Archivi categoria: Psicosi

Psicosi 3

Ho trascorso il primo giorno a casa davanti al televisore. Era un mercoledì. Mi sono svegliato alle sette, come sempre, per abitudine, e ci ho messo un po’ a far passare quel senso di urgenza che mi attanagliava ogni mattina. In silenzio, mi sono vestito per andare a lavoro pur sapendo che non sarei andato oltre la cucina. Volevo che qualcosa rimanesse invariato, quotidiano.
Ho caricato la moka e mi sono seduto ad aspettare che Aurora si svegliasse. Non ero abituato a quella calma. L’orologio scandiva un tempo che non mi apparteneva, di cui avevo solo il ricordo. Ho preso il cellulare e ho controllato i siti dei vari quotidiani. Il numero di infetti si era alzato e c’era stato un picco di morti. Sono andato in soggiorno e ho preso un libro per distrarmi. Sulla poltrona, ho iniziato a sfogliare le pagine di un vecchio saggio di Schlegel. Trovato il segno, mi sono sforzato di leggere; senza riuscire. Era un plico di pagine bianche. Ho guardato la copertina, poi il dorso. L’ho riposto. Ho preso dalla libreria un romanzo di Simenon, e il telecomando. Il volume era basso dalla sera precedente. Aurora aveva guardato un film, io ero andato a dormire che mi si togliesse dalla testa lo scarponcino in camoscio di Marco. Aurora mi ha chiesto di stare insieme, che mi avrebbe fatto bene. Ha sorriso, ma stare bene non era quello che volevo. Quanti anni aveva Marco, mi sono chiesto? Non morivano solo i vecchi? 
Ogni canale aveva un giornalista, un medico e il suo contraddittorio. Quando il medico profetizzava che non sarebbe finita in fretta, la conduttrice lo interrompeva sorridendo e lanciava la pubblicità. Comparivano dei numeri, ci si chiedeva di donare a qualche istituto. Cambiavo canale, ma non c’era differenza tra uno studio e l’altro. A volte l’inquadratura si stringeva sulle labbra di un politico che elencava i doveri della classe dirigente e le proposte del suo partito. Bisognava collaborare, ma si provava a far cadere il governo. C’era chi si scusava coi cittadini, chi prometteva discontinuità, una nuova rotta. Più spesa, dicevano, e che l’Europa doveva ascoltare. Budapest ti sarebbe piaciuta, ho pensato. C’è una piazza, a Budapest, una piazza con un grosso monumento dedicato ai russi che avevano liberato la città dall’occupazione nazista. Gli abitanti non sapevano ancora cosa serbasse loro il futuro, della repressione, dei pogrom, delle fucilazioni. Quando il regime comunista cadde, i cittadini portarono fuori dalla città i monumenti eretti durante l’occupazione. Tutti tranne uno. Se avessero sgomberato la piazza di quel grosso monumento alla liberazione, in Russia ogni singola bara ungherese sarebbe stata scoperchiata e i morti sarebbero stati ammucchiati, forse a bruciare, forse a decomporsi. Gli ungheresi, messi alle strette, si limitarono a privare il monumento dell’illuminazione. Ricordo la mia mano in quella di Aurora, una notte sotto la pioggia, a guardarlo. La piazza buia, a eccezione di un piccolo rettangolo giallo, l’ufficio di qualche impiegato dell’ambasciata americana. Dietro al monumento, un bronzeo Ronald Reagan guardava verso casa, il passato alle spalle. 
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza. Lo proclamava con le labbra contratte in una smorfia, i capelli tinti fermi in un riporto. Intorno agli occhi la pelle era più chiara, come se avesse dormito sotto al sole con una mascherina. Mi sono ricordato di averlo visto in un manifesto a Londra, anni prima, stretto in un bacio appassionato con il leader britannico euroscettico. Avevano poi vinto, la Gran Bretagna non sarebbe più stata Europa. 
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza, proclamò, mentre i suoi funzionari trattavano in segreto con un’azienda tedesca per assicurarsi l’esclusiva sul futuro vaccino.
Ho sentito Aurora sbadigliare. Sono tornato in cucina e ho messo la moka sul fornello. Il fuoco basso, che il tempo non sarebbe mancato.

Pubblicità

Lascia un commento

Archiviato in Psicosi

Psicosi 2

Hanno diminuito le corse dei pullman, poi quelle della metropolitana. Ho iniziato ad andare al lavoro in bicicletta e pedalavo nelle strade deserte. Ogni tanto la sirena di un’ambulanza si faceva vicina, per poi disperdersi in qualche vicolo. Agli incroci si vedevano i primi posti di blocco della polizia. Ti fermavano, chiedevano dove andavi, verificavano, e facevano cenno di andartene. Qualcuno gli dava dei fascisti dal balcone. Loro alzavano la testa, sorridevano. 
Non avevo più bisogno di legare la bicicletta. Continuavo a farlo per abitudine, perché la mia quotidianità era ancora quella e nella mia quotidianità avevo bisogno di legare la bicicletta. Davanti al portone c’era il solito ragazzo che raccoglieva firme per una ong. Indossava la mascherina sotto gli occhi smarriti. In silenzio porgeva i fogli e la penna, ma era solo un accenno. Non parlava. Va’ a casa gli dicevo.
Nell’androne aspettavo l’ascensore osservando il mio riflesso nello specchio ossidato che mi stava di fronte. Avevo l’aria stanca e i capelli lunghi. I barbieri avevano chiuso. Dovevo chiedere ad Aurora di tagliarmeli.
In ufficio cercavamo di sdrammatizzare. Marco, dall’altro lato della scrivania, teneva aperto il sito dell’ambasciata ungherese. Doveva andare a Budapest con la fidanzata, i biglietti presi da mesi. Non ti fanno partire, gli ripetevo. Lui mi guardava torvo da sopra al monitor. Annamaria arrivava dal suo ufficio e mi rimproverava di lasciarlo stare. Era nuovo Marco, aveva voglia di farsi notare. Indossava delle camicie a quadri e degli scarponcini in camoscio, puliti e lucidi. È solo un’influenza, ripeteva. Una brutta influenza
Eravamo intasati dalle email di fornitori e distributori. Lo Stato aveva imposto delle restrizioni, intere città bloccate e i militari a presidiarne le uscite. La filiera era saltata e lavoravamo muovendo merce che non esisteva, credendo in un’inversione imminente, repentina. Non ci fu.
È andata avanti così per qualche giorno. In strada aumentavano le pattuglie e in ufficio l’apprensione. Quando arrivavo, non vedevo più il ragazzo delle firme davanti al portone. Alcuni colleghi si erano messi in ferie per stare a casa con i figli, perché le scuole avevano chiuso. Io telefonavo ad Aurora, e ridevo. Lo facevo per tranquillizzare Marco, per convincerlo che andasse tutto bene. Così dicevo ad Aurora che ci stavamo rilassando, che rubavamo lo stipendio; poi guardavo Marco e ridacchiavo che lui no, lui era ancora in prova.
A volte gli sgattaiolavo dietro, tornando dal bagno, mentre cercava l’Ungheria nella lista dei Paesi che impedivano voli dall’Italia, e iniziavo a tossire con forza. Lui si stringeva nelle spalle, Annamaria si sporgeva dall’altra stanza. 
Sedendomi alla scrivania, guardavo dalla finestra le Alpi fare da sfondo a una piazza deserta.

Una mattina ho trovato il portone socchiuso. Dall’androne e dalle scale veniva un vociare confuso, concitato. Al secondo piano la porta dell’ufficio era spalancata. Prima che potessi avvicinarmi, Annamaria è uscita, sconvolta. «Non entrare, Massimo» ha detto sbarrandomi il passaggio, le braccia aperte. «Non entrare.» Da dietro la porta, a terra, una gamba e un piede e uno scarponcino in camoscio, immobile. 
Alle mie spalle passi veloci e pesanti per le scale. Degli uomini vestiti di tute chimiche bianche ci hanno oltrepassati, le facce nascoste da grosse mascherine. 
«Ha iniziato a tossire, poi è caduto» ha detto Annamaria, seguendoli. «Non risponde.» Si è girata e mi ha fatto cenno di andarmene, prima di chiudersi la porta dietro. 
Sono tornato a casa, e da allora non sono più uscito.

Lascia un commento

Archiviato in Psicosi

Psicosi 1

È successo tutto molto in fretta, in realtà. A guardare le strade vuote e silenziose, le serrande abbassate, le persiane chiuse, si potrebbe pensare a una situazione immutata da quanto, mesi? Anni? Invece sono bastati pochi giorni. All’inizio mi veniva in mente una sola parola: psicosi. Vorrei saperne dare la genesi, di questa parola. Genesi. È così biblico. Non lo è? Quello che sta accadendo, voglio dire. 
Attraverso le fessure della veneziana guardo la fermata del pullman. Lo faccio soprattutto nelle ore di punta. O meglio, in quelle che lo erano. Cerco di immaginarla in un giorno di pioggia, con le persone che si stringono sotto la banchina, e il pullman che arriva sbuffando, stanco. Qualcuno non riesce a salire e rimane lì, sotto la tettoia gocciolante. Sono giorni che non c’è più nemmeno quel qualcuno.
Nessun rumore. 
Lo dicevo ad Aurora qualche tempo fa. Le chiedevo se riuscisse a immaginare la città silenziosa, come una volta. Tra tanti anni, con le auto elettriche, pensavo. Ora non serve più immaginarla. Tutti direbbero che è tranquilla, ma io dico disturbante. Una sera, in televisione avevano parlato di una ricerca svedese sul rumore delle città. C’era una classifica. Quelle peggiori erano sempre le stesse. Torino mancava. Nessuno dice mai nulla su Torino. Comunque, i rumori insopportabili sono il martello pneumatico e gli schiamazzi, più dello stridio della forchetta sul piatto. Non ho letto il silenzio. Eppure è il rumore peggiore, ora lo so. Le città dovevano essere orribili, prima. 
I telegiornali hanno sempre detto che la situazione era grave e che bisognava preoccuparsi, ma per i politici era tutto sotto controllo. A chi credere? Io e Aurora ci guardavamo, senza risposte. 
Ogni mattina un uomo entrava in cortile con la bicicletta. Si fermava davanti ai bidoni della plastica e iniziava a frugare, smuovendo la spazzatura con uno stecco di ferro. Quando trovava qualcosa, lo esaminava e lo riponeva in una cassetta della frutta usata come portapacchi. Per anni ho spiato quell’uomo da dietro la tenda. Per anni ho desiderato che chiudessero a chiave il cancello, che non potesse più entrare, di urlargli dietro che il mio era un cortile rispettabile. Poi ha smesso di venire. Eppure non è cambiato niente: il cancello è ancora aperto e io sono ancora alla finestra. Lui, però, non l’ho più visto. 

Prima, quando tutto era sotto controllo, andavo a lavoro con superbia. In metropolitana facevo le foto di nascosto a chi indossava la mascherina. Psicopatico, pensavo. Le mandavo ad Aurora e ridevamo. Stavo in mezzo agli altri passeggeri, fiero. Ero superiore. 
Una mattina i vagoni erano vuoti. L’orario era quello di sempre. Ho provato disagio. Non sono sceso, non mi sono presentato a lavoro. Sono andato fino al capolinea, e poi indietro. Seduto, guardavo il mio riflesso viaggiare nel tunnel illuminato della metropolitana. Per la prima volta in dieci anni mi sono accorto che quando il treno si ferma, le porte del vagone non combaciano con quelle della stazione. Mi sono chiesto se dovesse essere così. 
Mi sono accorto anche dei cinesi, di quanti fossero, del fatto che non stessero a casa. Vederli con le mascherine mi infastidiva. Ero dispiaciuto che i loro ristoranti stessero chiudendo, che non ci fossero clienti ai tavoli, ma preferivo non averli in metropolitana. Perché non si mettevano in quarantena? Era più sicuro. Per loro, intendo. Se ne saliva uno, mi allontanavo. Pensavo sarebbe stato meglio per loro stare in quarantena. Alcuni erano stati aggrediti. Non era più sicura, la quarantena? Non farsi vedere per un po’, far calmare le acque. Per buon senso, ecco.
Col passare dei giorni non è cambiato molto. I vagoni erano deserti. Gli unici passeggeri si appoggiavano a grossi trolley. Scendevano tutti a Porta Nuova e nessuno saliva. 
A casa lo dicevo ad Aurora. Quando rientravo, la trovavo sdraiata a letto, il laptop sulle cosce nude. Lei non doveva andare in ufficio, le bastava il computer. Non aveva molto da raccontarmi. Niente aneddoti sui colleghi, o sul capo. Non le piaceva lavorare così. Aveva bisogno di uscire, di tornare tardi e vedere un rifugio nella nostra casa. Così era un posto come un altro, diceva. Tutto uguale, pensavo io, cambiandomi. 
Cucinando, guardavo dalla finestra le strade deserte. Dalla televisione qualcuno ammoniva di non assaltare i supermercati, che le scorte non sarebbero finite. Ci abbiamo creduto. 
In una trasmissione, un politico emaciato stava contraddicendo un medico. Non c’era da preoccuparsi, non dovevamo cambiare stile di vita. Lavarci le mani un po’ di più, nient’altro. Un’influenza, diceva. È solo una brutta influenza. Abbiamo spento e lasciato i piatti sporchi nel lavello. Abbiamo fatto sesso con i vestiti ancora addosso.

Lascia un commento

Archiviato in Psicosi