa. Lei era così felice. Si era convinta della mia conversione, che fossi diventato un uomo migliore. Diceva che un carabiniere doveva essere un buon cristiano, che non poteva rischiare di morire e trovarsi le porte del Paradiso chiuse. E se tu muori, Massimo? Se ti sparano, come la trovo la pace io, sapendo che sei allInferno diceva. Forse aveva ragione e per un po’ ci ho creduto anche io. Poi un pallettone ha fatto saltare la testa a Filippo mentre era seduto accanto a me e, un po’ per questo, un po’ perché il proiettile non me lo sono beccato io, ho smesso di credere a tutte quelle puttanate. Filippo sì che era un brigadiere. Sceglievo sempre lui come compagno per i turni. Aveva un umorismo tutto suo, un’ironia cinica che non ti saresti mai aspettato da un ragazzetto con la faccia d’angelo. Avrebbe fatto carriera, lo sapevano tutti. Era glaciale, ambizioso, duro. Quello che dovremmo essere tutti noi. Pace all’anima sua.

Quando sono arrivato in Via delle Viole, ho riconosciuto il posto dalle macchine dei colleghi lasciate in mezzo alla strada, davanti al cancello. Quelle villette sono tutte uguali: bianche, con un po’ di edera, il giardino ben curato. Banali e scontate, come i loro proprietari. Ho inchiodato e sono tornato indietro di duecento metri. Volevo farmeli a piedi, avevo bisogno di fumare senza che nessuno mi disturbasse. Ho assaporato ogni singolo tiro di quella sigaretta. Ho riempito i polmoni di quel fumo grigio e denso, sperando che vi ci si appiccicasse. Mi ero rotto i coglioni. Volevo morire. E volevo farmi una striscia.

Quello che ho imparato di questo lavoro e più in generale della vita, è che devi mostrarti agli altri come se fosse impossibile scalfirti. Devi dominarli, intimorirli, umiliarli. Così ho gettato con forza il mozzicone per terra, senza pestarlo, lasciandolo là a consumarsi sull’asfalto. Ho percorso quei duecento metri come se mi portassero alla mia tomba. Testa alta, sguardo fermo nel vuoto.

Sono entrato in casa strappando il nastro giallo alla porta e ho puntato Mancosu.

“Che cazzo è successo?” ho detto prima che aprisse bocca.

Mancosu ha balbettato qualcosa e mi ha indicato il piano di sopra, la stanza che stava proprio sopra di noi. Sembrava un topo, Mancosu, con quei suoi baffetti neri, gli occhi schiacciati e le orecchie pelose. Mentre salivo per le scale, lo sentivo sgattaiolare dietro di me, squittendo ad ogni passo su quella moquette rossa che rivestiva i gradini. Sono entrato nella stanza da letto facendomi spazio tra quelle nullità che si facevano da parte al mio passare, riverendomi e abbassando la testa.

“Di chi è il cadavere?”

Mancosu si affrettò a rispondermi, ma io non gli prestai attenzione. Sapevo esattamente di chi fosse.

La baronessa Veronica Verri, una di quelle donne convinte che si stia ancora nell’ottocento. Di quelle che conoscono le persone giuste nei posti giusti. Di quelle che la mattina guanti rosa, pelliccia e un foulard stretto al collo come un guinzaglio, mentre portano a passeggio il loro cane da concorso. La feccia. Ti guardano dall’alto della loro condizione, coperte dalle loro maschere di finto pudore. Ma io ho imparato a conoscerle. So che non possono reggere questo inganno, che prima o poi il trucco cola e la loro debolezza si manifesta sotto forma di vizio. Quello che è successo a questa Veronica Verri, che mi stava davanti sdraiata nel suo letto, nuda nella sua guepière nera, la testa sfondata da un martello.

Quel cazzone di Mancosu si stava trattenendo dal vomitare e non faceva nulla per nasconderlo. Filippo, invece, avrebbe ghignato e detto qualcosa tipo che una massaia aveva lasciato là il mortaio con cui stava preparando il paté di olive, con il pestello ancora dentro e il lavoro da finire. E avremmo riso. Cristo se avremmo riso.

“Mancosu, cazzo.”

“Sì, commissa’.”

Se avesse vomitato, l’avrei preso a schiaffi davanti a tutti. Il suo sguardo mi stava implorando di lasciarlo andare in bagno, come se avesse annusato delle briciole di formaggio, ma io non avevo alcuna intenzione di dargli quella soddisfazione. Doveva imparare a essere uomo. E così lo guardavo farfugliare e boccheggiare, la pelle grigia, e pensavo che doveva essere la stessa faccia che faceva quella poveretta della moglie quando se lo ritrovava nudo in camera da letto.

“Che schifo, Mancosu. Che schifo.”

Il cadavere della Verri fu coperto con un telo bianco, ma questo non lo avrebbe aiutato a nascondersi da me, a mentirmi sulla sua morte. Avevo già capito ogni cosa. La puttana si era portata il suo giocattolo a casa per farsi scopare, e magari prima l’aveva pure fatto ubriacare, ma alla fine qualcosa doveva essere andato storto ed era finita a martellate in testa. Un ragazzo adescato con l’unico scopo di sbattere quella carne flaccida, che ora si ritrovava rovinato per il resto della sua vita. Perché io l’avrei trovato e lui sarebbe finito a marcire in galera, poco ma sicuro. Mi sarebbe dispiaciuto, ma è il mio lavoro. L’unica cosa che so fare bene, l’unica cosa che mi piace.

Levai il lenzuolo da quello che restava della testa. L’occhio destro era di poco fuori orbita, una pallina bianca che sembrava fissarmi. Il copriletto bordeaux era ricamato dal sangue nero che era colato dalla parte cava della faccia. Frattaglie di cervello e osso erano incrostate tutto intorno. Mi chiesi perché un martello e non un proiettile. Ma il disgusto per quello che rappresentava quella persona mi spinse a compiacermi di questa sua morte, avvenuta con la stessa intensità che vi avrei messo io.

Ero lì, fermo in un ghigno, quando il dottor Verano mi raggiunse. Disse che sarebbe stato un caso semplice, che sul manico del martello erano ben visibili le impronte dell’assassino. Questo gli fece dedurre che poteva essere stato un raptus e che l’omicida doveva essere scappato in preda al panico, una volta realizzata la cosa.

“Lei lo sa come vanno queste cose, commissario. Quanti ne ha visti, di questi casi? Comunque, io me ne vado a casa. Mia moglie mi starà preparando un bel pranzetto. La fortuna che abbiamo, Aressa. Non come questi disperati, questi figli della strada, pronti ad ammazzarti per una mela marcia.”

Dissi di sì, ma pensavo a Sasha. Pensavo a lei nuda sotto di me. Pensavo a lei che soffocava le urla nel cuscino. E alle grida di Aurora, mia figlia, che ogni notte spazzavano via il silenzio e il mio desiderio per Giulia. L’unica fortuna che avevo con lei era che non si lamentasse quando me ne andavo e la lasciavo ad occuparsi di nostra figlia. Era una donna forte, poteva farcela benissimo da sola. E poi non ho mai sopportato di stare in tre nello stesso letto, con la bambina in mezzo, a ricordarmi ogni istante la distanza che c’era tra me e sua madre.

Ai due lati del letto della baronessa c’erano due comodini in legno di chissà quale epoca, con sopra due lampade in oro e alcune fotografie. In una, dalla cornice in legno lucido, se ne stava sorridente accanto a quella che doveva essere stata la sua servitù anni prima; nell’altra, più recente, veniva tenuta sottobraccio da un uomo molto più anziano di lei, con i capelli bianchi ben pettinati e un completo nero. Avevano entrambi un’espressione composta, ma lasciavano trasparire un velo di triste umanità dei loro occhi. Quelli di lui scuri, quelli di lei di un azzurro sciupato, quasi verdi. Pensai fosse il maggiordomo, magari uno che aveva passato la vita a servire e riverire quella famiglia. Mi domandai ad alta voce dove potesse essere in quel momento.

“In cucina” rispose Mancosu.

Alzai gli occhi su di lui, che subito li abbassò.

“E’ il marito, marescia’. Vuole parlare con lei. Scende o gli dico che sale?”

“Domani, Mancosu. In caserma. Oggi è domenica.”

La notizia di un marito mi aveva sorpreso. Invece di stringersi, il cerchio si allargava e tutte le certezze che avevo avuto fino a quel momento erano diventate polvere. Uscii dalla casa passando per la porta di servizio. Non avevo voglia di parlare né con quell’uomo, né con i giornalisti, così diedi a Mancosu carta bianca sul da farsi. Che ci mettesse lui la faccia, che i cittadini rimanessero soddisfatti nel vedere che il loro ideale di carabiniere si realizzava in quel sorcio balbettante frasi di circostanza in televisione.

Raggiunsi la macchina e mi voltai per guardare il gruppo di persone che si era riunito davanti alla casa. I flash degli scatti schiarivano quella giornata invernale che non si decideva a iniziare. Entrai e presi il mio secondo cellulare. Chiamai l’unico numero salvato, quello di Sasha.

Tornai a casa alle quattro del mattino, ubriaco e con il naso imbottito di cocaina. Giulia aveva lasciato accesa la lampada del mio comodino. Era rannicchiata nella sua metà di letto, quella che dava alla porta, coperta di una sola vestaglia di raso nera. Ricordai di quando gliel’avevo regalata. Stavamo insieme da quattro anni e io ero stato via per lavoro, dalle parti di Roma. La vestaglia era in una vetrina e pensai a come sarebbe caduta sui suoi seni e poi sui suoi fianchi. La immaginai ballare sotto la luna, con i capelli castani a rifletterne i raggi. Avremmo fatto l’amore e le avrei chiesto di sposarmi. Avrei voluto ricordarmi solo di quello e per una volta dimenticare quello che venne poi. Il suo respingermi tutta la notte, le sue lacrime, lei che confessa di avermi tradito. La vestaglia di raso per terra, ai piedi del letto, calpestata.

Stava là e ogni cosa mi ricordava il cadavere della baronessa. Pensai di estrarre la pistola dalla fondina e di sfondarle la testa con il calcio. Poi di andare nella stanza di Aurora e urlarle che la mamma era morta. Le avrei messo la canna della pistola in bocca e avrei sparato due colpi. Le pareti della cameretta sarebbero state finalmente di quel rosso che Giulia voleva tanto. Sarei andato in bagno a guardarmi nello specchio sopra il lavandino e mi sarei passato le mani sporche di sangue sulla faccia. Avrei sparato al mio riflesso e avrei potuto iniziare una nuova vita.

Di colpo smisi di fantasticare e mi sorpresi in ginocchio sul letto. Con una mano spostavo la vestaglia dal culo di Giulia, con l’altra mi tenevo il cazzo. Non indossava gli slip e la luce della lampada creava il suo gioco di ombre tra quelle cosce ancora sode. Iniziai a masturbarmi in silenzio e avrei voluto fosse tutto lì, che il solo guardarla svestita potesse restituirmi un’eccitazione quasi infantile. Ma come sempre qualcosa mi ricordò che non c’era più nulla. Prima la mia lingua tra le labbra umide di Sasha, poi il cazzo di Filippo tra le cosce di mia moglie.

Le misi la mano sinistra sulla schiena per tenerla ferma e glielo spinsi dentro con un unico colpo di bacino. Sentii una fitta di dolore e digrignai i denti. Era il prezzo da pagare per riprendermi mia moglie. Rimasi zitto e lasciai che fosse lei a urlare. Mi limitai a tenere fermo l’arco della sua schiena sotto la mia mano e a spingere. Sentivo la mia testa più pesante a ogni colpo. Mi pentii. Sperai finisse presto. Venni.

“Giulia.”

Poi nulla.

Torino di notte è la Città Nera, quella che dà vita insieme a Londra e San Francisco al triangolo della magia oscura. E’ la città di Satana, che dall’alto della statua di Piazza Statuto tiene d’occhio l’ingresso per gli Inferi. E che uno creda o meno a queste cose, non può non pensare che qualcosa di vero ci sia, che l’atmosfera che viene a crearsi è quella della dolce scoperta del peccato, quella del nulla è reale e tutto è lecito. Torino ti strega e ti seduce, prima di abbandonarti nel bel mezzo dell’amplesso, quell’istante che precede il sole alzarsi dietro al Faro della Maddalena per dare vita a quella che sarà per tutta la giornata la Città Bianca, al pari di Praga e Lione. Chiunque abbia vissuto almeno due giorni per le sue strade si sarà accorto di questo bipolarismo cromatico, di questa strana influenza che mostra l’uomo per quello che è: agnello di giorno e lupo di notte.

Rimasi con gli occhi sbarrati al soffitto, a chiedermi se la mia vita fosse tutta lì. Se le mie giornate dovessero soltanto essere un mal di testa cronico e un continuo bruciore di stomaco. Mi sentii soffocare dal profumo di Giulia, che era diventato lentamente il più pesante dei fetori. Per la prima volta nella mia vita provai compassione per Mancosu. Riuscivo a capire come si sentisse un topo in gabbia. E’ che una scappatoia pensi sempre di averla e ci basi sopra ogni tua strategia di vita. Ma è proprio come il sorcio e il labirinto, perché il sollievo arriva solo quando hai svoltato l’angolo dell’ostacolo e ti trovi davanti un corridoio, quello che pensi sia l’ultimo, quello che ti porterà fuori e ti farà gridare che sei libero. Ma alla fine il corridoio finisce e ti trovi di nuovo di fronte a due strade e non importa quale prenderai, perché sarà sempre quella sbagliata. Non si esce dai labirinti, è tutta una balla di chi li ha creati. Sono progettati per farti arrendere e morire, come questa vita di merda. Ma io non sono fatto così e me lo ripetei una volta, poi due, serrando i denti fino a sentire il sapore del sangue che mi usciva dalle gengive. Mi alzai e recuperai i vestiti dal pavimento. Erano le sette ed io scappavo da casa mia come l’amante perfetto, quello che non lascia tracce per il marito cornuto. Che poi ero io.

Feci tutta via Garibaldi, poi piazza Statuto, via Cernaia e corso Vinzaglio, dove vivevano i veri ricchi di Torino, quelli che non avevano bisogno di ostentare il proprio benessere e nascondevano le proprie ricchezze dentro palazzoni comuni, al più provvisti di un bel balcone in pietra.

Entrai in caserma senza salutare i due di guardia. Andai nel mio ufficio, al piano di sopra, e mi sedetti al buio, i gomiti sulla scrivania. Con una mano buttai per terra i pacchetti di sigarette vuoti, con l’altra presi la cornice con la foto di Sasha e la guardai negli occhi. Erano grigi. Come tutto. Sembrava più piccola di quello che fosse realmente e pensai che ero entrato nell’Arma che lei ancora doveva nascere. Pensai che avevo iniziato a scopare che lei ancora doveva nascere. Pensai che la mia vita era finita che lei ancora doveva nascere. Pensai. Pensai e basta.

Mancosu arrivò che erano le nove, sudato e con il sorriso di uno che stava per iniziare il suo primo giorno di lavoro. Aprì la porta del mio ufficio convinto non ci fosse nessuno e si mise a canticchiare una stupida canzoncina. Abbozzò anche un balletto, finché non si accorse di me è si fermò. Tra noi iniziò un inutile gioco di sguardi. Inutile perché sapevo già come sarebbe finito, con io vincitore e lui a guardarsi le scarpe di pelle consumata.

“Sai a cosa pensavo, Mancosu?”

“No, marescia’.”

“Che sono felice di averti come brigadiere.”

Mancosu sorrise, ma io continuai prima che potesse aprire bocca.

“Sono fortunato perché sei un coglione. E quelli come te, che ce l’hanno così moscio da pisciarsi le palle, sono come dei pesci rossi, che non reagiscono nemmeno quando li tiri fuori dall’acqua. Sì, certo, fai onestamente il tuo lavoro e magari a qualcuno piacerai anche, nulla da dire in contrario, ma questa è la tua misura, la tua boccia di vetro. Ti guardo il muso e so di avere le spalle coperte, di non avere nessuno che vuole fottermi il posto, né qui dentro né fuori. Sei fortunato perché tu non rischi un pallettone in testa. Chi potrebbe mai voler fare del male al povero Mancosu?”

Continuò a guardarmi, in silenzio.

Vaffanculo, pensai, vaffanculo Mancosu. Abbassa gli occhi su quelle cazzo di scarpe e faremo finta che non sia successo nulla.

Ma lui si limitò ad uscire, lasciandomi nel buio in cui mi ero rintanato. La giornata continuava a non promettere bene.

E infatti quel pomeriggio ricevetti una telefonata dal dottor Verano che mi comunicò l’identità dell’assassino della baronessa, tale Ivan Jonelus. Feci lasciare a Mancosu l’incarico di trovare qualsiasi cosa su di lui, mentre io mi preparai a ricevere il marito della baronessa.

Non ci mise molto ad arrivare. Il barone Gustavo Verri, così si era presentato, preoccupandosi di mettere bene in evidenza il suo titolo. Ebbi la stessa impressione di quando lo vidi in foto e cioè che avrebbe potuto essere tranquillamente il maggiordomo di quella casa da una vita. Racchiudeva in sé qualsiasi luogo comune, tant’è che pensai il suo comportamento fosse figlio di anni e anni di emulazione. La “r” moscia, il braccio destro sempre piegato in avanti e mai lungo il corpo, le labbra flesse verso il basso, in un sorriso di disprezzo.

“Sono il barone Gustavo Verri, marito dell’ormai defunta baronessa Veronica Verri” disse.

“Sì, sì, so chi è. Si sieda.”

“Volevo anzitutto manifestarle il mio sdegno e la mia incredulità per il trattamento ricevuto nella giornata di ieri da lei e i suoi uomini. Trovo insolito che il capitano Arnì, mio personalissimo amico, nonché compagno di innumerevoli doppi di tennis, non abbia comandato di seguire con urgenza l’omicidio della mia povera moglie, e devo quindi dedurne che la decisione sia la sua, maresciallo. Ovviamente mi aspetto delle scuse e delle spiegazioni.”

“L’unica spiegazione che posso darle è che sua moglie stava stesa sul vostro letto con il cranio sfondato da un martello, in intimo nero.”

Il barone mi fissò sorpreso. Non aveva capito che quelli come lui me li mangiavo quando volevo.

“Quindi,” continuai “perché non mi spiega dov’era lei mentre sua moglie veniva ammazzata?”

“Come si permette a insinuare una cosa del genere?”

“Senta, senza fare storie. Mi dica dov’era lei. È un formalità, mi serve il suo alibi. Io non ho voglia di stare qui ad ascoltarla e lei non mi trova molto simpatico, giusto? Avanti.”

“A un’importante serata di beneficenza a casa di un amico, il professor Santomoro, che lei di sicuro conoscerà.”

“No e non mi interesserebbe farlo.”

Non riuscivo più a sopportare di respirare la stessa aria di quell’uomo. Avevo la strana impressione che avesse ancora la sua bella maschera di trucco che non si decideva a colare. Mi alzai e me ne andai dal mio ufficio e dalla caserma.

Quella sera ricevetti due telefonate, una dal capitano Arnì, che non stetti manco ad ascoltare, e l’altra da Mancosu, che telegraficamente mi riferì che avevano tentato di mettersi in contatto con Ivan Jonelus, ma la madre aveva detto che era sparito da qualche giorno. Decisi che saremmo andati da lei il mattino seguente. Quella storia iniziava a non piacermi. Poi fu il turno della mia telefonata.

Mi svegliai con una serie di immagini che mi sfilavano in testa. Io che entravo in casa con un mazzo di fiori e trovavo sul mio letto Filippo e io accanto a lui in quel bar e io che vedevo uno che tirava fuori il cannone davanti a noi e io che mi abbassavo e Filippo che no e i suoi capelli biondi che non c’erano più e nemmeno la sua testa e lui che cadeva a terra e con lui il suo cervello. Proprio accanto a me. Ed ora accanto a me c’era Sasha e le sue labbra sul mio cazzo erano l’unica cosa reale di cui mi ricordassi.

La signora Jonelus aveva un viso asciutto e gli zigomi alti, i capelli corti e a boccoli. Disse che faceva le pulizie in una piccola azienda locale e che suo figlio non tornava a casa da tre giorni. Ci guardò con diffidenza e ci mostrò la camera di Ivan. Appesi al muro i poster di alcuni calciatori e qualche fotografia. Mancosu le chiese perché non ne avesse denunciato la scomparsa e la signora rispose che era già capitato che il figlio sparisse nei fine settimana, soprattutto quando aveva a che fare con dei clienti esigenti.

“Che genere di clienti, signora? Che lavoro fa suo figlio?” chiesi davanti a una tazza di caffè.

“Clienti molto importanti. Donne, perlopiù. Loro pagare bene, no?”

“Pagare bene per cosa, signora? Non abbiamo molto tempo da perdere.”

“Ma per sesso, no? Mio Ivan molto bello e tutte lo vogliono.”

“Lei vuole dire che suo figlio si prostituisce?”

“No. Mio Ivan porta a casa soldi della cena.”

“Vede signora,” si intromise Mancosu “suo figlio è ricercato per omicidio. Abbiamo trovato le sue impronte sull’arma del delitto.”

Dentro la mia testa tutto iniziò a sistemarsi come avrebbe dovuto. Veronica Verri approfitta del ricevimento del marito, un’amica le consiglia un ragazzo rumeno, Ivan, e lei lo chiama. Se lo coccola, lo riempie di soldi, ma lui vuole di più. E così la uccide. E tutti felici e contenti, pensai.

“Lei ha idea di dove potrebbe essere suo figlio?” domandai aggirandomi per la cucina e guardando le foto di Ivan appese.

L’idea ce la facemmo noi qualche giorno dopo, quando trovammo il suo cadavere sventrato in un sentiero di collina. Sul braccio destro si leggeva ancora la parola “libertà” tatuata in caratteri gotici. Nella tempia destra un buco da cui doveva essere colata via l’anima. Lo mettemmo in un telo bianco e lo maledicemmo per averci rovinato le indagini. Io ero particolarmente incazzato e un Mancosu così dedito al lavoro mi toglieva ogni possibilità di sfogo. Decisi di montare da solo in macchina e di andare a casa del barone Verri, per aggiornarlo sullo sviluppo delle indagini, come ordinatomi dal capitano.

Fu un’accoglienza fredda, ma di certo non mi ero fatto troppe aspettative. Mi trovai di nuovo a guardare le fotografie della baronessa, ma questa volta con svogliatezza. Informai il barone della morte di Ivan e lo avvertii che le indagini sarebbero andate avanti a lungo, ora che non c’era più un colpevole da far confessare.

“Le impronte sul martello, no? Quelle non bastano?” disse il barone, scocciato.

Stavo per rispondere, quando la frase del barone risuonò nella mia testa.

“Come dice?”

“Che mi sembrano un chiara prova.”

“Chi le ha detto delle impronte” chiesi, avvicinandomi.

I balbettii del barone mi ricordarono quelli di Mancosu e subito ripensai al topo nel labirinto e l’unica cosa che può stanarlo: il gatto.

“Dovremmo farci una bella chiacchierata, vero baronuccio? C’è forse qualcosa che non ci ha detto?”

Il signor Verri indietreggiò fino al muro, muovendo in avanti le sue mani coperte di guanti in pelle, come per allontanarmi.

“Vediamo se indovino. Lei torna a casa e trova sua moglie nel letto con un bel ragazzo. Sì, li trova avvinghiati nel suo letto che si divertono e magari lei urla pure di smettere che è tornato suo marito. Allora lei, signor Verri, spara in testa al ragazzo e poi ammazza sua moglie, giusto? Magari con quei guanti di pelle per non lasciare tracce. Poi cos’ha fatto? Ha messo il pestello in mano a Ivan quand’era già morto?”

Il barone si lasciò scivolare in terra e scoppiò a piangere. E nel mentre che piangeva sfoderò la pistola da dietro la schiena e fece fuoco. Uno contro uno.

Ho visto il proiettile partire e attraversare la testa di Filippo e la bocca di mia figlia Aurora. L’ho visto perforare le orecchie di Mancosu e i seni di mie moglie. Poi gli occhi di Sasha e fermarsi. Ho sentito Dio chiedermi se valesse la pena andare avanti, in un tripudio di colori e in preda a un’euforia mai provata. Io l’ho guardato negli occhi e gli ho detto che no, non ne valeva la pena. Poi ho sparato anche io, senza saperlo, e quel bastardo è rimasto inchiodato al muro.

 

“Non c’è lieto fine, non c’è nulla. Ci saremo solo noi, io e te. E la nostra bambina. Che poi sarà tutto quello che avremo. E la chiameremo Aurora, per ricordarci che c’è sempre il sole, prima e dopo ogni raggio di tenebra, no?”

“Sì…”

“E sarà la bambina più bella di tutte, perché sarà uguale a te e a nessun’altra. E riderà e guarderà il mondo come fai tu. E amando lei, io potrò amarti due volte.”

“Adesso stringimi, ho freddo. E dimmi che sarò solo tua.”

“Sì.”

“E tu solo mio.”

“Sì.”

“E che mi ami. Dimmi che mi ami.”

“Ti amo.”

“Anche io.”

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GIUDA

Giuda-Iscariota

Mi trascinarono sullo sterrato tenendomi per i capelli. Quando si furono stancati, me li tagliarono. Io non volevo. Io non capivo. Mi spogliarono e mi picchiarono. Quando fui esanime, si allontanarono. Sperai fosse tutto finito, ma in cuor mio sapevo che non era così.
Tornarono presto, ma non si avvicinarono.
Poi la prima pietra fu scagliata e mi colpì la spalla. Non dissi niente.
La seconda mi ruppe il ginocchio.
La terza il cranio.
Ma io rimasi zitto.

– Non lo posso fare, Maestro.
– Cerca di capire.
– Chiedilo a Marco, a Matteo. Loro ti seguiranno.
– Tu sei l’unico, fratello mio.
– Non lo voglio fare.
– Tu sei “colui che serve”. E’ nel tuo nome. E’ nel tuo sangue.
– Mi uccideranno.
– E’ nel volere di Dio.
– Sia fatta la sua volontà.
– E così sia.

Un bacio. Con un bacio. Morire per un bacio.
E dimenticarsi di quando si era bambini, di quando si giocava insieme. O forse ricordarlo troppo bene. Ai ricordi non puoi scappare. Io non ci sono riuscito. Non ho potuto. E non avrei voluto.

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ALBERGO A ORE

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– Me li hanno incartati nei bianchi lenzuoli e l’ultimo viaggio l’hanno fatto da soli. Però non è giusto morire a vent’anni e poi proprio lì.
– La morte non ha luogo, o età.
Il vecchio pescatore prese un verme e lo poggiò alla pietra che gli stava accanto, poi estrasse un piccolo coltello dalla tasca.
– Né specie – aggiunse, affondando la lama nell’esca.
Il ragazzo rimase a guardarlo in silenzio.
– Come San Pietro, gli ho dato le chiavi. Gli ho dato le chiavi di quel paradiso e ho chiuso la stanza sul loro sorriso.
– Ognuno è mano del Signore.
– Perché io? – urlò il ragazzo, alzandosi.
Il pescatore si girò a guardarlo.
– Dove hai detto che lavori?
– Io lavoro al bar d’un albergo a ore. Porto su il caffè a chi fa l’amore.
– E allora.
– Allora cosa?
– Ti sei risposto da solo.
Il vecchio ritrasse la lenza dall’acqua.
– Diavolo! – imprecò, vedendo l’amo privo di esca e preda.
– Vedi? Tu sei un verme.
– Come ti permetti, vecchio?
– Lui, – continuò tranquillo il vecchio indicando il cielo – ti ha infilzato all’amo della sua canna e ti ha usato. A differenza mia, però, ha fatto pesca grossa.
Bestemmiò e prese un’altra esca dal barattolo che teneva in tasca.
– E come pensi che ci si senta? Mi hanno chiesto una stanza. Gli ho fatto vedere
la meno schifosa, la numero tre… Puliti, educati, sembravano finti. Sembravano proprio due santi dipinti.
– E pure i santi muoiono – tagliò corto il vecchio.

– Sorella Luna, tu che ci guardi sempre, in silenzio di madre, ti prego, portami via. Fammi fuggire, che nessuno possa riconoscere in me quello che ha dato loro le chiavi di quel Paradiso. Io porto su il caffè a chi fa l’amore. E fanno su e giù, coppie tutte uguali, e non le vedo più, manco con gli occhiali. Perché loro, invece, li ho visti così bene? Perché so che non potrò più dimenticarmi delle loro facce? L’acqua del fiume scorre e pulisce e ci cambia e, forse, pur io avrei bisogno di lavarmi via questo rimorso, questa convinzione che mi infilza. Tu, pallida, che mi guardi a fare, se poi non consigli?
Il ragazzo si avvicinò alla riva e rimase a guardare l’acqua.
– lo sarò un cretino, ma, chissà perché, non mi va di dare a nessuno la chiave del tre.
Raccolse un sasso e lo lasciò cadere.
– Non l’avevo mai data a nessuno. E ho messo nel letto i lenzuoli più nuovi.
– Né fiori, né gente. Soltanto un furgone, ma, là dove stanno, staranno benone – canticchiò, mentre l’acqua gli cingeva la vita.

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