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Mi chiamo Lucy Barton (****)

Affronto la recensione di questo romanzo col più profondo rispetto nei confronti di un’autrice dalla prosa magistrale, dotata di una tecnica narrativa capace di far impallidire gran parte degli autori contemporanei e Maestra indiscussa dei dialoghi. Eppure, per quanto dopo questa premessa possa sembrare che questo romanzo sia perfetto, devo osarmi nel dire che no, che questo romanzo non è perfetto, e che per me ha un terribile ed enorme difetto. Ma andiamo per gradi.

Elizabeth Strout – già premio Pulitzer nel 2009 – decide di prestare la propria voce e la propria penna a Lucy Barton, rendendola così protagonista, narratrice e autrice del romanzo Mi chiamo Lucy Barton. Questo espediente narrativo, questo far dimenticare al lettore che la storia sia frutto di fantasia, permette un’immedesimazione totale: è come se Lucy Barton si stesse confidando con noi, come se ci avesse fatti accomodare in salotto, davanti a una tazza di tè, e avesse iniziato a raccontarci la sua vita, a partire da quel giorno che, ricoverata in ospedale, ha visto comparire sua madre ai piedi del capezzale.
Perché è proprio così che inizia il romanzo: con il ricovero di Lucy – molti anni addietro – e la comparsa di sua madre, con cui non aveva più alcun rapporto da molti anni. La donna non entra in scena con sciocchi preamboli: è là. Semplicemente compare e tutto quello che vorresti fare è interrompere Lucy – sempre davanti alla tua tazza di tè – e chiederle se la madre fosse davvero là, o se fosse un fantasma, un sogno. Una scelta fantastica, questa evanescenza, da parte della Strout.
Eppure la madre c’è ed è una certezza, una delle poche informazioni che abbiamo all’inizio del libro. Non sappiamo nulla di Lucy, noi. E allora apprendiamo che Lucy rimarrà ricoverata per nove settimane in un ospedale di Manhattan, proprio di fronte al grattacielo Chrysler, e che la madre resterà ai piedi del suo letto per soli cinque giorni. Cinque giorni sui quali viene distribuito gran parte del carico narrativo del romanzo. Sarà proprio questo breve arco di tempo a permetterci di approfondire il rapporto tra le due donne e di svelare lentamente il passato di Lucy.
La narrazione è però frammentaria. Alle scene in ospedale, alla delicatezza dei dialoghi tra madre e figlia, vanno ad alternarsi frammenti del passato di Lucy che lei stessa ci racconta, nel suo presente narrativo, in quegli anni di molto posteriori al suo ricovero in ospedale. Così la narrazione diventa una treccia, una spirale chiusa e inattaccabile: Lucy racconta dell’ospedale e ciò che avviene in ospedale ci racconta a sua volta frammenti della vita della nostra protagonista; ci fornisce personaggi e vicende che hanno caratterizzato un’infanzia dura e difficile. Quella stessa infanzia che ha spinto Lucy ad allontanarsi dalla propria famiglia e dalla propria madre, a renderla spietata. Sì: Lucy è spietata. È lei stessa a dircelo, sul finire del romanzo.
Così quello che per molti viene definito un rapporto d’amore tra una madre e una figlia che si riabbracciano dopo tanti anni, nonostante tutto, nel momento del bisogno, per me non fa altro che definire a trecentosessanta gradi Lucy Barton, una donna spietata. Non c’è amore in quell’ospedale. C’è una giovane donna che vuole la mamma e che allo stesso tempo le imputa la propria natura, la colpevolizza per un affetto che non ha mai ricevuto. A Lucy Barton non interessa ciò che dice sua madre, le importa solo di sentire quella voce, di poterla avere di sottofondo mentre sonnecchia. La stessa Lucy ci confida spesso di non ricordarsi di quello che è stato detto, che crede che le parole fossero quelle.
Mi sono chiesto se Lucy Barton sia egoista o semplicemente incapace di amare. Lei che, a differenza di suo fratello e di sua sorella, riesce a scrollarsi via un’infanzia carica di vergogna e a diventare qualcuno, una scrittrice, ma che sull’altare di questo successo sacrifica tutto, pur senza rendersene conto. Lei, che per prendersi ciò che la vita le deve di diritto, rinuncia alla famiglia, al marito, alle figlie. Tutto solo per poi dire ho sbagliato. Tuttora mi chiedo chi sia davvero Lucy Barton e ogni volta ho il timore di sbagliarmi, di non poterla conoscere davvero. Questo perché Elizabeth Strout ha creato un personaggio talmente tridimensionale da averlo reso umano. Pur seguendo la sua voce in prima persona, noi non riusciamo a capire nel più profondo cosa stia pensando. Proprio come se fosse vera, in carne e ossa. Non è un semplice personaggio romanzato. No: Lucy Barton si ribella alla sua vita e ai suoi lettori. Comanda lei.
I fatti sono quelli, inderogabili, scolpiti nel tempo passato. Sono delle certezze immutabili e definite dalla maestria della penna di Elizabeth Strout.
Eppure, quello che filtra dal malinconico racconto di Lucy Barton, è che non vi sia sentimento. Che è un controsenso di per sé. Come fa un romanzo a essere così umano e allo stesso tempo privo di sentimento? Però è quello che io ho recepito. Come se il laconico racconto di Lucy Barton su quella che è stata la sua vita, di come ormai le cose siano andate così, trasmettesse una rassegnazione difficile da digerire. I fatti vengono riportati, nulla più, con un distacco che ci fa sempre sentire un po’ messi da parte. Questo è l’unico aspetto che ho trovato fastidioso in questo romanzo, ma non riesco ancora a capire se sia un difetto oggettivo o soltanto insofferenza nei confronti di una donna, Lucy Barton, che ho iniziato a odiare ogni giorno di più.

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Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Editore: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo di copertina: 17,50 euro

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Brucia la strega (1/2)

In questo momento non riesco a non pensare a Don Antonio e alle sue omelie. Una in particolare. Citava un passo del vangelo, forse Luca 15:2, che diceva più o meno vivrà nel fuoco della Bestia/brucerà il peccatore che ha dimenticato/come colui che ha tradito Cristo/ogni debito verrà pagato. Quella notte ho sognato di essere una strega, che molti uomini venissero a prendermi nel sonno e mi portassero in un bosco per bruciarmi viva. Il mio peccato? Aver fatto l’amore a quindici anni.

***

Eravamo al supermercato.
Sono scoppiata a ridere per una battuta di mio marito e, con un movimento brusco, ho fatto cadere un pacco di pasta dal carrello. Un signore si è avvicinato per raccoglierlo e io gli ho sorriso per ringraziarlo. Rimasti soli, mi è tornato da ridere. Non a mio marito, però. Mi ha guardata per qualche istante, poi si è limitato a dire vergogna.
Arrivati a casa, avevo appena posato le buste della spesa, quando mi ha afferrata per il polso e mi ha dato uno schiaffo in faccia. Io non me lo aspettavo e sono caduta per terra. Il pavimento era freddo; la mia guancia bruciava. Vergogna ha ripetuto e si è sfilato la cintura dai pantaloni. Io ho provato a replicare, ma la prima cinghiata mi ha ricacciato la voce in gola.

***

Non avevo fatto l’amore a cuor leggero, la prima volta. Come tutte le ragazze mi sono chiesta se fosse la persona giusta e se io fossi pronta. Ma il mio corpo, ormai, era quello di una donna e di donna erano anche le mie voglie. Così ho deciso di lasciarmi andare, felice e orgogliosa della mia decisione.
L’entusiasmo, o forse il non credermi più una ragazzina, mi ha portato a vedere mia madre come un’amica con cui confidarmi. E così ho fatto.
La mia era una madre moderna. Non se ne stava nell’angolo della cucina, zitta a guardare cosa facesse mio padre. No, lei era al passo coi tempi e spesso lo sfidava per dimostrargli che fossero sullo stesso piano. Così, subito dopo la mai confidenza, che aveva più il tono di una confessione, mi ha picchiata proprio come se fosse mio padre. E mentre lo faceva, continuava a darmi della svergognata e a chiedermi perché le avessi voluto fare del male. Perché la gente avrebbe parlato e loro che razza di genitori sarebbero stati, agli occhi degli altri?
Il lavandino era pieno dei miei capelli castani, strappati da quelle stesse mani in cui cercavo delle carezze. Ho contato le ciocche e per ciascuna di esse ho letto la definizione della parola vergogna.
La ricordo ancora adesso: vergogna s. f. Sentimento di colpa o di umiliante mortificazione che si prova per un atto o un comportamento, propri o altrui, sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti.

***

Io Massimo non l’ho mai giustificato.
Lui mi aveva picchiata e lo aveva fatto con crudeltà: la voce era fredda e pacata, la mano non aveva esitato. Non era stato un raptus. Eppure, ho creduto di doverlo aiutare. Aiutare, sì, perché da subito ho pensato che il suo fosse un problema. Ho sempre avuto la tendenza ad attribuire ogni azione, sbagliata o giusta che sia, a un fatto pregresso. Non so, magari qualcosa legato all’infanzia, su cui poi una persona costruisce un lato del proprio carattere. Ecco, quando mi ha picchiata, io Massimo lo conoscevo da otto anni e stavamo insieme da sette.
Ricordo quel ventiduenne gentile e sicuro di sé che mi fermava nei corridoi dell’università e che si faceva sempre avanti per offrirmi un caffè. Ricordo anche che più imparavo a conoscerlo, più quella sicurezza si mostrava fragilità. Massimo aveva paura che il suo ruolo di uomo venisse sovvertito. Per esempio aveva bisogno di pagare per me; oppure aveva bisogno che io non indossassi i tacchi, così da non essere più alta di lui. Aveva persino bisogno di diventare l’unica persona che riuscisse a farmi stare bene, perché credeva che solo così sarei rimasta con lui.

***

Anche se avevo solo quindici anni, dovevo sposarmi. Era questo che pensavano i miei genitori. Devi sposarti dicevano. Secondo loro – secondo tutti – solo il matrimonio avrebbe potuto restituirmi l’onore che avevo buttato via stupidamente. Me lo ripetevano ogni giorno, da quando avevano iniziato a parlarmi di nuovo. Io, però, invece di convincermene, iniziai solo a sentire crescere qualcosa dentro di me che mi avrebbe accompagnato per anni. Ogni volta che ero attratta da un ragazzo, o che più semplicemente sentivo il bisogno di averne uno, mi sentivo a disagio. Forse anche sporca. Di sicuro meritevole di una punizione. Sì, temevo che Dio mi avrebbe punita per le mie pulsioni impure.
Quando decidevo di andare a letto con un ragazzo, provavo uno sprizzante senso del pericolo e dello sbagliato. Mi lasciavo trascinare dalla passione e dai miei desideri, ma ero sempre consapevole che una parte di me pensasse che fosse sbagliato e che avrei dovuto fermarmi finché fossi stata in tempo. Durante i rapporti, il piacere schiacciava questa pulsione, ma, per quanto fossi trasportata e coinvolta, più i miei sensi si avvicinavano al culmine, più sentivo crescere, martellante, il senso di colpa. I miei orgasmi erano un’esplosione di gioia e tristezza allo stesso tempo ed era solo quest’ultima a trascinarsi fino alla fine, a tenermi compagnia anche quando ero rimasta sola nel mio letto.

***

Massimo non fu più lo stesso.
Forse è stato proprio il suo improvviso cambiamento a non farmi andare via, a convincermi che non potessi lasciarlo solo. Dopotutto negli anni avevo avuto anche io delle crisi e lui, rimanendo al mio fianco, mi aveva aiutata. Quando l’ho visto chiudersi sempre più in sé stesso e diventare solo uno spettatore del nostro rapporto, ho capito che aiutarlo fosse una mia responsabilità. Non ho mai sopportato chi distrugge una relazione solo perché sfaldare è più semplice che ricucire. E io ci ho provato: mi sono costretta ad arginare quella prima volta – che nella mia testa era anche l’ultima – nel cassetto delle esperienze sbagliate.
Una volta, a lezione, avevo sentito dire che persino un’esperienza negativa può essere un’opportunità. Ne ho fatto la mia filosofia di vita: trasformare una brutta situazione in un punto di partenza e non di arrivo. Io e Massimo avremmo potuto sfruttare l’occasione e, insieme, avremmo potuto cambiare e risolvere quelle debolezze della sua personalità che gli impedivano di vivere serenamente. E che la prima di queste sue fragilità si chiamasse vergogna, lo avevo ormai intuito.

***

E’ servito del tempo prima che riuscissi a trovarmi a mio agio con la mia sessualità. Ho dovuto fare un lungo lavoro su me stessa, a partire dalla rimozione di qualsiasi concetto cattolico che mi era stato inculcato durante l’infanzia. Forse è un po’ spietato affermare che il sesso e l’anima abbiano poco da spartire, ma la realtà ti costringe al cinismo. Mi sono ritrovata a usare gli uomini e a illuderli del contrario. Il modo migliore di sedurre è essere sedotti.
Per seguire l’università avevo dovuto trasferirmi. Dividevo un piccolo appartamento con una ragazza di Perugia. Spesso, quando uscivamo la sera, qualche ragazzo si faceva avanti per offrirmi da bere. Io accettavo. Non avevo remore nell’approfittare della stupidità maschile. Finivo il bicchiere, mostravo un bel sorriso e me ne tornavo a casa. Oppure decidevo di rimanere e di non tornarci da sola, a casa.
Avevo un’ottima media e agli occhi dei miei genitori era la dimostrazione che fossi diventata una brava ragazza. Come se non la fossi sempre stata… Poi è arrivato Massimo. Lui sì che speravo volesse offrirmi qualcosa. E infatti lo fece, più volte, ma io accettai solo la prima. Le altre, ognuno il suo. Con lui mi interessava avere un rapporto alla pari, anzi: con lui mi interessava avere un rapporto. Da allora, per anni, è stato l’unico uomo che ho frequentato.

***

Sapevo che Massimo sarebbe peggiorato.
Inizialmente sembrava non solo aver capito il suo errore, ma anche disposto ad affrontare i propri lati più torbidi. Io l’ho trattato amorevolmente, forse ancora più di prima, come se l’essere consapevole della sua debolezza mi spingesse a prendermi cura di lui. E’ stata la contraddizione maggiore con cui abbia dovuto convivere, perché io, quello schiaffo e quelle cinghiate, non ho potuto scordarli. Non era una questione di orgoglio ferito, si trattava proprio dell’essere stata ferita, nell’animo e fisicamente. Ho provato quel dolore che è figlio del tradimento e nella mia testa si è ricreata l’immagine di uno specchio che, illuminato al centro di una stanza buia, va in frantumi. Lo stesso specchio che avevo visto frantumarsi già una volta, da ragazza; l’identica sensazione di impotenza e incredulità, quando a mancare è proprio quell’appiglio che reputavamo eterno, solido, dalle radici profonde e incorruttibili. Avevo capito, inequivocabilmente, che tra me e Massimo era finita. Alle mie amiche, quando sfogavano le proprie frustrazioni di coppia, ripetevo che l’amore è solo un fatto di equilibrio e che i problemi devono essere relegati entro certi confini indelebili. Quando non si riesce ad arginarli, a ridurli, sforano e corrodono tutto e tu lo sai, tu te ne rendi conto, perché qualcosa in te muore e la senti morire, ma ormai non puoi più fare niente. Rattoppare è inutile. E’ tutto lì, l’amore.

***

Ero tornata ragazza. Era così che mi sentivo, che mi vedevo. Quando ero seduta al tavolino di un bar, mi sorprendevo a guardare un uomo poco distante: ne immaginavo il profumo, le carezze e persino l’intensità dei baci. Finivo per sorridere, imbarazzata ma felice. Finché non mi ricordavo di dover tornare a casa e di dover vedere Massimo, di dover passare del tempo con lui senza poterlo evitare. Vivevo di espedienti. La sera andavo a letto presto, anche se non avevo sonno, e se Massimo mi raggiungeva nell’immediato, fingevo di dormire. A fatica resistevo alle sue mani sul mio corpo. Avevo voglia, ma non con lui. Non cedevo. Non ero più una ragazzina, potevo controllarmi. L’astinenza mi confermò quello che già sapevo e cioè che non provavo più nulla per Massimo, nemmeno l’attrazione sufficiente per il sesso. Avrei potuto farlo, ma sarebbe stato come fare l’amore da sola. Era finita e me ne rammaricai. Era arrivato il momento di voltare pagina.

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Gli idioti del “Mein Kampf”

“E’ un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne. Ed è comprensibile perché gli uomini fanno scattare una legittima difesa contro il male assoluto. Parliamo di Hitler e del nazismo, la più grande tragedia – insieme al comunismo staliniano – del Novecento e tra le più orrende della storia intera del mondo.”

Questa è la motivazione fornita da Sallusti, direttore del quotidiano Il Giornale, a chi contesta la sua scelta di aver venduto, insieme al proprio giornale, una copia del “Mein Kampf” di Hitler.
Qualcosa di vero, in ciò che ha detto, c’è: è un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne.
E, difatti, io non ho problemi nel confessare che questa iniziativa mi ha terrorizzato. Io, che ritengo di essere un uomo di buona istruzione e di discreta cultura, che posso affermare di essere un lettore oggettivamente forte, sono terrorizzato e preoccupato dal gesto effettuato da Il Giornale. Attenzione: non perché sia la Storia di cui fa parte, a farmi paura; non perché voglia ignorare o dimenticare ciò che l’uomo ha dimostrato di poter fare, quando è la follia più pura ad animarlo.
Ciò che mi inquieta, al contrario, è che nessuno voglia vedere o voglia ammettere la gravità del significato che si cela dietro questa scellerata scelta editoriale. Ed è di questo che voglio parlare.

Ho detto di considerarmi in maniera oggettiva un lettore forte. Facciamo chiarezza con un po’ di numeri: il 9,1% delle famiglie italiane non ha alcun libro in casa e solo 4 persone su 10, nel 2015, hanno letto almeno un libro per piacere personale. I dati sono fonte ISTAT. Se già sembra poco – perché è poco – va ricordato che la categoria generica “libri” comprende quelli delle varie web-star, degli sportivi, dei personaggi televisivi, e ancora i libri di cucina, quelli che ti spiegano come avere una vita zen e quelli che ti ricordano dell’inferiorità del tuo partner semplicemente perché di sesso opposto. Tutte queste sottocategorie – che in verità sono molte e molte e molte di più – fanno sì che i numeri dell’ISTAT non sprofondino in qualcosa di ancora più raccapricciante. Dunque, per quello che credo io, potrebbe essere giusto affermare che mezza persona su 10 abbia letto un libro definibile tale. Non voglio iniziare qui una polemica sterile: il mercato editoriale continua a funzionare anche grazie ai libri di Cannavacciuolo, quindi non ho alcun problema con chi ne acquista una copia; al massimo, ho un problema con chi acquista solo quel libro. Io, però, sono un lettore consapevole e, in quanto tale, rivendico serenamente di aver letto testi pessimi come “50 sfumature di grigio”.
Detto questo, è evidente che molte di queste persone – che al più comprano i libri finti dell’Ikea per decorare casa – si ritrovano oggi con una magnifica copia del “Mein Kampf” di Hitler. Ho letto di persone che hanno affermato “meglio. Un libro in più. Sempre meglio che averne zero”. Sbagliato. Meglio averne zero. Perché un uomo che non ha mai avuto voglia di prendere in mano Melville, avrebbe dovuto andare in edicola (anche i quotidiani sono in crisi, sì), comprare un giornale – anzi, Il Giornale – e uscirne con il “Mein Kampf”? La risposta è semplice e intuitiva: perché è il “Mein Kampf”, perché è il testo scritto da Hitler.
Dunque, a mio modo, si delinea già che la maggioranza degli acquirenti sono divenuti tali in quanto attratti – spaventati o meno – dal fatto che fosse un testo di Hitler. Fa di loro dei nazisti? Certo che no. Ciò che è certo, però, è che parliamo di persone non educate alla lettura, quindi sprovviste dell’opportuno senso critico. E immagino che per affrontare il “Mein Kampf” serva molto senso critico.
Ora, cosa può succedere a degli uomini affascinati dal senso del proibito, attratti dalla figura di Hitler e sprovvisti della minima capacità di comprendere ciò che sta loro davanti, quella minima capacità che permette di stare dall’altra parte e di affrontare ogni lettera mettendola in dubbio e contestandola? Può succedere che dopotutto, non tutto è così sbagliato. D’altronde l’unico errore di Mussolini è di aver assecondato Hitler. Saranno loro dei potenziali nazisti? Certo che no.

Cerchiamo ora di identificare i lettori – occasionali o meno – de Il Giornale. La linea editoriale è schierata apertamente a destra e si è spesso dimostrata fiera conservatrice del populismo più becero. Stiamo parlando di un quotidiano che spesso e volentieri attacca il diverso, lo straniero, il più debole; un quotidiano che finge di non comprendere la gravità dell’attaccare l’Unione Europea e del farla passare, agli occhi dei propri lettori, come un cancro e non come la benedizione che è. I lettori di questo quotidiano, verosimilmente, ne condividono le idee. Non è il mio un attacco a chi si rivede in politiche di destra, è un attacco a chi è ignorante e si rivede nell’ignoranza, solo perché è di più semplice accesso e comprensione.
In un periodo storico drammatico di cui sono grandi protagonisti i flussi migratori, in cui la crisi finanziaria non vuole spiegare la propria natura a chi non ha voglia di cercarla, in cui ogni politico è un cialtrone e la figura di Putin viene idolatrata, come può essere visto un personaggio autoritario come Hitler?
In un’Europa in cui l’estrema destra risorge dalle proprie ceneri e le svastiche tornano disegnate sui muri; in un’Europa in cui ogni mussulmano è visto come un kamikaze; in un’Europa in cui ancora froci ed Ebrei; in un’Europa in cui se proprio c’è stato un olocausto, gli Ebrei se lo sono fatti da soli; in un’Europa pronta ad accogliere la Turchia di Erdoğan e che solo sottovoce è disposta a dire genocidio degli Armeni; ecco, in questa Europa, come si inserisce il “Mein Kampf” e l’ideologia che racchiude?
Dopo anni di bombardamenti mediatici, quante persone vulnerabili potrebbero cadere vittima di un testo che si è già reso capace di sedurre un popolo intero? La risposta, mettendo da parte la nostra arroganza, è: tante.

Questo mi sconvolge della viscida scelta de Il Giornale, di questa loro stupida provocazione passata come la volontà di, al contrario, informare. La verità è che è stato messo tra le mani di molte persone un testo che, altrimenti, queste non sarebbero mai andate a comprare. Ma se tu lo offri proprio lì, inviti all’acquisto. Quindi è sbagliato affermare che chi lo ha comprato, lo avrebbe fatto comunque. Proprio no. Giusto qualcuno, naturalmente.

Alla luce del mio ragionamento, reputo opportuno scagliarsi contro la finta classe intellettuale italiana, da quelle romantiche sfumature radical-chic, che, pur di rimanere fedele alla propria radicata controtendenza, afferma che non vi sia nulla di male in ciò che è stato fatto. Che il testo va letto e compreso. Vero. Verissimo. Ma quanti hanno, da soli, il mezzo per farlo? Badate bene, questa non è un’obiezione elitista. Questa è un’obiezione mossa dall’umiltà. Io, per diventare un lettore consapevole, ho avuto bisogno di essere educato. Chiunque, per diventare un lettore consapevole, ha bisogno di un lungo percorso fatto di libri e lezioni e cultura. Non ci si inventa lettori dall’oggi al domani. Non si diventa padroni di raziocinio prendendo delle proteine.
Quando difendete la scelta de Il Giornale, col vostro voler essere libertini a ogni costo, sostenete il voler dare il “Mein Kampf” in mano a chi fa fatica a leggere un post di Facebook che superi le cinque righe, a chi ha deficit di attenzione gravi nell’affrontare un articolo di giornale, a chi questo non lo leggo perché è troppo lungo.
Voi, signori miei, dall’alto della vostra profonda cultura accuratamente costruita a colpi di Kundera e Saint-Exupery, arrogate a voi stessi il diritto di consegnare il “Mein Kampf” a chi ancora crede che Corona abbia semplicemente fatto delle foto.
Dall’alto della vostra cultura artificiosa e fasulla, pretendete un libero accesso al “Mein Kampf”, dimostrandovi ottusi nel non comprendere quanto ciò possa essere pericoloso e dimostrando di non avere alcun timore nel parlare di un testo così spaventoso, di non aver alcuna concezione di ciò che il “Mein Kampf” ha rappresentato e rappresenta.
Allora, signori miei, un po’ di umiltà da parte tutti e venga riposta, per una volta, questa perenne voglia di contraddire e provocare, di scandalizzare.
Chi vuol capire e comprendere il “Mein Kampf” saprà sicuramente farlo anche senza che questo venga distribuito su scala nazionale da un quotidiano.

E a chi mi tacciasse di moralismo, posasse Kundera e leggesse De Amicis, che poi ne riparliamo.

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Ciao, Gianmaria

Gianmaria l’ho conosciuto tanti anni fa, durante un viaggio in macchina Torino – Catanzaro. Mio padre, appena partiti, mise un suo disco. Mi disse di ascoltare, che era un poeta. Io non gli diedi retta, un po’ perché per me gli unici poeti erano Baudelaire e Verlaine, un po’ perché era quel principio di adolescenza in cui non puoi fare a meno che contraddire.

Nel 2012 frequentavo la Scuola Holden. Era novembre e dovevo scegliere da una lista i workshop ai quali avrei voluto partecipare. Uno di questi aveva come docente Gianmaria Testa. Ricordai quel viaggio in macchina Torino – Catanzaro e quel disco che non avevo voluto ascoltare. Fu naturale spuntare quel nome e metterlo in cima alle mie preferenze.

Arrivò in aula con addosso una maglietta nera e in spalla l’immancabile custodia della chitarra. La posò per terra, come farebbe un qualsiasi artista di strada, e si presentò Io sono Gianmaria. Ciao, piacere, salve a tutti. Prese la chitarra e si adoperò per accordarla. Io non sono un insegnante, quindi questa non è una lezione. Ci guardò, eravamo una quindicina. Vi va se parliamo un po’? E’ necessario parlare, solo così si può imparare qualcosa. Non ho mai avuto l’occasione di stare nella stessa stanza con quindici scrittori. E’ un’opportunità.

Ci chiese di raccontargli di noi, uno per uno. Era interessato alle nostre esperienze, alle nostre storie, con indosso l’abitudine di raccontarle nelle sue canzoni. Volle sapere se qualcuno di noi suonasse. Sì? Tieni la chitarra, facci sentire qualcosa. E così sedeva tra noi e si faceva spettatore. Gli occhi chiusi, ascoltava col cuore. Applaudiva, incoraggiava, dava consigli. Io ero capotreno, non mollare.

Tirò fuori dalla tasca del cappotto un ep ancora nel cellofan. Questo me l’hanno mandato da ascoltare. Lo facciamo insieme, avete voglia? Mise su il disco. Era osceno. Lui non si scompose. Cercava ciò che vi fosse di buono. Alla fine si arrese e spense lo stereo. Vi va una sigaretta?

Gli chiedemmo di suonare qualcosa per noi. Disse di sì, felice. Eseguì Ventimila leghe e ce ne spiegò il significato. Bisogna insegnare ai bambini – perché questa è canzone per i bambini – che non si deve temere il diverso, che non bisogna credere a dei coglioni razzisti – è chiaro a chi mi riferisca, è nel titolo – che siamo tutti uguali. 

La lezione era finita. Lui non se n’era accorto, noi nemmeno. Beviamo qualcosa, vi va? Brindiamo a quest’esperienza che ho fatto oggi, all’avervi potuto conoscere. 
Tirò fuori dalla borsa delle bottiglie di vino rosso, dei bicchieri e dei grissini. Forza, ragazzi!

Ero in balcone con un amico che fumava. Lui ci raggiunse e tocco i nostri bicchieri col suo. Chiese da accendere, poi cominciammo a parlare di scrittura e di musica. Mi ascoltava e annuiva. Lo ascoltavo e annuivo. Quanti anni hai, Andrea? Venti. Mi studiò. Mi mise una mano sulla spalla e bevve un sorso di vino, guardando dritto davanti a sé. Feci lo stesso. Vuoi fare lo scrittore? Sì. Fai bene, servono dei buoni scrittori. Già. Continuammo a bere.

Come ultima cosa gli chiesi di autografarmi dei cd. Sono per papà, ti ho conosciuto grazie a lui. Sorrise. A Pino, con affetto. Gianmaria.

L’ho visto per l’ultima volta l’anno seguente. La vecchia Holden chiudeva e lui venne a suonare per dirle addio. Eravamo tutti attorno a lui, i bambini sdraiati sul pavimento, chiusi in una grossa aula. Lo ascoltammo tutti, quel poeta umile e generoso, mentre ci raccontava storie di uomini come noi, come lui.
Un bicchiere di rosso vi va? chiese, posata la chitarra.

Lasciami andare

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Ehi, Sozaboy

Ehi Sozaboy.
Tanti amici che auspicano una carriera militare, o rimpiangono la leva obbligatoria, o pensano alla guerra non tanto come a qualcosa di necessario, ma proprio di normale, dovrebbero sentirsi chiamare ehi Sozaboy.

Sozaboy” è il titolo del romanzo più celebre di Ken Saro-Wiwa, l’intellettuale nigeriano assassinato – e non giustiziato – dal regime militare nel 1955, sotto la pressione della compagnia petrolifera Shell.

Un particolare macabro, ma che io trovo necessario: venne impiccato, ma il cappio fatto male impediva all’osso del collo di spezzarsi, strozzandolo solo; dovettero tirarlo su e lasciarlo cadere oltre la botola per ben quattro volte. Posso vederlo, Ken Saro-Wiwa, mentre si porta le mani al collo per allentare il laccio e piangendo chiede perché gli stiano facendo tutto questo.

Già. Perché tanta sofferenza?
E’ quello che si chiede Mene, il protagonista del romanzo. Che poi non è un romanzo, è il suo viaggio di formazione.
Anzi: è molteplici viaggi di formazione.

Sì, perché può esserlo per quel ragazzino che viene da Dukana, quel ragazzino con il serpente sempre ritto, attratto dall’uniforme e dal luccichio dei fucili; ma lo è anche per il ragazzino che viene da Dukana e vuole diventare un soldato per sentirsi importante; e forse anche per quel ragazzino che viene da Dukana e che pensa di conoscere la guerra perché ne ha sentito parlare, che sa come si combatte Hitla.

Oppure può esserlo per noi, che crediamo la guerra sia quella che ci mostrano ogni giorno in televisione, o nei film in cui Brad Pitt si barrica in un carrarmato e muore valorosamente dopo aver ammazzato mille nemici. Che poi, un nemico cos’è? Saro-Wiwa ce lo spiega: il nemico è un uomo con un’uniforme diversa che, come te, non sa per cosa stia combattendo. Ma la guerra è la guerra.

Sì, di sicuro può esserlo per noi. Noi che riusciamo a realizzare che la guerra c’entra con la morte solo quando fanno una strage nello stato accanto al nostro. Altrimenti, la guerra è semplicemente una cosa che esiste, da qualche parte. Che c’è sempre stata, insomma, e quindi amen. Perché la guerra piace a tutti, ma mica vogliamo finire in fanteria. No, a noi la guerra piace sì, ma quella che si combatte da casa, mentre mamma ci prepara un piatto di pasta per cena.

Sì, di sicuro può esserlo per noi che non sappiamo cosa sia un profugo e delle condizioni in cui i rifugiati hanno da sempre vissuto:
Questo campo è in realtà un vero e proprio letamaio umano e tutta quella gente che ora chiamano rifugiati ormai è gente che hanno gettato via come immondizia. Non servono più a niente. Non posseggono più nulla, in questo mondo. Neanche il cibo più comune da mangiare. E tutto quello che hanno, devono elemosinarlo prima di poterlo avere. Tutti i bambini hanno la pancia grande grande, come una donna incinta. E se tu vedessi le gambe e gli occhi. Sembra qualcosa che di solito vedi in un film o dentro la foresta malvagia degli incubi.

Già.
Ma quindi di cosa parla “Sozaboy”?

Sozaboy parla del male. Del male che è radicato nel mondo e che prende a schiaffi in faccia un ragazzo ingenuo come lo siamo, o lo eravamo, tutti. Parla di Mene, che finisce in una guerra più grossa di lui, decisa dai bianchi e combattuta dai neri, e che vuole solo ritrovare sua madre e sua moglie che ha più tette che anima. Sozaboy parla di una realtà che noi possiamo riuscire a vedere, a scoprire e a comprendere solo leggendolo. E solo leggendo, mi sento di dire. Perché è nei libri, in queste storie, che viene fuori la verità. E’ leggendo che viene il disgusto per la violenza, il ripudio per la guerra, e la voglia di non ascoltare mai più chi ti dice che è un suo diritto avere un fucile in casa e che il mondo è giusto, che deve funzionare così.

Per chi cercava una recensione, su internet ce ne sono sicuramente di esaustive.
Tutto quello che mi sento di dire io è che questo libro fa male. Molto male.

Ehi, Sozaboy.

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Shankara, la perla d’Oriente

Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitino il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti.
Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Prius, influente cavaliere della guardia del re DI QUALCOSA nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Ultius, insignificante contadino delle terre del re DI QUALCOSA, nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa non fu la giustificazione che si diede Dain, re DI QUALCOSA, nel trovare Prius e Ultius giacere con la regina, nonché propria moglie.

Prius e Ultius furono molto fortunati. Quello, infatti, fu l’unico anno in cui nel regno DI QUALCOSA venne sospesa la pena di morte. Gli eruditi avevano suggerito al re di prendere questa decisione perché, a loro dire, terrorizzare i sudditi si era rivelato più volte una scelta controproducente. Re Dain, uno di quei re che vogliono essere ricordati per la loro magnanimità, si scoprì entusiasta di potersi mostrare così progressista agli occhi degli altri sovrani e accettò di buon grado la proposta.
E chissà cosa sarebbe successo, se il cuore del buon re avesse retto e non avesse deciso, invece, di esplodere al pari di un fiore che sboccia. Forse egli stesso si sarebbe accorto che, per governare, il pugno duro serve eccome! Che i servi hanno bisogno di limiti imposti dai padroni, così come gli angeli e le cose tutte hanno bisogno di Dio. E un buon sovrano è questo che non deve far dimenticare ai propri sudditi: come Dio, egli può privarli di ogni cosa, perfino della vita, e in qualsiasi momento. Solo in questo modo i ruoli vengono rispettati. Ma, come dicevamo, il povero re Dain non ebbe possibilità di rimediare allo sbaglio commesso e i due traditori vennero banditi e null’altro.
La pena di morte, reintrodotta dal sovrano seguente, Tyrano, recuperò ben presto l’anno perduto e collezionò ottantasette teste nel solo primo mese di attività. Ma quello che successe nel regno DI QUALCOSA, dopo l’allontanamento dei padri fondatori di Ogniranza, è ininfluente al proseguo della nostra storia e non deve interessarci.

Prius e Ultius erano due uomini affini, due anime che Dio avrebbe fatto incontrare anche se fossero nate agli estremi opposti del globo. L’unico ostacolo tra loro era l’appartenere a due classi sociali profondamente diverse. Con l’esilio questa unica barriera fu abbattuta e i due uomini capirono di avere un destino in comune. Il peccato e il sesso che l’aveva originato, nonché l’eguale pena subita, appianarono le divergenze e i pregiudizi radicati nella testa dei due. Certo, la prima volta non fu facile. Prius era alto e vigoroso, la pelle liscia e un portamento che non l’avrebbe mai lasciato confondere con uno di quegli altri: bassi e tarchiati dalla zappa, la pelle ustionata dal sole sempre presente, schiavista per diletto, rozzi e grezzi; insomma: uno come Ultius. E Prius lo guardò dall’alto al basso, quella prima volta. Lo guardò con la sufficienza di chi crede che la vita in certi corpi sia proprio uno spreco. E che gli occhi neri e lerci di un contadino non si abbassassero davanti ai suoi, verdi come le foglie della più in salute tra le piante, lo irritava e non poco. In altra sede, quell’insolenza sarebbe stata punita con un bel fendente tra mento e spalle. Ah, se solo la regina gli avesse permesso di tenere le armi con sé… Non riusciva a capire cosa ci trovasse, in quell’essere, e si chiese quanta perversione scorresse nelle vene di una donna non solo così potente, ma anche di una raffinatezza famosa in tutto il regno.

– Vi ho convocati qui perché questa notte ho sognato di voi – disse la regina.

Congedò gli uomini di scorta con un cenno. Rimase in silenzio e Ultius non poté fare a meno di volgere la più totale attenzione all’ambiente che li ospitava. Il soffitto si ergeva forse sei metri al di sopra del suo naso schiacciato, sorretto da mura in pietra calcarea accuratamente ridipinta di bordò; sulla sommità, alte finestre lasciavano che la luce, filtrata da fini tende color panna, disegnasse morbide ombre sulla parete opposta, mettendone in risalto lunghi arazzi mai stufi di raccontare le gesta della stirpe reale. E poi mobili d’oro e legno massiccio, intarsiati di lapislazzuli e pietre preziose di ogni genere, a occupare la vastità della stanza come tante isole puntellano il più bello dei mari. Così al centro di quell’arcipelago, come un meraviglioso vulcano, si ergeva il letto della regina: un baldacchino alto come possono esserlo due uomini che si sorreggono l’uno sulle spalle dell’altro, racchiuso da spessi teli ricamati dalle migliori filatrici del regno; e il cuore, grande quanto una qualunque stanza da letto, già placava gli animi più focosi mostrando loro la quantità di cuscini pronti a ospitarne lo stanco riposo. E infine, quella conchiglia non poteva lustrarsi di perla migliore: la regina Shankara. Ora che lo sguardo si era fermato su di lei, non gli riusciva più di distoglierlo. Il suo nome raggiungeva ogni confine del regno e si erano sprecate leggende sulla sua bellezza. Qualcuna la voleva alta e bionda come una ninfa del nord, altre un’Ispanica dal sangue guerriero; e ancora una raminga che aveva stregato re Dain con un filtro d’amore. Ma la verità era diversa e Ultius non poteva conoscerla. Perfino Prius, così vicino alla famiglia reale, ignorava cosa ne fosse di Shankara prima di essere regina. Eppure, a osservarla, qualcosa si smosse nella memoria del contadino. Quella lunga chioma nera che ricadeva con una compostezza quasi selvaggia sulle spalle della donna e quella carnagione olivastra che la rendeva unica all’interno del regno, gli fecero riaffiorare le parole di un viandante ospitato forse un paio di lustri addietro. Questi diceva di aver fatto parte della scorta che aveva portato la regina Shankara a re Dain. Viene dalle terre d’oriente, dove le lettere degli uomini si chiamano numeri, ed è figlia di un importante sovrano, da anni in guerra contro re Dain. I due regni, logori dal conflitto, hanno tentato di sancire una pace duratura tramite un legame di sangue. Così la più giovane, nonché più bella, delle figlie del sovrano d’Oriente, è stata data in sposa a re Dain, che era ancora un giovane condottiero. Shankara è il suo nome. Partì bambina e arrivò donna.
Solo allora Ultius si accorse dell’inumana bellezza che gli stava di fronte, a pochi passi, vestita di un sari che lasciava vederne il corpo e, allo stesso tempo, ne nascondeva i tratti più desiderati.
Non riuscì ad alzare lo sguardo al di sopra di quelle labbra, tinte del colore del sangue, finché non scoccarono.

– Di te ho memoria, Prius. Sei a capo della scorta di mio marito. Immagino, invece, che tu sia solo uno spregevole contadino, ma per me non fa differenza. Se è la volontà degli dei… Ho sognato di questo momento in una notte come tante altre. Vivo in un palazzo grande quanto un qualsiasi regno a noi confinante e la mia stanza potrebbe ospitare le famiglie di un’intera città. Forse questo è il desiderio di molti, ma non il mio. È la solitudine a riempire il vuoto tra queste mura fredde, mentre io nascondo il mio volto sotto a quella pila di inutili cuscini. Ho provato a dare vita a qualcosa che potesse avvicinarsi alla mia infanzia, o almeno ai ricordi confusi che le appartengono, ma è stato tutto vano.

Si avvicinò con passo fermo a uno degli arazzi celebrativi e lo sfiorò con le dita, più simili a quelle di una bambina che non aveva mai dovuto adoperarle, che a quelle di una giovane donna.
Il tempo sembrò fermarsi, mentre la regina leggeva impassibile la storia raccontata da quelle trame filate con così tanta cura. Il respiro dei due uomini era l’unica testimonianza dello scorrere dei secondi, l’unico appiglio della stessa Shankara nel pantano nutrito da una fanciullezza che, lieve come un canto lontano, le si insinuava nella testa ricordandole cosa fossero l’innocenza e la felicità, ma senza riuscirvi.

– La verità è che la mia stessa infanzia non mi appartiene più. Non troverete gioia nella mia ricchezza. Io stessa sono ricchezza, merce scambiata in nome del nulla: la pace. Un padre dovrebbe essere pronto alla guerra, se qualcuno volesse privarlo della propria bambina… Ma non il mio. Forse non ne ho mai avuto uno.

Continuava a guardare l’arazzo, parlando più a se stessa che ai due uomini.

– Durante il viaggio che mi ha condotto in questo regno, sono riuscita a convincermi di essere solo questo, un oggetto che due uomini potenti si scambiavano in segno di ammirazione. Ed è ciò su cui è fondata la devozione per mio marito, re Dain. La scarsa stima che avevo di me, nascondeva ai miei occhi la vera natura di quel ragazzo così debole da terminare una guerra solo per avere una bambina che scaldasse il suo letto. Perché è questa che è stata la mia vita, quella di una bambina abbandonata e sedotta, convinta di avere trovato un fratello maggiore, forse un vero padre, e non un mostro che la illudeva sulla vera natura del volersi bene.

Si voltò, gli occhi lustrati come boccioli dalla rugiada.

– Guardate il mio regno! – disse allargando le braccia – Ma gli dei mi hanno parlato. Sì, quegli stessi dei che mi hanno abbandonata nel corso di tutta la mia esistenza. Quegli stessi dei che ho giurato di odiare molto tempo fa. Dapprima erano ombre, poi le ombre si sono animate e parole di un linguaggio antico, primitivo, hanno mosso le mie stesse labbra. Non posso svelarvi ogni cosa, perché il futuro non vedrebbe la luce, ma la mia vita ha trovato un senso. I battiti che il mio cuore ha speso sinora, non sono stati vani come credevo. Ora io so di essere importante, ora io conosco il mio scopo.

Aveva la testa bassa, ma teneva lo sguardo alto: una tigre sicura dei propri passi.
Ultius sentì le sue mani ordinargli di seguirla verso il letto e si lasciò andare, così come una bestia trascinata per il collo capisce di non poter fare nulla e segue rassegnata il suo destino.

 

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Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitano il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti. Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E così viene tramandato che i due padri fondatori di Ogniranza sono un contadino, Ultius, e il cavaliere capo della scorta del re di Tyrania, Prius. In quell’unico anno, il re decise di sospendere la pena di morte, confidando di apparire un progressista agli occhi dei sovrani dei regni confinanti e di ingraziarsi gli intellettuali che lo avrebbero così elogiato. Il povero re si chiamava Dain e in giovinezza fu un temibile condottiero; da anni in guerra con il Sovrano d’Oriente, decise di arrestare le proprie mire espansioniste in cambio della più preziosa tra le ricchezze dell’avversario: sua figlia Shankara. Nonostante fosse poco più che una bambina, si parlava della sua bellezza in ogni angolo del mondo conosciuto. Shankara, la perla d’Oriente. E come una perla, il padre la infiocchettò e spedì al giovane Dain in segno di rispetto.
Partì bambina, arrivò donna.
Se il capriccioso Dain fosse stato cosciente della rovina cui stava andando incontro, forse non avrebbe provato così tanta soddisfazione nel vedersela recapitare a palazzo e l’eccitazione nel gustarne il corpo appena spogliato del sari, sarebbe sfumata all’istante.
Passarono gli anni e Shankara li trascorse prigioniera di un palazzo vasto quanto un regno, di una stanza che avrebbe potuto ospitare le famiglie di un’intera città. Ma ai suoi occhi le pareti di quella camera erano sempre più opprimenti e non bastava l’averle dipinte di bordò, decorate di arazzi che inventassero un’infanzia smarrita, o ancora aver fatto di un baldacchino sontuoso la propria capitale. Regina di quell’harem, Shankara crebbe ostile a re Dain, oltre che al proprio padre, e agli dei; quegli stessi dei che, in una delle poche notti libere dalla veglia, le si palesarono in sogno come ombre confuse, depositarie di un linguaggio primitivo e solenne. Avrebbe avuto modo di riscattarsi. Avrebbe avuto modo di vendicarsi. Non si erano dimenticati di lei. Shankara, la perla d’Oriente, avrebbe cambiato per sempre il corso della storia.
Svegliatasi, non perse tempo. Diede ordine di trovare quei due, Prius e Ultius, secondo le disposizioni degli dei. Avrebbe aspettato seduta al suo specchio e sarebbe stata pronta, la più bella di tutte. La perla d’Oriente sarebbe tornata a brillare.
Li trovarono e glieli consegnarono. Il contadino e il cavaliere. E lei li accolse, li accolse tra le sue gambe come una madre accoglie tra le braccia un figlio ritrovato dopo tanto tempo. Le pareti si tinsero di un rosso più acceso, di quella stessa passione che per la prima volta fece chiudere le tende di quel baldacchino.
La perla d’Oriente continuava a brillare.
Fu re Dain a riaprirle, quelle tende, e a trovarsi davanti a quella conchiglia di corpi che gelosamente custodiva la sua perla. Nessun urlo, giusto un sibilo. Forse un sussurro. E il cuore del re esplose come un bocciolo in fiore.
Prius e Ultius, in assenza della pena capitale, vennero banditi e catapultati dal regno di Shankara a quello di nessuno, fatto non di morbide lenzuola, ma di lande desolate.
Della regina, invece, nessuno sentì più parlare. Ma è quello che spetta a chi veramente decide di scrivere la storia.

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Rael, lo spirito della palude (o studio su “Racconti fantastici di Liao” di Pu Songling)

C’era un tempo un ricco funzionario del ministero che si chiamava Alheen. Era un uomo molto importante e quando camminava per strada tutti si affrettavano a inchinarsi per riverirlo. Aveva una barba nera molto lunga e molto folta di cui era orgoglioso e tutti i bambini della città di Ahreheo sognavano di averne una bella come la sua. Gli anziani dicevano che la sua barba era così pesante da andare a fondo in una bacinella d’acqua, anziché galleggiare.
Era molto arrogante e maltrattava tutti quelli che il suo rango gli permetteva di maltrattare. Molti erano i poveri e i mendicanti che aveva picchiato con il suo bastone di giada bianca. Al ministero lo temevano tutti, soprattutto una vecchia puzzolente che faceva le pulizie e che lui prendeva sempre a sputi, calci e bastonate mentre i funzionari guardavano e ridevano.
Un mattino, dopo essersi lavato e cambiato d’abito, Alheen notò nel lavandino un pelo lungo e bianco. Dapprima lo scambiò per il baffo della tigre Saar, spirito di Ahreheo, e se ne rallegrò perché compariva solo alle persone illustri in segno di buon auspicio. Dopo averlo osservato con attenzione, però, gli sembrò invece un pelo della sua barba e si preoccupò molto perché non ne aveva mai perso uno e non ne aveva mai avuto uno bianco. In preda all’agitazione e ai brutti pensieri, si affrettò a uscire.
Alheen non si presentò al ministero e tutti furono sorpresi perché era andato anche il giorno che era morta sua moglie.
La voce si sparse veloce veloce e alcuni funzionari dissero di aver visto Alheen correre per le vie di Ahreheo senza fermarsi, come se il demone Aru muovesse le sue gambe per produrre calore con cui bruciare la legna dell’Inferno. Altri ancora riferirono che l’Imperatore lo aveva chiamato alla Capitale perché voleva farlo governatore della regione.
Sentendo fare questi discorsi e dire tante bugie, la vecchia puzzolente che faceva le pulizie al ministero affermò di sapere dove fosse Alheen e che lo avrebbe detto in cambio di una ciotola calda di brodo di lepre e una caraffa di vino. Tutti erano curiosi e così le promisero ciò che voleva.
La vecchia puzzolente si sentì importante e disse che Alheen era andato in gran segreto dal contabile Turuc e che lei lo sapeva perché lo aveva seguito.
A quel punto tutti scoppiarono a ridere e così anche la vecchia puzzolente scoppiò a ridere e chiese la sua ricompensa. Così i funzionari continuarono a ridere più forte e la presero a turno a calci nel sedere dicendole che quello era il suo premio per essere una spiona e di continuare a lavare i pavimenti, o le avrebbero dato altre ricompense.
Ma Alheen era andato davvero dal contabile Turuc, che era un suo uomo di fiducia e caro amico. Ogni anno Turuc contava i peli della barba di Alheen e riportava il numero su un foglio segreto che nascondeva. E ogni anno Turuc contava cinquemilaquattrocentosettantatré peli di colore nero.
Anche se li avevano contati pochi mesi prima, Alheen gli raccontò del suo ritrovamento e lo pregò di controllare.
Così Turuc contò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Così Turuc ricontò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Poi Alheen scoppiò a piangere e cominciò a darsi pugni sulla testa e Turuc lo fermò prima che si strappasse la barba a grandi ciuffi.
Alheen era disperato e Turuc era dispiaciuto per l’amico. Provò a consolarlo ma non ci riuscì e allora gli disse dopotutto è solo un pelo bianco e menomale che ne è caduto uno bianco!
Ma Alheen si arrabbiò molto e gli disse stupido, non lo sai che se cade un pelo bianco da una folta barba nera è presagio di grande sfortuna? Sei davvero un figlio di un cane e me ne vado prima di prenderti a bastonate!
E infatti dopo pochi giorni Alheen fu colpito da numerose sventure.
Ogni mattino trovava nel lavandino numerosi peli e la sua barba diventava sempre più striminzita e tutti i bambini della città di Ahreheo lo prendevano in giro e gli tiravano addosso le pietre quando passava. Alheen anche dimagrì molto perché tutto il cibo che comprava veniva divorato dalle formiche prima che riuscisse a mangiarlo. Era così asciutto da sembrare un fantasma delle paludi e, siccome molti al lavoro si spaventavano nel vederlo, il magistrato gli ordinò di rimanere a casa per curarsi e non tornare finché non fosse guarito.
Nessuno riconosceva più Alheen e tutti lo scambiavano per un mendicante pidocchioso.
Lui si sentiva a poco a poco morire perché nessuno gli dava del cibo e in casa non ne aveva più.
Così un giorno andò nella locanda di Shyin dove andava sempre, ma Shyin non lo riconobbe e lo cacciò via a manate. Allora provò nella locanda di Assaji dove anche andava sempre, ma Assaji non lo riconobbe e lo cacciò via a calci. Allora provò nella locanda di Semin dove anche andava sempre, ma Semin non lo riconobbe e lo cacciò via a bastonate.
Ormai rassegnato e col corpo livido, Alheen il ricco funzionario del ministero si trascinò verso l’uscita della città, deciso a farla finita.
Proprio mentre superava l’ultima casa, vide uno splendido edifico che non aveva mai visto prima. Era una grossa locanda con enormi tavoli in legno e stendardi dorati a forma di dente di tigre. Alheen pensò che un posto così bello non lo aveva mai visto ed era strano e che avrebbe tanto voluto andarci. Ma nessuno lo avrebbe voluto e lo superò.
Una voce di donna però lo chiamò signore! signore! e lui incredulo si girò e vide questa donna vestita da cameriera che gli faceva segno di avvicinarsi. Lui non si mosse e così la donna andò da lui, lo prese sottobraccio e lo fece sedere a uno dei tavoli. L’uomo rimase meravigliato, ma non fece in tempo a parlare perché la donna scomparve nella locanda.
Dopo un po’ che l’aspettava, la donna tornò con un vassoio pieno di cibi di ogni tipo e Alheen divorò tutto con grande voracità, senza preoccuparsi di sporcarsi tutta la faccia. Tanto non sono più io pensò.
La donna portò molti vassoi per molto tempo e Alheen mangiò tutto.
Perché siete così buona con uno schifoso mendicante chiese e la donna rispose io so chi siete voi. Siete voi che non lo sapete più. Ma io vi voglio aiutare e ora che avete mangiato potete partire. Partire per dove? chiese Alheen. Per le paludi. Dovete cercare Rael lo spirito della palude. Sono sicura che vi si mostrerà e vi aiuterà, anche se vi farà credere di no. Voi fate tutto quello che vi dice e sarete chi eravate.
L’uomo ringraziò la donna molte volte chinando il capo e uscì dalla città.
Arrivò alle paludi dopo molte ore. La notte non lo spaventava più, perché egli stesso era un fantasma e gli spiritelli facevano i dispetti solo agli uomini.
Cercò e cercò, ma non trovò nulla. Era disperato ma continuò a vagare per le paludi.
A un certo punto vide una palla di luce bianca sopra a una pozza di acqua putrida.
Vieni qui e purificati disse la voce di donna più bella che avesse mai sentito.
Alheen pensò che fosse Rael e fece ciò che gli era stato comandato.
Sei proprio uno scemo iniziò a canzonarlo la voce. Sei uno scemo, stupido puzzone di un mendicante fantasmino. Adesso che sei entrato nella pozza il tuo fetore è come quello di dieci elefanti morti. Fai così schifo che le acque non ti annegano perché nemmeno la Morte ti vuole con lei.
Alheen disse è vero.
Adesso devi saltellare come le pulci che vivono nelle tue orecchie e poi rotolare come i maiali nel fango.
Sì disse Alheen e lo fece.
Adesso devi bere tutta l’acqua che puoi bere e non devi né vomitare né cacarti addosso.
L’uomo bevve tutta l’acqua putrida e con grande forza di volontà riuscì a non vomitare e a non cacarsi addosso.
Bravo scemo disse la palla di luce bianca fai più schifo dell’acqua in cui sguazzi.
E sparì.
Alheen scoppiò a piangere e decise di ammazzarsi. Così si inginocchiò e mise la testa sott’acqua e si obbligò di respirare.
Proprio quando i polmoni erano pieni di melma putrida, Alheen spalancò gli occhi e vide una giovane sott’acqua come lui che lo guardava. Era sicuramente la ragazza più bella che avesse mai visto e subito s’innamorò. Lei lo prese per i capelli e lo fece riemergere. I polmoni si riempirono di aria e Alheen vide che la ragazza aveva orecchie di volpe. Capì che era Rael lo spirito della palude. Tu sei un uomo povero, perché sei sempre stato povero disse Rael e dopo un po’ tutte le verità degli uomini si mostrano per quelle che sono. Alheen sapeva che era vero e rimase zitto. È scritto che tu farai cose importanti ma tu hai già sprecato metà della tua esistenza e non hai fatto nulla di buono. Gli dei ti hanno dato tanti talenti e tu li hai usati per accontentarti di una vita mediocre da uomo mediocre e allora è giusto tu muoia e che i tuoi talenti vengano riassegnati a un uomo migliore di te. Alheen sapeva che era tutto vero e allora disse voglio cambiare, ti prego dimmi cosa devo fare, tu hai ragione perché io sono un uomo piccolo piccolo e tu una una giovane ragazza grande grande. Mettimi alla prova, io farò tutto ciò che mi comanderai e non ti deluderò. Rael lo guardò sospettosa, poi gli sorrise e gli disse di tornare a casa. Alheen si innamorò del suo sorriso e tornò a casa pensando solo a esso.
Trascorsero molti giorni e Alheen recuperò l’aspetto e la salute di un tempo: persino la barba ricrebbe folta, nera e rigogliosa. Il suo prestigio tornò a precederlo e per strada tutti lo riverivano e nelle locande tutti lo servivano. Il magistrato gli restituì il suo impiego e tutte le voci su di lui cessarono.
Una sera stava mangiando un cosciotto di capra quando sentì bussare alla porta. Aprì e si trovò davanti la vecchia puzzolente. Ho fame gli disse inginocchiandosi e sbattendo molte volte la fronte contro il terreno. Alheem scoppiò a ridere e stava per chiuderle la porta in faccia, quando si ricordò di cosa volesse dire morire di fame. Allora si affrettò ad aiutare la vecchia puzzolente ad alzarsi e la fece entrare.
La vecchia teneva lo sguardo basso e si vergognava molto, ma Alheen la fece accomodare alla sua tavola e le servì tutte le pietanze che aveva cucinato per sé. La vecchia mangiò tutto molto in fretta e dopo aver ringraziato andò via.
Alheem era molto felice ed ebbe un sonno riposante e ricco di sogni, come non ne aveva da tempo.
Il giorno dopo al ministero vide che la vecchia puzzolente veniva derisa e presa a calci da due giovani funzionari e si ricordò dei calci e delle bastonate che aveva ricevuto anche lui. Allora ordinò smettetela! e li fece frustare cinquanta volte per uno. Da quel giorno nessuno maltrattò più la vecchia.
La sera stessa, all’ora di cena, sentì nuovamente bussare alla sua porta. Era la vecchia che inginocchiata sbatteva la fronte contro il terreno dicendo ho fame. Alheen la portò in casa e la sfamò con tutto il cibo che aveva.
Lei sorrise soddisfatta e sazia e lui si innamorò del suo sorriso.
Così fu per molte sere e molte cene, finché Alheen disse io sono un uomo solo e vedovo e la mia casa ha bisogno di una donna. Io amo il tuo sorriso e soddisfarti mi rallegra e fa sentire un uomo migliore. La donna arrossì e rimase davvero sorpresa quando Alheen le chiese vuoi sposarmi?
Due settimane dopo erano marito e moglie e al matrimonio non era andato nessuno, dato che tutti ridevano della vecchia puzzolente e dicevano che Alheen era diventato matto.
Ma Alheen non se ne curò, perché era molto innamorato e non gli importava d’altro.
Passarono molti giorni e molte notti, quando una sera la vecchia disse non mi sento molto bene e si ammalò.
Alheen era in pena per la sua sposa e il suo animo soffriva.
Mentre piangeva e accendeva numerosi bastoncini di incenso agli dei, pregandoli di salvare sua moglie, successe qualcosa di straordinario.
La vecchia gli disse avvicinati al letto e accarezzò la sua faccia e la sua barba. Alheen piangeva e la donna, veramente colpita per quanta devozione il marito avesse per lei, sorrise. Subito, il suo corpo divenne luce blu e poi azzurra, fino a diventare una palla di luce bianca.
L’uomo non capiva, ma invece di spaventarsi rimase immobile, pronto ad affrontare ciò che sarebbe accaduto.
Ora che ti sei salvato disse la palla di luce bianca riavrai indietro tua moglie.
La luce esplose e tornò a essere corpo e carne.
Alheen ci mise un po’ a riaprire gli occhi accecati dalle scintille bianche e quando riuscì trovò davanti a sé, seduta sul letto, Rael lo spirito della palude.
La giovane ragazza disse hai fatto ciò che volevo quando ero una palla di luce bianca nella palude e mi hai dimostrato rispetto e fedeltà quando ero una vecchia puzzolente. Ora io sono tua moglie perché da molto tempo siamo sposati e la volontà degli dei si realizzerà.
Alheen, grazie a una serie di eventi straordinari, divenne imperatore e con la sua saggezza evitò molte guerre e salvò molte vite. Sotto di lui, il regno fu prospero e la vita serena. Dall’unione con Rael ebbe tredici figli e morì a centotrentasette anni insieme alla propria moglie. Il suo spirito salì in Paradiso e divenne Imperatore del Regno dei Cieli con la sua fedele Rael come regina.

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La capra e l’alluvione (ft. Valerio Codispoti)

  • Allora, Buteo… ˗ Disse il Tenente Marcolin. Si tenne con una mano alla scrivania e iniziò a far dondolare la sedia. ˗ …È tutto?

Il Maresciallo Staglianò riassestò il peso scostando il dorso dallo schienale e annuì. Incrociò velocemente lo sguardo del superiore. Poi fissò il calendario dell’Arma inchiodato al muro, davanti a sé: ˗ È tutto. ˗ Confermò.

  • Tutto, tutto? Sei sicuro, buteo?

  • Tutto, Tenè! ˗ Esclamò Staglianò, la lingua tra i denti e un filo di saliva a bagnargli le labbra.

  • E va bene, calmati. Va bene… ˗ Minimizzò Marcolin. Con il mento indicò la scrivania al fondo della stanza e diede ordine all’Appuntato di procedere: ˗ Avanti Rosolino, rileggi. Ad alta voce, dall’inizio.

Rosolino cliccò due volte il mouse e avvicinò la testa al monitor. Schiarì la voce con un colpo di tosse e cominciò in un italiano stravagante, fatto d’accento siciliano e cantilena settentrionale.

Nel corrente anno, in data ICS, durante l’ultimo (e tra parentesi piovosissimo) giorno di servizio presso caserma di prossimità in IPSILON, frazione di ZETA, io sottoscritto – Maresciallo Staglianò Vito -, in attesa di riassegnazione presso codesta sede(tra parentesi la scrivente), asservita al capoluogo DOPPIAVVU, mi trovavo nel pieno adempimento del mio solitario dovere, ovvero: aspettavo l’arrivo dell’ufficiale incaricato all’avvicendamento…

QUANDO…

Sentivo bussare al portone.

  • Un momento. ˗ Interruppe la lettura Staglianò. ˗ “Piovosissimo” rende poco l’idea del clima che c’era quel giorno. Altro che pioggia: tempesta, direi. Burrasca perfino, dal cielo l’iradiddio è venuta giù!

  • E va bene. ˗ Confermò Marcolin. Poi, rivolgendosi all’Appuntato: ˗ Rosolin, correggi con “…durante l’ultimo (e tra parentesi tempestosissimo) giorno…”. Anzi, no! Meglio: “l’ultimo (e tra parentesi burrascosissimo) giorno di servizio…” e vai avanti.

Pertanto, continuando a udire persistiti colpi al portone, rallegrato all’idea di effettuale arrivo del tanto agognato sostituto, mi recavo ad aprire il predetto dovendo altresì constatare che dinnanzi a me non si parava l’auspicato ufficiale, quanto il cittadino Andracchio S., di Notargiacomo M. A., (tra parentesi già vedova del fu Andracchio P.).

Professione del vivente Andracchio: impiegato pastorizio. Età: variabile, anni presumibilmente compresi tra 40 e 65. Causa di tale approssimazione: sole.

  • Ma non s’era detto che pioveva? ˗ Intervenne con scrupolosità e annesso vanto l’appuntato. ˗ E mo che c’azzecca ‘sto sole?

  • Quell’Andracchio lì fa il pastore, Rosolin. ˗ Spiegò il Tenente, compiaciuto del ragionamento che stava facendo. ˗ L’età è variabile perché il sole, col mestiere che fa, negli anni, gli ha arrostito la faccia, il collo, le mani, tutto. Vai avanti: leggi oltre, per favore.

  • Dunque… ˗ Riprese l’appuntato.

A puntuale interrogazione del sottoscritto Maresciallo Staglianò Vito (tra parentesi testuale: che ci fate voi qui?), segue immediata risposta dell’Andracchio.

Piove.

E quindi?

Dilluvia.

E allora?

Un maciello.

Un macello?

Dalla montagna, per la fiumara, se n’è venuta giù la pineta. Pini, tavolini da pic nic e tiro al piattello annessi.

Addirittura?

Addirittura.

Ci sono vittime?

Macchè, qui se fa due gocce si chiudono tutti in casa, figurarsi co ‘sta tempesta.

Ah.

Un’allucione, vero e proprio.

Un che?

L’allucione.

Parlate chiaro, Andracchio!

Come si dice quando l’acqua si mangia tutto?

Alluvione?

Ecco, alluvione! Vedesse che ha fatto l’alluvione, Marescià! Il mare è venuto su, fino alla statale. S’è mangiato mezza strada.

E ci sono stati incidenti?

Zero. Tutti a casa stanno, pure le macchine, ve l’ho detto.

E allora, che c’è? Che siete venuto a fare qui?

M’è sparita una capra.

Una capra?

Teresa.

Teresa come?

Teresa, la capra.

Ah.

Eh.

Andracchio, io non ho capito. Insomma, che volete da me?

Voglio fare denuncia. Indagine, ricerche, avvisi, chil’havisto, e tutto quanto.

Ma io non posso mica uscire da qui. Da un momento all’altro aspetto il sostituto da OMEGA, Andracchio. Voi capite bene, non posso proprio assentarmi.

Forse non mi sono spiegato, Staglianò. Il mare pure la ferrovia s’è mangiato. I binari sembrano crosta di pecorino. E quello che non se l’è preso il mare, sospeso in aria sta, come il canestro di una ricotta.

Quindi il treno da OMEGA…

Ma quale treno e treno! Qui di treni, da ALFA e da OMEGA, oggi e chissà per quanti anni a venire, non ne vediamo più.

Ah.

E allora?

Allora… (tra parentesi puntini sospensivi a indicare esitazione)…Allora andiamo a cercare ‘sta capra.

Teresa.

Chi?

Teresa, la capra. La amo, Marescià.

  • Staglianò, ˗ Intervenne Marcolin. ˗ Detto tra noi, fuori verbale, da uomo a uomo. Ma la capra, Teresa intendo, com’era?

  • Ehhhh, Tenente mio… ˗ Sospirò il Maresciallo. Incrociò le braccia e inarcò il busto, la testa ciondolante oltre lo schienale. ˗ Una meraviglia, ma che dico: una bellezza, sette bellezze. Voi ce l’avete presente la Loren da giovane?

Marcolin annuì serrando le labbra; sul mento la pelle e la barba raggrinzirono in profonde pieghe.

  • Bella, bellissima. Mezza bianca, e mezza marrò. Un pelo lungo lungo, liscio, morbido. Seta, pareva. E poi due corna, che corna, Tenente mio! Toste, dure, dritte. Di marmo, sembravano fatte.

  • Quindi lei… tu Staglianò…con la Teresa… ˗ Avrebbe voluto chiedere Marcolin, ma stabilì di mantenere un contegno. Drizzò la schiena, tirò i polsini della camicia e piantò i pugni sul piano della scrivania. ˗ Va bene, Rosolino. ˗ Disse, ˗ Procediamo, vai avanti.

Così, a seguito di regolare denuncia, il sottoscritto procedeva a regolare indagini sul campo di cui – le indagini e non il campo – si fornisce precipuamente evidenza:

  1. UNO: sopralluogo preliminare in località PIANI DEI PECORAI, all’interno dell’attività pastorizia del già citato ANDRACCHIO S. con alacre verifica strutturale della costruzione lignea delimitante il domicilio della Dispersa (tra parentesi cosiddetto OVILE);

  1. DUE: accertata – attraverso carotaggio del terreno per mezzo di apposito tirabusciò – positivamente tale tenuta, l’indagine proseguiva raccogliendo testimonianza oculare. Il soggetto testimone, Arbusto di Gramigna selvatica (le cui generalità, tra parentesi, sono quivi secretate in rispetto alla normativa sulla privacy), dichiarava: “A ora di pranzo vidi Teresa uscire dal proprio domicilio per dirigersi spedita direzione sud, in località marina, in prossimità di secolare campo d’ulivi.”

Note di identikit a margine: a protezione dalla pioggia battente – ma che dico pioggia, tempesta, ma che dico tempesta, burrasca – al momento della scomparsa la suddetta indossava zoccoli con galosce e cerata impermeabile sulle corna. Colore della cerata: variabile dal carminio al fucsia. Marca: irriconoscibile causa pioggia, ma che dico pioggia;

  1. TRE: alla luce di tali indicazioni proseguiva pertanto l’indagine con ridiscesa(tra parentesi imperviosissima) del sottoscritto a valle. Non potendo valicare il fiume a causa degli innumerevoli detriti che lo stesso trasportava – dalla fonte fin l’ estuario – ostruendone ponti, valichi e stradine limitrofe, si ricorreva all’utilizzo d’un mezzo d’emergenza fornito dallo stesso Andracchio: una scrofa domestica, (è noto, tra parentesi, quanto i maiali abbiamo agio e sollazzo tra il fango) e finalmente si raggiungeva campo di ulivi in località MARINA.

TRE BIS: Qui, a causa delle innumerevoli, reticenti e finanche contraddittorie testimonianze dei citati alberi secolari, il sottoscritto, come da sub regolamento investigativo dell’Arma, procedeva a un contraddittorio all’americana. Tale confronto forniva incontrovertibile riconoscimento che ultimo avvistamento della capra era stato rinvenuto a margine del campo, lungo la strada statale 106quatris, in prossimità del mare;

  1. ivi recaticisi, il sottoscritto e la scrofa domestica senza parentesi, lungo lingua d’asfalto prospiciente recentissima frana,

SI CONVENIVA

inequivocabile traccia visivo/olfatto/gustativa di sangue e latte caprino. Il Catrame (tra parentesi nome e cognome secretati a causa di provvedimento restrittivo già in atto sull’indagato in questione) interpellato circa tali evidenze accusatorie, si limitava a rispondere, in lacrime (o forse, tra parentesi, vista la tempesta non erano lacrime ma soltanto pioggia, ma che dico tempesta, burrasca): “È colpa dell’acqua, se l’è portata via lei.”;

QUATTRO BIS: incalzato circa le citate presenze di sangue e latte il catrame fatalmente e definitivamente illustrava: “Il latte è perché quando è arrivata l’onda la povera Teresa s’è spaventata, se l’è fatta sotto dalla paura. Il sangue… bhè, il sangue Iddio solo lo sa. In ogni caso,” aggiungeva il Catrame, “ma questo rimanga tra noi, Maresciallo, per me è tutta colpa del mare. Io non le ho detto niente, Marescià, ma con le opportune verifiche si renderà anche lei conto che è l’unica spiegazione plausibile…”

  • Fine. ˗ Disse Rosolino. ˗ Data ICSIPSILONZETA , luogo DOPPIAVU. E poi mancano solo le vostre firme.

  • Scusa Staglianò, ma a quel punto tu perché non sei andato a chiedere al Mare? ˗ Incalzò Marcolin.

  • Ci ho provato Tenente, ci ho provato. Mi creda che ci ho provato. Lei può immaginare la difficoltà, peraltro, di riuscire ad ottenere un colloquio. Sa quante volte ho dovuto fare avanti e indietro dalla battigia? Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.

  • Insomma Staglianò…ma tu…con la Teresa… ˗ Congetturò ancora nella propria testa Marcolin. ˗ Tu e la Teresa, diciamo, eravate amici? ˗ Stava per chiedergli, ma il Maresciallo riprese a parlare interrompendo il filo di quel ragionamento.

  • E poi mi era arrivata la voce che era meglio lasciar perdere. Che il Mare è una cosa troppo grossa per un Maresciallo. E a forza di fare avanti e indietro avrei finito per bagnarmi i calzoni. Lei capisce cosa intendo, vero, Tenente?

  • Capisco, capisco. ˗ Lo confortò Marcolin. Poi, dopo una breve pausa, finalmente: ˗ Staglianò, posso farti una domanda personale? ˗ Chiese abbassando di un tono la voce.

  • Prego.

  • Ma tu l’avevi mai vista prima la Teresa?

  • No.

  • E scusa, ma allora come…?

  • Così. ˗ Disse candido Staglianò. Sganciò i bottoni dorati d’ordinanza e dalla tasca interna della giacca estrasse un articolo di giornale ripiegato in quattro. ˗ Così. ˗ Ripeté. Poi stese la carta sul piano della scrivania e la ruotò, immagini e testo in favore del Tenente Marcolin.

L’articolo, strappato da una rivista settimanale di gossip, ritraeva il pastore Andracchio in posa con la sua nuova compagna, un cinghiale. La quale teneva in braccio un neonato. Tra le righe dell’intervista risaltava, in grassetto, un virgolettato dell’Andracchio: “ Grazie a lei ho superato il dramma di Teresa.”

Poi, più in basso, in un angolo della pagina, incastonata in un tondo dai contorni sottili, la foto di Teresa, la capra. “Era bella,” recitava la didascalia dell’immagine, “come la Loren da giovane. Ma il Mare me l’ha portata via.”

Le onde mi cullano e non mi resta che immaginare di essere tra le tue braccia.

Intorno a me, l’acqua riflette il cielo notturno più bello che si possa sperare di vedere.

Quante volte abbiamo guardato le stelle, amore mio? Seduti sul prato, la schiena contro lo steccato di legno: io mi spaventavo per ogni ombra troppo lunga e tu subito afferravi le mie corna e mi accarezzavi dolcemente, fino a farmi addormentare.

Vorrei essere lì con te, adesso, ma so che non posso.

Nemmeno tu, per quanto coraggioso, puoi sfidare il Mare.

Il Mare è immenso – è davanti gli occhi a tutti, è nella carne di ognuno – il Mare è un bambino egoista: si prende ciò che vuole da noi, senza chiedere, e non ce lo restituisce mai.

È un sadico, il Mare: t’illude d’avere speranza, ti spinge verso riva, ma poi ti richiama subito a sé. Non ci lascia mai liberi davvero. Ho provato a ribellarmi, sai amore mio? Pensavo avesse un senso lottare, pensavo che in nome di noi due valesse la pena farlo. E invece: guardaci, adesso, guardami. Guardami da dove ti scrivo. Giù, a fondo, nel buio più buio.

Qui dove sono adesso, amore, non c’è alto e basso, né destra né sinistra. Non ci sono curve, non ci sono rettilinei. Solo acqua. Acqua e altra acqua ancora. Nera nera.

L’idea di morire in questo modo mi ammazza più della morte stessa. Se potessi esprimere un desiderio, amore mio, uno soltanto, vorrei chiedere di scappare e tornare ai tuoi occhi scuri.

Ma desideri, qui, non ce ne sono più. Ne ho avuto uno quand’ero viva: amare, amarti. Vedi dove mi ha portato? Dove ci ha portati? Ora, l’unica cosa che mi è concessa, è dirti che ho sbagliato. E se è vero come è vero che sono qui sperduta nel nero, ti chiedo scusa, amore mio. Ti chiedo scusa per il dolore che ti procurato. Ti chiedo scusa di averci provato, di essere andata io al Mare. Solo adesso mi rendo conto che non avere scelta equivale ad avere una scelta precisa. Col Mare, ho scoperto, è così. Tutto, e allo stesso tempo niente. Come quello che è rimasto del nostro amore.

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L’importanza di scrivere

L’altra sera ho ricevuto un racconto via email.
Era di una ragazza con cui avevo scambiato giusto qualche messaggio.
Pochi giorni prima mi dice che le piace scrivere e le chiedo di mandarmi qualcosa, che sono curioso.
Così, superate le remore o la vergogna, un paio di sere fa si decide a mandarmi due vecchi lavori.
Mi dice che sono un po’ datati: 2010 e 2012.

La sera stessa, prima di dormire, decido di leggerli, che in fondo Mo Yan per una volta può aspettare.
So di non avere davanti il lavoro di una professionista, eppure c’è qualcosa che non mi fa levare gli occhi da quella pagina. Questo qualcosa è la sincerità con cui è scritta.
Quel racconto, a differenza di tanti altri che ho letto – e anche di parecchi romanzi – è puro, vero, credibile.
Leggendo quelle parole, mi è sembrato di conoscere quella ragazza da sempre e poco importava se la storia fosse autobiografica o totalmente inventata: io sapevo di star leggendo semplicemente lei.

Poi una frase: Tu che avevi la pazienza di un amore discreto e rassegnato…

L’ho trovata di una bellezza disarmante. Poche parole di una forza incredibile. Persino in questo momento non riesco a fare a meno di leggerle e rileggerle e leggerle ancora. Quella frase racchiude un mondo di emozioni e di immagini. Quella frase mi ha reso invidioso di non esserne l’autore.
Ho finito di leggere il racconto con i brividi, quasi vergognandomi dello star spiando – seppur con il permesso – la vita e il passato di questa ragazza.
Ero stanco, ma dovevo assolutamente leggere anche il secondo racconto.

Una volta finito, sono rimasto fermo. Poi ho spento la luce e mi sono messo a dormire.

Quando mi sono svegliato, però, ciò che avevo letto la sera precedente era ancora vivo nella mia testa. Era qualcosa che io stesso avevo vissuto.
Ho deciso, allora, di prendermi due giorni per pensarci sopra. Ne avevo bisogno.
Quei due racconti avevano stimolato non solo il mio lato creativo, dandomi subito la voglia di scrivere, ma anche la necessità di maturare una riflessione; la sensazione che ci fosse qualcosa che mi stesse sfuggendo e che fosse proprio lì, a due passi dal comprenderla.

 

Oggi ho finito di leggere il romanzo “Il supplizio del legno di sandalo” del sopracitato Mo Yan e ci sono arrivato.
Anche la sua scrittura era autentica e sincera. Per quanto stesse raccontando una storia, c’era lui. La fase della dissimulazione era superata, non c’era più bisogno di nascondersi dietro a una penna. E ho provato la medesima cosa nel leggere Benni, o Pennac, o McEwan, e altri grandi narratori. C’è sempre un momento in cui ti rendi conto che è tutto vero. Che sì, tutte quelle pagine servono a trasmettere qualcosa e arricchirti.
Eppure, tutti questi autori, sentendoli parlare ti fanno desiderare di non averlo mai fatto. Vorresti rimanere sulle loro pagine, perché sai che il modo in cui si comportano non è sincero. E’ quella la vera maschera.
Ma la loro natura, la loro essenza, è quella di cui sono intrise le loro parole.

E allora ho pensato che essere un grande narratore voglia dire avere il coraggio di raccontare sé stessi attraverso le storie di altri e abbattere quel noioso muro che troppa gente si diverte a erigere tra fiction e non fiction.
Che essere un grande narratore, come diceva Carver, è vedere ogni evento della propria vita, piacevole o spiacevole che sia, come un’occasione. Un’occasione per raccontare qualcosa, per fare letteratura, per esprimere sé stessi senza sigillarsi nella propria maschera pirandelliana.

Ed eccola, la meraviglia della letteratura! Eccola, la meraviglia dell’arte! L’arma di chi non ha paura di mostrarsi, dei coraggiosi che davvero non temono giudizio e non si vergognano di farsi denudare da chiunque, aspettandolo con il cuore in mano come il Cristo Misericordioso.

E allora scrivete! Scrivete tutti!  Che tutti scrivano e possano sentirsi, per una volta, vivi.
Questo è il mio invito a raccontarvi, a farvi conoscere, a non avere pudore o vergognarvi.
A essere dei bambini che non guardano indietro con rammarico e avanti con rassegnazione.

Per quello che riguarda i due racconti, non smetterò mai di ringraziare quella ragazza per avermeli fatti leggere. Per avermi dato modo di migliorarmi e soprattutto, per aver mostrato uno scorcio della meraviglia che sta dentro di lei.
Anche se non lo ha mai pensato, anche se non ci ha mai creduto, anche se la scrittura rimarrà sempre il suo piacevole passatempo, lei è un’autrice migliore di un mucchio d’altri che possono vedere il proprio nome dietro la vetrina di una libreria.

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Supportami

Ho voluto fare un esperimento, un azzardo.
Da oggi è disponibile su Amazon Racconti Raccolti“, un ebook che raccoglie sei miei racconti al prezzo simbolico di € 0.99.
I racconti, escluso uno, sono tutti editi qui sul mio blog e quindi fruibili gratuitamente.

Allora perché farlo?
Perché in questi giorni ho letto ovunque commenti di persone che si aspettano che un prodotto artistico – chiamiamolo così – libro o disco che sia, venga distribuito gratuitamente perché “l’arte deve essere accessibile a tutti”. Sono pienamente d’accordo, ma solo nella misura in cui si parla di fissare un tetto massimo per un prodotto.
La verità, però, è che un prodotto artistico – continuiamo a chiamarlo così – richiede ore e ore di lavoro. Ecco: quello che molti fanno difficoltà a capire è che questo è un lavoro.

Dietro ai miei racconti c’è la fatica dettata dalla speranza di consegnavi un prodotto al massimo delle mie capacità, un prodotto in cui metto tutto il mio impegno affinché possa essere qualitativo; e tutto questo mentre continuo la stesura del mio romanzo.

Insomma, la mia “arte” sarà sempre fruibile a tutti gratuitamente, ma se qualcuno volesse sposare la mia causa e supportare il mio lavoro, beh, potete farlo con meno di 1€.
Alla peggio, mi accontento anche di una recensione su Amazon e di una condivisione.

Grazie a tutti,
Andrea

 

Se siete interessati, potete trovarlo qui.

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