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Io e Jacques

Sono stanco. Fuori piove ed è come se Jacques Brel fosse qui, accanto a me.
Schiacciamo i nostri nasi contro il vetro della finestra e ci limitiamo ad appannarlo, di tanto in tanto. Guardiamo le persone: i passi affrettati e le teste basse sotto gli ombrelli. Inutile alzare lo sguardo, se non puoi vedere il cielo.
Le colline fumano d’angoscia e le strade si lasciano impastare dai passi dei viandanti.
Il sole dice: oggi no.
Jacques prende la chitarra e torna accanto a me. Si accende una sigaretta e apre la finestra. Il freddo entra, del calore non c’è più traccia.
Suona qualcosa, Jacques penso.
La mano accarezza le corde, ma sono note di pianoforte.
Alla fermata, un uomo e una donna si abbracciano. Forse si baciano. Aspettano il pullman, o il tram, o che qualcuno dica loro: non potete. Fare cosa chiederanno loro? Amarvi si sentiranno rispondere. Ridacchieranno e risponderanno è vero, siamo amanti. Se ne andranno.
Proteggiamo meno i nostri misteri canta la cicca di Jacques.
Oh, Jacques caro, ma quali misteri? Non li vedi, vestiti ma nudi, rotolare nella pioggia d’ottobre, mentre il sole d’agosto ancora non li ha lasciati? Le mani intrecciate e i capelli bagnati del catrame che li lega ai loro peccati. Se solo potessero dirsi addio, le carni e le anime di cui son fatti, queste danzerebbero fino a noi, sospese come il giudizio di chi ne ha troppo, e si farebbero ritrarre da te e dalle tue parole.
Ma a te non serve, Jacques. Tu che hai gli occhi ribaltati al contrario e che dentro di te vedono tutto quel che basta a vivere felici. Una scena allestita, un palco rialzato e il sipario che si apre.
Oh, Jacques, guardala! Lei che non conosce più il sapore dell’acqua e sta sdraiata ad aspettare. E quando ti avvicini e sei già pronto a carezzarla, e capisci che non è te che aspetta. Guarda fuori, Jacques, presto! Prima che i tuoi occhi piangano, prima che le tue lacrime anneghino il tuo stomaco, tu guarda fuori! E cerchiamo i due amanti, che loro sanno.
Oppure no, lasciamoli stare. A cosa serve chiedere, se già sappiamo? Cosa abbiamo da dire noi, io e te, se non parole spezzate di malinconia, se non frammenti di un mondo che nessuno riesce a vedere. Allora restiamo qui, Jacques, in silenzio. Restiamo qui, dietro questo vetro appannato e freddo, con quello che vorremmo dire e che non riusciamo. Restiamo qui, Jacques, con la chitarra e la sigaretta, e aspettiamo che fuori qualcosa accada.

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Mi chiamo Lucy Barton (****)

Affronto la recensione di questo romanzo col più profondo rispetto nei confronti di un’autrice dalla prosa magistrale, dotata di una tecnica narrativa capace di far impallidire gran parte degli autori contemporanei e Maestra indiscussa dei dialoghi. Eppure, per quanto dopo questa premessa possa sembrare che questo romanzo sia perfetto, devo osarmi nel dire che no, che questo romanzo non è perfetto, e che per me ha un terribile ed enorme difetto. Ma andiamo per gradi.

Elizabeth Strout – già premio Pulitzer nel 2009 – decide di prestare la propria voce e la propria penna a Lucy Barton, rendendola così protagonista, narratrice e autrice del romanzo Mi chiamo Lucy Barton. Questo espediente narrativo, questo far dimenticare al lettore che la storia sia frutto di fantasia, permette un’immedesimazione totale: è come se Lucy Barton si stesse confidando con noi, come se ci avesse fatti accomodare in salotto, davanti a una tazza di tè, e avesse iniziato a raccontarci la sua vita, a partire da quel giorno che, ricoverata in ospedale, ha visto comparire sua madre ai piedi del capezzale.
Perché è proprio così che inizia il romanzo: con il ricovero di Lucy – molti anni addietro – e la comparsa di sua madre, con cui non aveva più alcun rapporto da molti anni. La donna non entra in scena con sciocchi preamboli: è là. Semplicemente compare e tutto quello che vorresti fare è interrompere Lucy – sempre davanti alla tua tazza di tè – e chiederle se la madre fosse davvero là, o se fosse un fantasma, un sogno. Una scelta fantastica, questa evanescenza, da parte della Strout.
Eppure la madre c’è ed è una certezza, una delle poche informazioni che abbiamo all’inizio del libro. Non sappiamo nulla di Lucy, noi. E allora apprendiamo che Lucy rimarrà ricoverata per nove settimane in un ospedale di Manhattan, proprio di fronte al grattacielo Chrysler, e che la madre resterà ai piedi del suo letto per soli cinque giorni. Cinque giorni sui quali viene distribuito gran parte del carico narrativo del romanzo. Sarà proprio questo breve arco di tempo a permetterci di approfondire il rapporto tra le due donne e di svelare lentamente il passato di Lucy.
La narrazione è però frammentaria. Alle scene in ospedale, alla delicatezza dei dialoghi tra madre e figlia, vanno ad alternarsi frammenti del passato di Lucy che lei stessa ci racconta, nel suo presente narrativo, in quegli anni di molto posteriori al suo ricovero in ospedale. Così la narrazione diventa una treccia, una spirale chiusa e inattaccabile: Lucy racconta dell’ospedale e ciò che avviene in ospedale ci racconta a sua volta frammenti della vita della nostra protagonista; ci fornisce personaggi e vicende che hanno caratterizzato un’infanzia dura e difficile. Quella stessa infanzia che ha spinto Lucy ad allontanarsi dalla propria famiglia e dalla propria madre, a renderla spietata. Sì: Lucy è spietata. È lei stessa a dircelo, sul finire del romanzo.
Così quello che per molti viene definito un rapporto d’amore tra una madre e una figlia che si riabbracciano dopo tanti anni, nonostante tutto, nel momento del bisogno, per me non fa altro che definire a trecentosessanta gradi Lucy Barton, una donna spietata. Non c’è amore in quell’ospedale. C’è una giovane donna che vuole la mamma e che allo stesso tempo le imputa la propria natura, la colpevolizza per un affetto che non ha mai ricevuto. A Lucy Barton non interessa ciò che dice sua madre, le importa solo di sentire quella voce, di poterla avere di sottofondo mentre sonnecchia. La stessa Lucy ci confida spesso di non ricordarsi di quello che è stato detto, che crede che le parole fossero quelle.
Mi sono chiesto se Lucy Barton sia egoista o semplicemente incapace di amare. Lei che, a differenza di suo fratello e di sua sorella, riesce a scrollarsi via un’infanzia carica di vergogna e a diventare qualcuno, una scrittrice, ma che sull’altare di questo successo sacrifica tutto, pur senza rendersene conto. Lei, che per prendersi ciò che la vita le deve di diritto, rinuncia alla famiglia, al marito, alle figlie. Tutto solo per poi dire ho sbagliato. Tuttora mi chiedo chi sia davvero Lucy Barton e ogni volta ho il timore di sbagliarmi, di non poterla conoscere davvero. Questo perché Elizabeth Strout ha creato un personaggio talmente tridimensionale da averlo reso umano. Pur seguendo la sua voce in prima persona, noi non riusciamo a capire nel più profondo cosa stia pensando. Proprio come se fosse vera, in carne e ossa. Non è un semplice personaggio romanzato. No: Lucy Barton si ribella alla sua vita e ai suoi lettori. Comanda lei.
I fatti sono quelli, inderogabili, scolpiti nel tempo passato. Sono delle certezze immutabili e definite dalla maestria della penna di Elizabeth Strout.
Eppure, quello che filtra dal malinconico racconto di Lucy Barton, è che non vi sia sentimento. Che è un controsenso di per sé. Come fa un romanzo a essere così umano e allo stesso tempo privo di sentimento? Però è quello che io ho recepito. Come se il laconico racconto di Lucy Barton su quella che è stata la sua vita, di come ormai le cose siano andate così, trasmettesse una rassegnazione difficile da digerire. I fatti vengono riportati, nulla più, con un distacco che ci fa sempre sentire un po’ messi da parte. Questo è l’unico aspetto che ho trovato fastidioso in questo romanzo, ma non riesco ancora a capire se sia un difetto oggettivo o soltanto insofferenza nei confronti di una donna, Lucy Barton, che ho iniziato a odiare ogni giorno di più.

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Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Editore: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo di copertina: 17,50 euro

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Il mio 11 settembre

Capisci di essere arrivato a Ground Zero perché la città di colpo tace, come se le fronde degli oltre 400 alberi del parco riuscissero a trattenere le molte voci della città di New York. Ci vuole un po’ di tempo prima che le tue orecchie riescano a sostituire il vociare delle persone con il cinguettio degli uccelli e il rumore del traffico con il gorgoglio dell’acqua che scorre della fontane della rimembranza. Il tempo sembra fermarsi. O meglio: il tempo sembra essersi fermato quattordici anni prima. Ti guardi attorno sperduto: New York torna a essere a misura d’uomo.
Avvicinandoti alle due fontane, che poi sono due vasche ricavate dalle fondamenta delle Torri Gemelle, non puoi fare a meno di provare un senso di vuoto. Un senso di vuoto fisico, sì, ma anche spirituale. Perché ogni mattina, là, si aggiravano migliaia di persone e ora non più.
Di quegli uomini e di quelle donne, ora, non rimane altro che i nomi incisi sulle due cornici delle fontane. Inizi a leggerne uno, poi un altro, e vai avanti perché non riesci a fermarti. Vorresti sapere chi sono, la loro storia. È la forza nascosta di questo memoriale, il ricordarti che quelli non sono soltanto dei nomi. Sono quei nomi. E dietro quei nomi ci sono delle vite sgretolatesi in un istante che non è soltanto un istante, ma è quell’istante.
Tanti sono cognomi italiani, figli e nipoti di emigranti. Ti chiedi cosa li abbia portati là. In fondo conosci la risposta, ma cerchi un’individualità che forse non esiste.
Sottolinei i nomi con l’indice, come si fa quando si impara a leggere. Vuoi essere sicuro di non sbagliare neppure una sola lettera.
Ogni tanto una rosa rossa: il gambo infilato nel vuoto delle lettere di un nome. Emily, leggi. Ti dicono che oggi sarebbe stato il suo compleanno. Trattieni il respiro. La rosa non ha spine, ma è come se ti avesse punto comunque. È il compleanno anche di John. E di Mark e di Joy. Di Mary.
Fa male, sì.
Guardi l’acqua scorrere nelle vasche. Viene risucchiata non appena tocca il fondo. Vorrebbe riempire quel vuoto, ma non può farlo. Ti ricorda che non può farlo.
Abbandoni le fontane, ma vorresti tornare sui tuoi passi. Ti sembra di non aver dedicato abbastanza tempo a quei nomi.

Ti metti in fila per entrare nel museo. I parenti delle vittime entrano gratis. Torni bruscamente alla realtà. Esistono dei mariti, delle mogli, dei genitori e dei figli. Quel giorno non è poi così lontano. Per noi è storia, per loro sono quattordici anni.
Mostri il biglietto e ti avvii verso il controllo sicurezza. Svuoti le tasche, passi il detector. Ti chiedi se ce ne sia davvero bisogno. In un mondo normale no. Poi ti guardi attorno, pensi a cos’hai appena visto e cosa stai per visitare, e ti ricordi che qui di normale non c’è proprio nulla.

Ti trovi davanti una smisurata parete di mattonelle blu. Una frase al centro no day shall erase you from the memory of time. Virgilio.
Continui a scendere nelle viscere di quelle che erano le fondamenta delle due torri. Un pilastro è rimasto in piedi, ora è ricoperto di nomi e foto. Capisci che da quel momento non sarà facile.
Viene ricostruito quel giorno, ora per ora. Ti spiegano chi fossero i terroristi. Puoi guardarli in faccia, ci sono anche le loro foto.
Ti muovi tra camion dei pompieri distrutti ed effetti personali recuperati intatti ed esposti in piccole teche di vetro. Scarpe col tacco che non hanno più ritrovato i loro piedi, bambolotti, ventiquattrore. Un telefono nero. Alzi la cornetta e la porti all’orecchio. La voce di un uomo che dice alla moglie che la ama, che il volo è stato dirottato, che non si rivedranno mai più. Quell’uomo era sull’aereo, la donna no. Posi la cornetta e piangi.
Continui ad aggirarti nella ricostruzione di quel giorno spettrale, senza sapere che sarà sempre peggio. Ti trovi a fissare una foto di Mike Kehoe, un ragazzo vestito da pompiere immortalato su una delle scale mentre sgrana gli occhi verso la camera. Cosa sta succedendo si chiede. Mike, in quel momento, mentre aiutava nelle operazioni di soccorso, non sapeva che sarebbe sopravvissuto.
Prosegui, passi davanti a un’enorme bandiera americana fatta di brandelli mandati da ogni stato del mondo e cuciti insieme. La fratellanza esiste solo nei momenti drammatici?
Tra i molti oggetti personali raccolti, una bandana rossa attira la tua attenzione. Leggi il pannello descrittivo, scopri la storia di Welles Crowther, piangi. La rileggi, piangi di nuovo. L’uomo con la bandana rossa. Nei fumetti, il supereroe si salva sempre. È per questo che continui a rileggere quel maledetto pannello: speri che il finale possa cambiare. Non è così. Welles è morto. Ti allontani per riprendere il controllo sulla tua respirazione, ma dietro l’angolo vedi la proiezione di un filmato: una donna si lascia cadere da una finestra della torre in fiamme (Un passo appena). Un gesto ripetuto da più di duecento persone.
Nella sala regna il silenzio, ma tu vorresti scappare. Senti il frastuono dei pilastri che cedono, delle torri che crollano, le urla di chi cerca disperatamente aiuto senza trovarlo. Vorresti gridare anche tu, dire basta, ma non succede nulla. Così come non successe nulla quando sono state quelle persone a chiedere disperatamente che tutto finisse.
Ormai non ti importa più di quello che puoi vedere. Sei pronto a tutto. O quasi. Perché di trovarti davanti a un muro con sopra più di 2800 facce, proprio non te lo aspetti. Ti fermi, ti perdi nei loro occhi. Capisci cosa voglia dire vita spezzata. Alle tue spalle c’è una piccola saletta. Prima di entrare, scorri il dito sui dei pannelli touch-screen: puoi vedere la biografia di ciascuna vittima. Lo fai. Quando capisci di essere al limite, che forse quelle storie non volevi davvero conoscerle, sposti finalmente la tenda ed entri nella piccola saletta.
Da un altoparlante, la voce di una donna legge dei nomi. Per ogni nome, viene proiettata una foto sul muro. Un cenno biografico. E così per sempre, senza sosta. Le tue gambe non reggono e ti siedi su di una delle panche di legno ospitate dalle pareti nere. Ai lati di ogni panca c’è un distributore di fazzoletti. Decidi di alzarti prima di doverli usare. Alle tue spalle, mentre esci, quei nomi scanditi nell’eternità e il rumore di fazzoletti strappati via.
Via.

Via.
Esci dal museo e il gorgoglio dell’acqua delle fontane ti sembra ora l’infrangersi di una cascata. Puoi sentire quei nomi urlare e vedere le rose appassire. Entri di fretta nella Freedom Tower e sali al centoduesimo piano.
New York si estende davanti ai tuoi occhi. Cerchi la Statua della Libertà. La trovi.
Sorridi.

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Ehi, Sozaboy

Ehi Sozaboy.
Tanti amici che auspicano una carriera militare, o rimpiangono la leva obbligatoria, o pensano alla guerra non tanto come a qualcosa di necessario, ma proprio di normale, dovrebbero sentirsi chiamare ehi Sozaboy.

Sozaboy” è il titolo del romanzo più celebre di Ken Saro-Wiwa, l’intellettuale nigeriano assassinato – e non giustiziato – dal regime militare nel 1955, sotto la pressione della compagnia petrolifera Shell.

Un particolare macabro, ma che io trovo necessario: venne impiccato, ma il cappio fatto male impediva all’osso del collo di spezzarsi, strozzandolo solo; dovettero tirarlo su e lasciarlo cadere oltre la botola per ben quattro volte. Posso vederlo, Ken Saro-Wiwa, mentre si porta le mani al collo per allentare il laccio e piangendo chiede perché gli stiano facendo tutto questo.

Già. Perché tanta sofferenza?
E’ quello che si chiede Mene, il protagonista del romanzo. Che poi non è un romanzo, è il suo viaggio di formazione.
Anzi: è molteplici viaggi di formazione.

Sì, perché può esserlo per quel ragazzino che viene da Dukana, quel ragazzino con il serpente sempre ritto, attratto dall’uniforme e dal luccichio dei fucili; ma lo è anche per il ragazzino che viene da Dukana e vuole diventare un soldato per sentirsi importante; e forse anche per quel ragazzino che viene da Dukana e che pensa di conoscere la guerra perché ne ha sentito parlare, che sa come si combatte Hitla.

Oppure può esserlo per noi, che crediamo la guerra sia quella che ci mostrano ogni giorno in televisione, o nei film in cui Brad Pitt si barrica in un carrarmato e muore valorosamente dopo aver ammazzato mille nemici. Che poi, un nemico cos’è? Saro-Wiwa ce lo spiega: il nemico è un uomo con un’uniforme diversa che, come te, non sa per cosa stia combattendo. Ma la guerra è la guerra.

Sì, di sicuro può esserlo per noi. Noi che riusciamo a realizzare che la guerra c’entra con la morte solo quando fanno una strage nello stato accanto al nostro. Altrimenti, la guerra è semplicemente una cosa che esiste, da qualche parte. Che c’è sempre stata, insomma, e quindi amen. Perché la guerra piace a tutti, ma mica vogliamo finire in fanteria. No, a noi la guerra piace sì, ma quella che si combatte da casa, mentre mamma ci prepara un piatto di pasta per cena.

Sì, di sicuro può esserlo per noi che non sappiamo cosa sia un profugo e delle condizioni in cui i rifugiati hanno da sempre vissuto:
Questo campo è in realtà un vero e proprio letamaio umano e tutta quella gente che ora chiamano rifugiati ormai è gente che hanno gettato via come immondizia. Non servono più a niente. Non posseggono più nulla, in questo mondo. Neanche il cibo più comune da mangiare. E tutto quello che hanno, devono elemosinarlo prima di poterlo avere. Tutti i bambini hanno la pancia grande grande, come una donna incinta. E se tu vedessi le gambe e gli occhi. Sembra qualcosa che di solito vedi in un film o dentro la foresta malvagia degli incubi.

Già.
Ma quindi di cosa parla “Sozaboy”?

Sozaboy parla del male. Del male che è radicato nel mondo e che prende a schiaffi in faccia un ragazzo ingenuo come lo siamo, o lo eravamo, tutti. Parla di Mene, che finisce in una guerra più grossa di lui, decisa dai bianchi e combattuta dai neri, e che vuole solo ritrovare sua madre e sua moglie che ha più tette che anima. Sozaboy parla di una realtà che noi possiamo riuscire a vedere, a scoprire e a comprendere solo leggendolo. E solo leggendo, mi sento di dire. Perché è nei libri, in queste storie, che viene fuori la verità. E’ leggendo che viene il disgusto per la violenza, il ripudio per la guerra, e la voglia di non ascoltare mai più chi ti dice che è un suo diritto avere un fucile in casa e che il mondo è giusto, che deve funzionare così.

Per chi cercava una recensione, su internet ce ne sono sicuramente di esaustive.
Tutto quello che mi sento di dire io è che questo libro fa male. Molto male.

Ehi, Sozaboy.

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Shankara, la perla d’Oriente

Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitino il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti.
Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Prius, influente cavaliere della guardia del re DI QUALCOSA nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Ultius, insignificante contadino delle terre del re DI QUALCOSA, nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa non fu la giustificazione che si diede Dain, re DI QUALCOSA, nel trovare Prius e Ultius giacere con la regina, nonché propria moglie.

Prius e Ultius furono molto fortunati. Quello, infatti, fu l’unico anno in cui nel regno DI QUALCOSA venne sospesa la pena di morte. Gli eruditi avevano suggerito al re di prendere questa decisione perché, a loro dire, terrorizzare i sudditi si era rivelato più volte una scelta controproducente. Re Dain, uno di quei re che vogliono essere ricordati per la loro magnanimità, si scoprì entusiasta di potersi mostrare così progressista agli occhi degli altri sovrani e accettò di buon grado la proposta.
E chissà cosa sarebbe successo, se il cuore del buon re avesse retto e non avesse deciso, invece, di esplodere al pari di un fiore che sboccia. Forse egli stesso si sarebbe accorto che, per governare, il pugno duro serve eccome! Che i servi hanno bisogno di limiti imposti dai padroni, così come gli angeli e le cose tutte hanno bisogno di Dio. E un buon sovrano è questo che non deve far dimenticare ai propri sudditi: come Dio, egli può privarli di ogni cosa, perfino della vita, e in qualsiasi momento. Solo in questo modo i ruoli vengono rispettati. Ma, come dicevamo, il povero re Dain non ebbe possibilità di rimediare allo sbaglio commesso e i due traditori vennero banditi e null’altro.
La pena di morte, reintrodotta dal sovrano seguente, Tyrano, recuperò ben presto l’anno perduto e collezionò ottantasette teste nel solo primo mese di attività. Ma quello che successe nel regno DI QUALCOSA, dopo l’allontanamento dei padri fondatori di Ogniranza, è ininfluente al proseguo della nostra storia e non deve interessarci.

Prius e Ultius erano due uomini affini, due anime che Dio avrebbe fatto incontrare anche se fossero nate agli estremi opposti del globo. L’unico ostacolo tra loro era l’appartenere a due classi sociali profondamente diverse. Con l’esilio questa unica barriera fu abbattuta e i due uomini capirono di avere un destino in comune. Il peccato e il sesso che l’aveva originato, nonché l’eguale pena subita, appianarono le divergenze e i pregiudizi radicati nella testa dei due. Certo, la prima volta non fu facile. Prius era alto e vigoroso, la pelle liscia e un portamento che non l’avrebbe mai lasciato confondere con uno di quegli altri: bassi e tarchiati dalla zappa, la pelle ustionata dal sole sempre presente, schiavista per diletto, rozzi e grezzi; insomma: uno come Ultius. E Prius lo guardò dall’alto al basso, quella prima volta. Lo guardò con la sufficienza di chi crede che la vita in certi corpi sia proprio uno spreco. E che gli occhi neri e lerci di un contadino non si abbassassero davanti ai suoi, verdi come le foglie della più in salute tra le piante, lo irritava e non poco. In altra sede, quell’insolenza sarebbe stata punita con un bel fendente tra mento e spalle. Ah, se solo la regina gli avesse permesso di tenere le armi con sé… Non riusciva a capire cosa ci trovasse, in quell’essere, e si chiese quanta perversione scorresse nelle vene di una donna non solo così potente, ma anche di una raffinatezza famosa in tutto il regno.

– Vi ho convocati qui perché questa notte ho sognato di voi – disse la regina.

Congedò gli uomini di scorta con un cenno. Rimase in silenzio e Ultius non poté fare a meno di volgere la più totale attenzione all’ambiente che li ospitava. Il soffitto si ergeva forse sei metri al di sopra del suo naso schiacciato, sorretto da mura in pietra calcarea accuratamente ridipinta di bordò; sulla sommità, alte finestre lasciavano che la luce, filtrata da fini tende color panna, disegnasse morbide ombre sulla parete opposta, mettendone in risalto lunghi arazzi mai stufi di raccontare le gesta della stirpe reale. E poi mobili d’oro e legno massiccio, intarsiati di lapislazzuli e pietre preziose di ogni genere, a occupare la vastità della stanza come tante isole puntellano il più bello dei mari. Così al centro di quell’arcipelago, come un meraviglioso vulcano, si ergeva il letto della regina: un baldacchino alto come possono esserlo due uomini che si sorreggono l’uno sulle spalle dell’altro, racchiuso da spessi teli ricamati dalle migliori filatrici del regno; e il cuore, grande quanto una qualunque stanza da letto, già placava gli animi più focosi mostrando loro la quantità di cuscini pronti a ospitarne lo stanco riposo. E infine, quella conchiglia non poteva lustrarsi di perla migliore: la regina Shankara. Ora che lo sguardo si era fermato su di lei, non gli riusciva più di distoglierlo. Il suo nome raggiungeva ogni confine del regno e si erano sprecate leggende sulla sua bellezza. Qualcuna la voleva alta e bionda come una ninfa del nord, altre un’Ispanica dal sangue guerriero; e ancora una raminga che aveva stregato re Dain con un filtro d’amore. Ma la verità era diversa e Ultius non poteva conoscerla. Perfino Prius, così vicino alla famiglia reale, ignorava cosa ne fosse di Shankara prima di essere regina. Eppure, a osservarla, qualcosa si smosse nella memoria del contadino. Quella lunga chioma nera che ricadeva con una compostezza quasi selvaggia sulle spalle della donna e quella carnagione olivastra che la rendeva unica all’interno del regno, gli fecero riaffiorare le parole di un viandante ospitato forse un paio di lustri addietro. Questi diceva di aver fatto parte della scorta che aveva portato la regina Shankara a re Dain. Viene dalle terre d’oriente, dove le lettere degli uomini si chiamano numeri, ed è figlia di un importante sovrano, da anni in guerra contro re Dain. I due regni, logori dal conflitto, hanno tentato di sancire una pace duratura tramite un legame di sangue. Così la più giovane, nonché più bella, delle figlie del sovrano d’Oriente, è stata data in sposa a re Dain, che era ancora un giovane condottiero. Shankara è il suo nome. Partì bambina e arrivò donna.
Solo allora Ultius si accorse dell’inumana bellezza che gli stava di fronte, a pochi passi, vestita di un sari che lasciava vederne il corpo e, allo stesso tempo, ne nascondeva i tratti più desiderati.
Non riuscì ad alzare lo sguardo al di sopra di quelle labbra, tinte del colore del sangue, finché non scoccarono.

– Di te ho memoria, Prius. Sei a capo della scorta di mio marito. Immagino, invece, che tu sia solo uno spregevole contadino, ma per me non fa differenza. Se è la volontà degli dei… Ho sognato di questo momento in una notte come tante altre. Vivo in un palazzo grande quanto un qualsiasi regno a noi confinante e la mia stanza potrebbe ospitare le famiglie di un’intera città. Forse questo è il desiderio di molti, ma non il mio. È la solitudine a riempire il vuoto tra queste mura fredde, mentre io nascondo il mio volto sotto a quella pila di inutili cuscini. Ho provato a dare vita a qualcosa che potesse avvicinarsi alla mia infanzia, o almeno ai ricordi confusi che le appartengono, ma è stato tutto vano.

Si avvicinò con passo fermo a uno degli arazzi celebrativi e lo sfiorò con le dita, più simili a quelle di una bambina che non aveva mai dovuto adoperarle, che a quelle di una giovane donna.
Il tempo sembrò fermarsi, mentre la regina leggeva impassibile la storia raccontata da quelle trame filate con così tanta cura. Il respiro dei due uomini era l’unica testimonianza dello scorrere dei secondi, l’unico appiglio della stessa Shankara nel pantano nutrito da una fanciullezza che, lieve come un canto lontano, le si insinuava nella testa ricordandole cosa fossero l’innocenza e la felicità, ma senza riuscirvi.

– La verità è che la mia stessa infanzia non mi appartiene più. Non troverete gioia nella mia ricchezza. Io stessa sono ricchezza, merce scambiata in nome del nulla: la pace. Un padre dovrebbe essere pronto alla guerra, se qualcuno volesse privarlo della propria bambina… Ma non il mio. Forse non ne ho mai avuto uno.

Continuava a guardare l’arazzo, parlando più a se stessa che ai due uomini.

– Durante il viaggio che mi ha condotto in questo regno, sono riuscita a convincermi di essere solo questo, un oggetto che due uomini potenti si scambiavano in segno di ammirazione. Ed è ciò su cui è fondata la devozione per mio marito, re Dain. La scarsa stima che avevo di me, nascondeva ai miei occhi la vera natura di quel ragazzo così debole da terminare una guerra solo per avere una bambina che scaldasse il suo letto. Perché è questa che è stata la mia vita, quella di una bambina abbandonata e sedotta, convinta di avere trovato un fratello maggiore, forse un vero padre, e non un mostro che la illudeva sulla vera natura del volersi bene.

Si voltò, gli occhi lustrati come boccioli dalla rugiada.

– Guardate il mio regno! – disse allargando le braccia – Ma gli dei mi hanno parlato. Sì, quegli stessi dei che mi hanno abbandonata nel corso di tutta la mia esistenza. Quegli stessi dei che ho giurato di odiare molto tempo fa. Dapprima erano ombre, poi le ombre si sono animate e parole di un linguaggio antico, primitivo, hanno mosso le mie stesse labbra. Non posso svelarvi ogni cosa, perché il futuro non vedrebbe la luce, ma la mia vita ha trovato un senso. I battiti che il mio cuore ha speso sinora, non sono stati vani come credevo. Ora io so di essere importante, ora io conosco il mio scopo.

Aveva la testa bassa, ma teneva lo sguardo alto: una tigre sicura dei propri passi.
Ultius sentì le sue mani ordinargli di seguirla verso il letto e si lasciò andare, così come una bestia trascinata per il collo capisce di non poter fare nulla e segue rassegnata il suo destino.

 

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Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitano il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti. Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E così viene tramandato che i due padri fondatori di Ogniranza sono un contadino, Ultius, e il cavaliere capo della scorta del re di Tyrania, Prius. In quell’unico anno, il re decise di sospendere la pena di morte, confidando di apparire un progressista agli occhi dei sovrani dei regni confinanti e di ingraziarsi gli intellettuali che lo avrebbero così elogiato. Il povero re si chiamava Dain e in giovinezza fu un temibile condottiero; da anni in guerra con il Sovrano d’Oriente, decise di arrestare le proprie mire espansioniste in cambio della più preziosa tra le ricchezze dell’avversario: sua figlia Shankara. Nonostante fosse poco più che una bambina, si parlava della sua bellezza in ogni angolo del mondo conosciuto. Shankara, la perla d’Oriente. E come una perla, il padre la infiocchettò e spedì al giovane Dain in segno di rispetto.
Partì bambina, arrivò donna.
Se il capriccioso Dain fosse stato cosciente della rovina cui stava andando incontro, forse non avrebbe provato così tanta soddisfazione nel vedersela recapitare a palazzo e l’eccitazione nel gustarne il corpo appena spogliato del sari, sarebbe sfumata all’istante.
Passarono gli anni e Shankara li trascorse prigioniera di un palazzo vasto quanto un regno, di una stanza che avrebbe potuto ospitare le famiglie di un’intera città. Ma ai suoi occhi le pareti di quella camera erano sempre più opprimenti e non bastava l’averle dipinte di bordò, decorate di arazzi che inventassero un’infanzia smarrita, o ancora aver fatto di un baldacchino sontuoso la propria capitale. Regina di quell’harem, Shankara crebbe ostile a re Dain, oltre che al proprio padre, e agli dei; quegli stessi dei che, in una delle poche notti libere dalla veglia, le si palesarono in sogno come ombre confuse, depositarie di un linguaggio primitivo e solenne. Avrebbe avuto modo di riscattarsi. Avrebbe avuto modo di vendicarsi. Non si erano dimenticati di lei. Shankara, la perla d’Oriente, avrebbe cambiato per sempre il corso della storia.
Svegliatasi, non perse tempo. Diede ordine di trovare quei due, Prius e Ultius, secondo le disposizioni degli dei. Avrebbe aspettato seduta al suo specchio e sarebbe stata pronta, la più bella di tutte. La perla d’Oriente sarebbe tornata a brillare.
Li trovarono e glieli consegnarono. Il contadino e il cavaliere. E lei li accolse, li accolse tra le sue gambe come una madre accoglie tra le braccia un figlio ritrovato dopo tanto tempo. Le pareti si tinsero di un rosso più acceso, di quella stessa passione che per la prima volta fece chiudere le tende di quel baldacchino.
La perla d’Oriente continuava a brillare.
Fu re Dain a riaprirle, quelle tende, e a trovarsi davanti a quella conchiglia di corpi che gelosamente custodiva la sua perla. Nessun urlo, giusto un sibilo. Forse un sussurro. E il cuore del re esplose come un bocciolo in fiore.
Prius e Ultius, in assenza della pena capitale, vennero banditi e catapultati dal regno di Shankara a quello di nessuno, fatto non di morbide lenzuola, ma di lande desolate.
Della regina, invece, nessuno sentì più parlare. Ma è quello che spetta a chi veramente decide di scrivere la storia.

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Rael, lo spirito della palude (o studio su “Racconti fantastici di Liao” di Pu Songling)

C’era un tempo un ricco funzionario del ministero che si chiamava Alheen. Era un uomo molto importante e quando camminava per strada tutti si affrettavano a inchinarsi per riverirlo. Aveva una barba nera molto lunga e molto folta di cui era orgoglioso e tutti i bambini della città di Ahreheo sognavano di averne una bella come la sua. Gli anziani dicevano che la sua barba era così pesante da andare a fondo in una bacinella d’acqua, anziché galleggiare.
Era molto arrogante e maltrattava tutti quelli che il suo rango gli permetteva di maltrattare. Molti erano i poveri e i mendicanti che aveva picchiato con il suo bastone di giada bianca. Al ministero lo temevano tutti, soprattutto una vecchia puzzolente che faceva le pulizie e che lui prendeva sempre a sputi, calci e bastonate mentre i funzionari guardavano e ridevano.
Un mattino, dopo essersi lavato e cambiato d’abito, Alheen notò nel lavandino un pelo lungo e bianco. Dapprima lo scambiò per il baffo della tigre Saar, spirito di Ahreheo, e se ne rallegrò perché compariva solo alle persone illustri in segno di buon auspicio. Dopo averlo osservato con attenzione, però, gli sembrò invece un pelo della sua barba e si preoccupò molto perché non ne aveva mai perso uno e non ne aveva mai avuto uno bianco. In preda all’agitazione e ai brutti pensieri, si affrettò a uscire.
Alheen non si presentò al ministero e tutti furono sorpresi perché era andato anche il giorno che era morta sua moglie.
La voce si sparse veloce veloce e alcuni funzionari dissero di aver visto Alheen correre per le vie di Ahreheo senza fermarsi, come se il demone Aru muovesse le sue gambe per produrre calore con cui bruciare la legna dell’Inferno. Altri ancora riferirono che l’Imperatore lo aveva chiamato alla Capitale perché voleva farlo governatore della regione.
Sentendo fare questi discorsi e dire tante bugie, la vecchia puzzolente che faceva le pulizie al ministero affermò di sapere dove fosse Alheen e che lo avrebbe detto in cambio di una ciotola calda di brodo di lepre e una caraffa di vino. Tutti erano curiosi e così le promisero ciò che voleva.
La vecchia puzzolente si sentì importante e disse che Alheen era andato in gran segreto dal contabile Turuc e che lei lo sapeva perché lo aveva seguito.
A quel punto tutti scoppiarono a ridere e così anche la vecchia puzzolente scoppiò a ridere e chiese la sua ricompensa. Così i funzionari continuarono a ridere più forte e la presero a turno a calci nel sedere dicendole che quello era il suo premio per essere una spiona e di continuare a lavare i pavimenti, o le avrebbero dato altre ricompense.
Ma Alheen era andato davvero dal contabile Turuc, che era un suo uomo di fiducia e caro amico. Ogni anno Turuc contava i peli della barba di Alheen e riportava il numero su un foglio segreto che nascondeva. E ogni anno Turuc contava cinquemilaquattrocentosettantatré peli di colore nero.
Anche se li avevano contati pochi mesi prima, Alheen gli raccontò del suo ritrovamento e lo pregò di controllare.
Così Turuc contò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Così Turuc ricontò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Poi Alheen scoppiò a piangere e cominciò a darsi pugni sulla testa e Turuc lo fermò prima che si strappasse la barba a grandi ciuffi.
Alheen era disperato e Turuc era dispiaciuto per l’amico. Provò a consolarlo ma non ci riuscì e allora gli disse dopotutto è solo un pelo bianco e menomale che ne è caduto uno bianco!
Ma Alheen si arrabbiò molto e gli disse stupido, non lo sai che se cade un pelo bianco da una folta barba nera è presagio di grande sfortuna? Sei davvero un figlio di un cane e me ne vado prima di prenderti a bastonate!
E infatti dopo pochi giorni Alheen fu colpito da numerose sventure.
Ogni mattino trovava nel lavandino numerosi peli e la sua barba diventava sempre più striminzita e tutti i bambini della città di Ahreheo lo prendevano in giro e gli tiravano addosso le pietre quando passava. Alheen anche dimagrì molto perché tutto il cibo che comprava veniva divorato dalle formiche prima che riuscisse a mangiarlo. Era così asciutto da sembrare un fantasma delle paludi e, siccome molti al lavoro si spaventavano nel vederlo, il magistrato gli ordinò di rimanere a casa per curarsi e non tornare finché non fosse guarito.
Nessuno riconosceva più Alheen e tutti lo scambiavano per un mendicante pidocchioso.
Lui si sentiva a poco a poco morire perché nessuno gli dava del cibo e in casa non ne aveva più.
Così un giorno andò nella locanda di Shyin dove andava sempre, ma Shyin non lo riconobbe e lo cacciò via a manate. Allora provò nella locanda di Assaji dove anche andava sempre, ma Assaji non lo riconobbe e lo cacciò via a calci. Allora provò nella locanda di Semin dove anche andava sempre, ma Semin non lo riconobbe e lo cacciò via a bastonate.
Ormai rassegnato e col corpo livido, Alheen il ricco funzionario del ministero si trascinò verso l’uscita della città, deciso a farla finita.
Proprio mentre superava l’ultima casa, vide uno splendido edifico che non aveva mai visto prima. Era una grossa locanda con enormi tavoli in legno e stendardi dorati a forma di dente di tigre. Alheen pensò che un posto così bello non lo aveva mai visto ed era strano e che avrebbe tanto voluto andarci. Ma nessuno lo avrebbe voluto e lo superò.
Una voce di donna però lo chiamò signore! signore! e lui incredulo si girò e vide questa donna vestita da cameriera che gli faceva segno di avvicinarsi. Lui non si mosse e così la donna andò da lui, lo prese sottobraccio e lo fece sedere a uno dei tavoli. L’uomo rimase meravigliato, ma non fece in tempo a parlare perché la donna scomparve nella locanda.
Dopo un po’ che l’aspettava, la donna tornò con un vassoio pieno di cibi di ogni tipo e Alheen divorò tutto con grande voracità, senza preoccuparsi di sporcarsi tutta la faccia. Tanto non sono più io pensò.
La donna portò molti vassoi per molto tempo e Alheen mangiò tutto.
Perché siete così buona con uno schifoso mendicante chiese e la donna rispose io so chi siete voi. Siete voi che non lo sapete più. Ma io vi voglio aiutare e ora che avete mangiato potete partire. Partire per dove? chiese Alheen. Per le paludi. Dovete cercare Rael lo spirito della palude. Sono sicura che vi si mostrerà e vi aiuterà, anche se vi farà credere di no. Voi fate tutto quello che vi dice e sarete chi eravate.
L’uomo ringraziò la donna molte volte chinando il capo e uscì dalla città.
Arrivò alle paludi dopo molte ore. La notte non lo spaventava più, perché egli stesso era un fantasma e gli spiritelli facevano i dispetti solo agli uomini.
Cercò e cercò, ma non trovò nulla. Era disperato ma continuò a vagare per le paludi.
A un certo punto vide una palla di luce bianca sopra a una pozza di acqua putrida.
Vieni qui e purificati disse la voce di donna più bella che avesse mai sentito.
Alheen pensò che fosse Rael e fece ciò che gli era stato comandato.
Sei proprio uno scemo iniziò a canzonarlo la voce. Sei uno scemo, stupido puzzone di un mendicante fantasmino. Adesso che sei entrato nella pozza il tuo fetore è come quello di dieci elefanti morti. Fai così schifo che le acque non ti annegano perché nemmeno la Morte ti vuole con lei.
Alheen disse è vero.
Adesso devi saltellare come le pulci che vivono nelle tue orecchie e poi rotolare come i maiali nel fango.
Sì disse Alheen e lo fece.
Adesso devi bere tutta l’acqua che puoi bere e non devi né vomitare né cacarti addosso.
L’uomo bevve tutta l’acqua putrida e con grande forza di volontà riuscì a non vomitare e a non cacarsi addosso.
Bravo scemo disse la palla di luce bianca fai più schifo dell’acqua in cui sguazzi.
E sparì.
Alheen scoppiò a piangere e decise di ammazzarsi. Così si inginocchiò e mise la testa sott’acqua e si obbligò di respirare.
Proprio quando i polmoni erano pieni di melma putrida, Alheen spalancò gli occhi e vide una giovane sott’acqua come lui che lo guardava. Era sicuramente la ragazza più bella che avesse mai visto e subito s’innamorò. Lei lo prese per i capelli e lo fece riemergere. I polmoni si riempirono di aria e Alheen vide che la ragazza aveva orecchie di volpe. Capì che era Rael lo spirito della palude. Tu sei un uomo povero, perché sei sempre stato povero disse Rael e dopo un po’ tutte le verità degli uomini si mostrano per quelle che sono. Alheen sapeva che era vero e rimase zitto. È scritto che tu farai cose importanti ma tu hai già sprecato metà della tua esistenza e non hai fatto nulla di buono. Gli dei ti hanno dato tanti talenti e tu li hai usati per accontentarti di una vita mediocre da uomo mediocre e allora è giusto tu muoia e che i tuoi talenti vengano riassegnati a un uomo migliore di te. Alheen sapeva che era tutto vero e allora disse voglio cambiare, ti prego dimmi cosa devo fare, tu hai ragione perché io sono un uomo piccolo piccolo e tu una una giovane ragazza grande grande. Mettimi alla prova, io farò tutto ciò che mi comanderai e non ti deluderò. Rael lo guardò sospettosa, poi gli sorrise e gli disse di tornare a casa. Alheen si innamorò del suo sorriso e tornò a casa pensando solo a esso.
Trascorsero molti giorni e Alheen recuperò l’aspetto e la salute di un tempo: persino la barba ricrebbe folta, nera e rigogliosa. Il suo prestigio tornò a precederlo e per strada tutti lo riverivano e nelle locande tutti lo servivano. Il magistrato gli restituì il suo impiego e tutte le voci su di lui cessarono.
Una sera stava mangiando un cosciotto di capra quando sentì bussare alla porta. Aprì e si trovò davanti la vecchia puzzolente. Ho fame gli disse inginocchiandosi e sbattendo molte volte la fronte contro il terreno. Alheem scoppiò a ridere e stava per chiuderle la porta in faccia, quando si ricordò di cosa volesse dire morire di fame. Allora si affrettò ad aiutare la vecchia puzzolente ad alzarsi e la fece entrare.
La vecchia teneva lo sguardo basso e si vergognava molto, ma Alheen la fece accomodare alla sua tavola e le servì tutte le pietanze che aveva cucinato per sé. La vecchia mangiò tutto molto in fretta e dopo aver ringraziato andò via.
Alheem era molto felice ed ebbe un sonno riposante e ricco di sogni, come non ne aveva da tempo.
Il giorno dopo al ministero vide che la vecchia puzzolente veniva derisa e presa a calci da due giovani funzionari e si ricordò dei calci e delle bastonate che aveva ricevuto anche lui. Allora ordinò smettetela! e li fece frustare cinquanta volte per uno. Da quel giorno nessuno maltrattò più la vecchia.
La sera stessa, all’ora di cena, sentì nuovamente bussare alla sua porta. Era la vecchia che inginocchiata sbatteva la fronte contro il terreno dicendo ho fame. Alheen la portò in casa e la sfamò con tutto il cibo che aveva.
Lei sorrise soddisfatta e sazia e lui si innamorò del suo sorriso.
Così fu per molte sere e molte cene, finché Alheen disse io sono un uomo solo e vedovo e la mia casa ha bisogno di una donna. Io amo il tuo sorriso e soddisfarti mi rallegra e fa sentire un uomo migliore. La donna arrossì e rimase davvero sorpresa quando Alheen le chiese vuoi sposarmi?
Due settimane dopo erano marito e moglie e al matrimonio non era andato nessuno, dato che tutti ridevano della vecchia puzzolente e dicevano che Alheen era diventato matto.
Ma Alheen non se ne curò, perché era molto innamorato e non gli importava d’altro.
Passarono molti giorni e molte notti, quando una sera la vecchia disse non mi sento molto bene e si ammalò.
Alheen era in pena per la sua sposa e il suo animo soffriva.
Mentre piangeva e accendeva numerosi bastoncini di incenso agli dei, pregandoli di salvare sua moglie, successe qualcosa di straordinario.
La vecchia gli disse avvicinati al letto e accarezzò la sua faccia e la sua barba. Alheen piangeva e la donna, veramente colpita per quanta devozione il marito avesse per lei, sorrise. Subito, il suo corpo divenne luce blu e poi azzurra, fino a diventare una palla di luce bianca.
L’uomo non capiva, ma invece di spaventarsi rimase immobile, pronto ad affrontare ciò che sarebbe accaduto.
Ora che ti sei salvato disse la palla di luce bianca riavrai indietro tua moglie.
La luce esplose e tornò a essere corpo e carne.
Alheen ci mise un po’ a riaprire gli occhi accecati dalle scintille bianche e quando riuscì trovò davanti a sé, seduta sul letto, Rael lo spirito della palude.
La giovane ragazza disse hai fatto ciò che volevo quando ero una palla di luce bianca nella palude e mi hai dimostrato rispetto e fedeltà quando ero una vecchia puzzolente. Ora io sono tua moglie perché da molto tempo siamo sposati e la volontà degli dei si realizzerà.
Alheen, grazie a una serie di eventi straordinari, divenne imperatore e con la sua saggezza evitò molte guerre e salvò molte vite. Sotto di lui, il regno fu prospero e la vita serena. Dall’unione con Rael ebbe tredici figli e morì a centotrentasette anni insieme alla propria moglie. Il suo spirito salì in Paradiso e divenne Imperatore del Regno dei Cieli con la sua fedele Rael come regina.

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La capra e l’alluvione (ft. Valerio Codispoti)

  • Allora, Buteo… ˗ Disse il Tenente Marcolin. Si tenne con una mano alla scrivania e iniziò a far dondolare la sedia. ˗ …È tutto?

Il Maresciallo Staglianò riassestò il peso scostando il dorso dallo schienale e annuì. Incrociò velocemente lo sguardo del superiore. Poi fissò il calendario dell’Arma inchiodato al muro, davanti a sé: ˗ È tutto. ˗ Confermò.

  • Tutto, tutto? Sei sicuro, buteo?

  • Tutto, Tenè! ˗ Esclamò Staglianò, la lingua tra i denti e un filo di saliva a bagnargli le labbra.

  • E va bene, calmati. Va bene… ˗ Minimizzò Marcolin. Con il mento indicò la scrivania al fondo della stanza e diede ordine all’Appuntato di procedere: ˗ Avanti Rosolino, rileggi. Ad alta voce, dall’inizio.

Rosolino cliccò due volte il mouse e avvicinò la testa al monitor. Schiarì la voce con un colpo di tosse e cominciò in un italiano stravagante, fatto d’accento siciliano e cantilena settentrionale.

Nel corrente anno, in data ICS, durante l’ultimo (e tra parentesi piovosissimo) giorno di servizio presso caserma di prossimità in IPSILON, frazione di ZETA, io sottoscritto – Maresciallo Staglianò Vito -, in attesa di riassegnazione presso codesta sede(tra parentesi la scrivente), asservita al capoluogo DOPPIAVVU, mi trovavo nel pieno adempimento del mio solitario dovere, ovvero: aspettavo l’arrivo dell’ufficiale incaricato all’avvicendamento…

QUANDO…

Sentivo bussare al portone.

  • Un momento. ˗ Interruppe la lettura Staglianò. ˗ “Piovosissimo” rende poco l’idea del clima che c’era quel giorno. Altro che pioggia: tempesta, direi. Burrasca perfino, dal cielo l’iradiddio è venuta giù!

  • E va bene. ˗ Confermò Marcolin. Poi, rivolgendosi all’Appuntato: ˗ Rosolin, correggi con “…durante l’ultimo (e tra parentesi tempestosissimo) giorno…”. Anzi, no! Meglio: “l’ultimo (e tra parentesi burrascosissimo) giorno di servizio…” e vai avanti.

Pertanto, continuando a udire persistiti colpi al portone, rallegrato all’idea di effettuale arrivo del tanto agognato sostituto, mi recavo ad aprire il predetto dovendo altresì constatare che dinnanzi a me non si parava l’auspicato ufficiale, quanto il cittadino Andracchio S., di Notargiacomo M. A., (tra parentesi già vedova del fu Andracchio P.).

Professione del vivente Andracchio: impiegato pastorizio. Età: variabile, anni presumibilmente compresi tra 40 e 65. Causa di tale approssimazione: sole.

  • Ma non s’era detto che pioveva? ˗ Intervenne con scrupolosità e annesso vanto l’appuntato. ˗ E mo che c’azzecca ‘sto sole?

  • Quell’Andracchio lì fa il pastore, Rosolin. ˗ Spiegò il Tenente, compiaciuto del ragionamento che stava facendo. ˗ L’età è variabile perché il sole, col mestiere che fa, negli anni, gli ha arrostito la faccia, il collo, le mani, tutto. Vai avanti: leggi oltre, per favore.

  • Dunque… ˗ Riprese l’appuntato.

A puntuale interrogazione del sottoscritto Maresciallo Staglianò Vito (tra parentesi testuale: che ci fate voi qui?), segue immediata risposta dell’Andracchio.

Piove.

E quindi?

Dilluvia.

E allora?

Un maciello.

Un macello?

Dalla montagna, per la fiumara, se n’è venuta giù la pineta. Pini, tavolini da pic nic e tiro al piattello annessi.

Addirittura?

Addirittura.

Ci sono vittime?

Macchè, qui se fa due gocce si chiudono tutti in casa, figurarsi co ‘sta tempesta.

Ah.

Un’allucione, vero e proprio.

Un che?

L’allucione.

Parlate chiaro, Andracchio!

Come si dice quando l’acqua si mangia tutto?

Alluvione?

Ecco, alluvione! Vedesse che ha fatto l’alluvione, Marescià! Il mare è venuto su, fino alla statale. S’è mangiato mezza strada.

E ci sono stati incidenti?

Zero. Tutti a casa stanno, pure le macchine, ve l’ho detto.

E allora, che c’è? Che siete venuto a fare qui?

M’è sparita una capra.

Una capra?

Teresa.

Teresa come?

Teresa, la capra.

Ah.

Eh.

Andracchio, io non ho capito. Insomma, che volete da me?

Voglio fare denuncia. Indagine, ricerche, avvisi, chil’havisto, e tutto quanto.

Ma io non posso mica uscire da qui. Da un momento all’altro aspetto il sostituto da OMEGA, Andracchio. Voi capite bene, non posso proprio assentarmi.

Forse non mi sono spiegato, Staglianò. Il mare pure la ferrovia s’è mangiato. I binari sembrano crosta di pecorino. E quello che non se l’è preso il mare, sospeso in aria sta, come il canestro di una ricotta.

Quindi il treno da OMEGA…

Ma quale treno e treno! Qui di treni, da ALFA e da OMEGA, oggi e chissà per quanti anni a venire, non ne vediamo più.

Ah.

E allora?

Allora… (tra parentesi puntini sospensivi a indicare esitazione)…Allora andiamo a cercare ‘sta capra.

Teresa.

Chi?

Teresa, la capra. La amo, Marescià.

  • Staglianò, ˗ Intervenne Marcolin. ˗ Detto tra noi, fuori verbale, da uomo a uomo. Ma la capra, Teresa intendo, com’era?

  • Ehhhh, Tenente mio… ˗ Sospirò il Maresciallo. Incrociò le braccia e inarcò il busto, la testa ciondolante oltre lo schienale. ˗ Una meraviglia, ma che dico: una bellezza, sette bellezze. Voi ce l’avete presente la Loren da giovane?

Marcolin annuì serrando le labbra; sul mento la pelle e la barba raggrinzirono in profonde pieghe.

  • Bella, bellissima. Mezza bianca, e mezza marrò. Un pelo lungo lungo, liscio, morbido. Seta, pareva. E poi due corna, che corna, Tenente mio! Toste, dure, dritte. Di marmo, sembravano fatte.

  • Quindi lei… tu Staglianò…con la Teresa… ˗ Avrebbe voluto chiedere Marcolin, ma stabilì di mantenere un contegno. Drizzò la schiena, tirò i polsini della camicia e piantò i pugni sul piano della scrivania. ˗ Va bene, Rosolino. ˗ Disse, ˗ Procediamo, vai avanti.

Così, a seguito di regolare denuncia, il sottoscritto procedeva a regolare indagini sul campo di cui – le indagini e non il campo – si fornisce precipuamente evidenza:

  1. UNO: sopralluogo preliminare in località PIANI DEI PECORAI, all’interno dell’attività pastorizia del già citato ANDRACCHIO S. con alacre verifica strutturale della costruzione lignea delimitante il domicilio della Dispersa (tra parentesi cosiddetto OVILE);

  1. DUE: accertata – attraverso carotaggio del terreno per mezzo di apposito tirabusciò – positivamente tale tenuta, l’indagine proseguiva raccogliendo testimonianza oculare. Il soggetto testimone, Arbusto di Gramigna selvatica (le cui generalità, tra parentesi, sono quivi secretate in rispetto alla normativa sulla privacy), dichiarava: “A ora di pranzo vidi Teresa uscire dal proprio domicilio per dirigersi spedita direzione sud, in località marina, in prossimità di secolare campo d’ulivi.”

Note di identikit a margine: a protezione dalla pioggia battente – ma che dico pioggia, tempesta, ma che dico tempesta, burrasca – al momento della scomparsa la suddetta indossava zoccoli con galosce e cerata impermeabile sulle corna. Colore della cerata: variabile dal carminio al fucsia. Marca: irriconoscibile causa pioggia, ma che dico pioggia;

  1. TRE: alla luce di tali indicazioni proseguiva pertanto l’indagine con ridiscesa(tra parentesi imperviosissima) del sottoscritto a valle. Non potendo valicare il fiume a causa degli innumerevoli detriti che lo stesso trasportava – dalla fonte fin l’ estuario – ostruendone ponti, valichi e stradine limitrofe, si ricorreva all’utilizzo d’un mezzo d’emergenza fornito dallo stesso Andracchio: una scrofa domestica, (è noto, tra parentesi, quanto i maiali abbiamo agio e sollazzo tra il fango) e finalmente si raggiungeva campo di ulivi in località MARINA.

TRE BIS: Qui, a causa delle innumerevoli, reticenti e finanche contraddittorie testimonianze dei citati alberi secolari, il sottoscritto, come da sub regolamento investigativo dell’Arma, procedeva a un contraddittorio all’americana. Tale confronto forniva incontrovertibile riconoscimento che ultimo avvistamento della capra era stato rinvenuto a margine del campo, lungo la strada statale 106quatris, in prossimità del mare;

  1. ivi recaticisi, il sottoscritto e la scrofa domestica senza parentesi, lungo lingua d’asfalto prospiciente recentissima frana,

SI CONVENIVA

inequivocabile traccia visivo/olfatto/gustativa di sangue e latte caprino. Il Catrame (tra parentesi nome e cognome secretati a causa di provvedimento restrittivo già in atto sull’indagato in questione) interpellato circa tali evidenze accusatorie, si limitava a rispondere, in lacrime (o forse, tra parentesi, vista la tempesta non erano lacrime ma soltanto pioggia, ma che dico tempesta, burrasca): “È colpa dell’acqua, se l’è portata via lei.”;

QUATTRO BIS: incalzato circa le citate presenze di sangue e latte il catrame fatalmente e definitivamente illustrava: “Il latte è perché quando è arrivata l’onda la povera Teresa s’è spaventata, se l’è fatta sotto dalla paura. Il sangue… bhè, il sangue Iddio solo lo sa. In ogni caso,” aggiungeva il Catrame, “ma questo rimanga tra noi, Maresciallo, per me è tutta colpa del mare. Io non le ho detto niente, Marescià, ma con le opportune verifiche si renderà anche lei conto che è l’unica spiegazione plausibile…”

  • Fine. ˗ Disse Rosolino. ˗ Data ICSIPSILONZETA , luogo DOPPIAVU. E poi mancano solo le vostre firme.

  • Scusa Staglianò, ma a quel punto tu perché non sei andato a chiedere al Mare? ˗ Incalzò Marcolin.

  • Ci ho provato Tenente, ci ho provato. Mi creda che ci ho provato. Lei può immaginare la difficoltà, peraltro, di riuscire ad ottenere un colloquio. Sa quante volte ho dovuto fare avanti e indietro dalla battigia? Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.

  • Insomma Staglianò…ma tu…con la Teresa… ˗ Congetturò ancora nella propria testa Marcolin. ˗ Tu e la Teresa, diciamo, eravate amici? ˗ Stava per chiedergli, ma il Maresciallo riprese a parlare interrompendo il filo di quel ragionamento.

  • E poi mi era arrivata la voce che era meglio lasciar perdere. Che il Mare è una cosa troppo grossa per un Maresciallo. E a forza di fare avanti e indietro avrei finito per bagnarmi i calzoni. Lei capisce cosa intendo, vero, Tenente?

  • Capisco, capisco. ˗ Lo confortò Marcolin. Poi, dopo una breve pausa, finalmente: ˗ Staglianò, posso farti una domanda personale? ˗ Chiese abbassando di un tono la voce.

  • Prego.

  • Ma tu l’avevi mai vista prima la Teresa?

  • No.

  • E scusa, ma allora come…?

  • Così. ˗ Disse candido Staglianò. Sganciò i bottoni dorati d’ordinanza e dalla tasca interna della giacca estrasse un articolo di giornale ripiegato in quattro. ˗ Così. ˗ Ripeté. Poi stese la carta sul piano della scrivania e la ruotò, immagini e testo in favore del Tenente Marcolin.

L’articolo, strappato da una rivista settimanale di gossip, ritraeva il pastore Andracchio in posa con la sua nuova compagna, un cinghiale. La quale teneva in braccio un neonato. Tra le righe dell’intervista risaltava, in grassetto, un virgolettato dell’Andracchio: “ Grazie a lei ho superato il dramma di Teresa.”

Poi, più in basso, in un angolo della pagina, incastonata in un tondo dai contorni sottili, la foto di Teresa, la capra. “Era bella,” recitava la didascalia dell’immagine, “come la Loren da giovane. Ma il Mare me l’ha portata via.”

Le onde mi cullano e non mi resta che immaginare di essere tra le tue braccia.

Intorno a me, l’acqua riflette il cielo notturno più bello che si possa sperare di vedere.

Quante volte abbiamo guardato le stelle, amore mio? Seduti sul prato, la schiena contro lo steccato di legno: io mi spaventavo per ogni ombra troppo lunga e tu subito afferravi le mie corna e mi accarezzavi dolcemente, fino a farmi addormentare.

Vorrei essere lì con te, adesso, ma so che non posso.

Nemmeno tu, per quanto coraggioso, puoi sfidare il Mare.

Il Mare è immenso – è davanti gli occhi a tutti, è nella carne di ognuno – il Mare è un bambino egoista: si prende ciò che vuole da noi, senza chiedere, e non ce lo restituisce mai.

È un sadico, il Mare: t’illude d’avere speranza, ti spinge verso riva, ma poi ti richiama subito a sé. Non ci lascia mai liberi davvero. Ho provato a ribellarmi, sai amore mio? Pensavo avesse un senso lottare, pensavo che in nome di noi due valesse la pena farlo. E invece: guardaci, adesso, guardami. Guardami da dove ti scrivo. Giù, a fondo, nel buio più buio.

Qui dove sono adesso, amore, non c’è alto e basso, né destra né sinistra. Non ci sono curve, non ci sono rettilinei. Solo acqua. Acqua e altra acqua ancora. Nera nera.

L’idea di morire in questo modo mi ammazza più della morte stessa. Se potessi esprimere un desiderio, amore mio, uno soltanto, vorrei chiedere di scappare e tornare ai tuoi occhi scuri.

Ma desideri, qui, non ce ne sono più. Ne ho avuto uno quand’ero viva: amare, amarti. Vedi dove mi ha portato? Dove ci ha portati? Ora, l’unica cosa che mi è concessa, è dirti che ho sbagliato. E se è vero come è vero che sono qui sperduta nel nero, ti chiedo scusa, amore mio. Ti chiedo scusa per il dolore che ti procurato. Ti chiedo scusa di averci provato, di essere andata io al Mare. Solo adesso mi rendo conto che non avere scelta equivale ad avere una scelta precisa. Col Mare, ho scoperto, è così. Tutto, e allo stesso tempo niente. Come quello che è rimasto del nostro amore.

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Supportami

Ho voluto fare un esperimento, un azzardo.
Da oggi è disponibile su Amazon Racconti Raccolti“, un ebook che raccoglie sei miei racconti al prezzo simbolico di € 0.99.
I racconti, escluso uno, sono tutti editi qui sul mio blog e quindi fruibili gratuitamente.

Allora perché farlo?
Perché in questi giorni ho letto ovunque commenti di persone che si aspettano che un prodotto artistico – chiamiamolo così – libro o disco che sia, venga distribuito gratuitamente perché “l’arte deve essere accessibile a tutti”. Sono pienamente d’accordo, ma solo nella misura in cui si parla di fissare un tetto massimo per un prodotto.
La verità, però, è che un prodotto artistico – continuiamo a chiamarlo così – richiede ore e ore di lavoro. Ecco: quello che molti fanno difficoltà a capire è che questo è un lavoro.

Dietro ai miei racconti c’è la fatica dettata dalla speranza di consegnavi un prodotto al massimo delle mie capacità, un prodotto in cui metto tutto il mio impegno affinché possa essere qualitativo; e tutto questo mentre continuo la stesura del mio romanzo.

Insomma, la mia “arte” sarà sempre fruibile a tutti gratuitamente, ma se qualcuno volesse sposare la mia causa e supportare il mio lavoro, beh, potete farlo con meno di 1€.
Alla peggio, mi accontento anche di una recensione su Amazon e di una condivisione.

Grazie a tutti,
Andrea

 

Se siete interessati, potete trovarlo qui.

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Tutto il resto può aspettare

Prendere una curva agli ottanta non è il massimo, soprattutto su una strada non illuminata. Dirò che c’era un cinghiale e ho sterzato per evitarlo. Cappottarsi è inevitabile. Era successo anche a Massimo e nessuno ne aveva dubitato. Il problema sarà spiegare perché mi sono ribaltato su questa strada. Puttane. Dirò che volevo vedere le puttane. Quando sei triste, non c’è cosa migliore. Noi lo facevamo sempre, prima di tornare a casa. Abbiamo iniziato che ancora non eravamo maggiorenni. Tranne Massimo, lui è più grande di un paio d’anni e la macchina era sua. Finito l’ultimo grammo d’erba e buttata giù l’ultima goccia di tamango, riempivamo quella maledetta Panda, partivamo da Piazza Vittorio e andavamo a vederle. Ogni tanto ci parlavamo pure. Una volta io, un’altra Davide, poi Fabrizio. Massimo mai, che doveva essere pronto a partire se passava la polizia. Immagino che per le puttane fosse noioso perdere del tempo con noi. Un giorno, però, la ragazza di Fabrizio l’ha scoperto e gli ha detto di smetterla. Ci abbiamo riso sopra. Poi è successa la stessa cosa a Davide e alla fine mi sembrava di essere in una canzone, solo che al posto del bar noi avevamo la macchina. Non conoscevo ancora Cristina. Quando ci siamo messi insieme, ho smesso anche io.

Non mi dà neanche il tempo di entrare in casa. Mi prende la testa tra le mani, mi bacia, sussurra qualcosa. Dice che ha sbagliato tutto, che adesso ha capito. Ride, sorride, piange. Mi guardo attorno, mentre mi trascina in camera sua. Non entro in questa casa da un paio d’anni. È uguale a quando l’ho lasciata. La casa, intendo. Lei, invece, è diversa. Non è più una ragazza. È come se si fosse liberata dell’età con una scrollata. Penso di amarla ancora.

Che poi secondo me anche una pianta si accorge di star morendo. Mi fa un po’ ridere pensare di essere estirpato da questo mondo. Fa molto filosofo, o scrittore. Io ci ho provato a fare lo scrittore, ma non avevo l’attitudine. O forse non è andata così. È che a un certo punto non me ne è più fregato niente. Da quando Cristina se n’è andata, non ho più avuto obiettivi. E’ tutto così vuoto, così grigio. A ogni modo, dicevo che non so se avrò il tempo di dire a qualcuno del cinghiale.

Resta accesa solo una piccola lampada. Lei è raggomitolata al mio fianco. Il letto è a una piazza e mi costringe a starle vicino abbastanza da sentirne il respiro caldo. Ha gli occhi grigi, o almeno è quello che sostiene. Ho smesso di dirle che secondo me sono verdi, di un verde bellissimo. Ho smesso di dirle tante cose. Una, però, provo a non reprimerla. Il tuo profumo mi fa sempre impazzire, dico. Lei sorride.

Facciamo finta che il cellulare sia ancora nella tasca destra dei miei pantaloni e che non si sia rotto: come lo prendo? Non sono mai stato molto atletico, ma sfido chiunque a stare a testa in giù – se non per vomitare, come facevamo noi – con le gambe piegate che fanno di tutto per caderti addosso, il braccio destro spezzato, il sangue che dalla fronte ti gocciola nei capelli e qualcosa che attraversa la spalla sinistra. Sfido chiunque nella mia situazione a prendere quel maledetto cellulare. Credo che la cintura di sicurezza mi abbia compresso al punto che lo stomaco mi si è piazzato tra i polmoni. Dovrò dire al meccanico che non è esploso l’airbag. L’assicurazione pagherà? Ma soprattutto, qualcuno passerà da queste parti? Tutto questo mi ricorda che volevo fare un’esperienza di rally. Solo che là ti fanno affiancare da un professionista. Io non capisco niente di motori, ma la velocità della macchina mi fa impazzire. Ogni tanto, quando torno a casa, sposto indietro il sedile e inclino lo schienale. Sostanzialmente resto sdraiato. Poi, quando so che la strada sarà libera, inizio a spingere come un dannato. È che mi sento libero.

Dimmi qualcosa che non so, chiede mentre le accarezzo i capelli. Sono morbidi, castani, mossi. Non so cosa dire. Non riesco a staccare gli occhi dalle sue labbra. Lei le fa vibrare, sottili, e insiste. La sua schiena è perfetta. Non come la mia, simile a una S. Ricordo che ero bravo con le parole, che in fondo era quello che volevo fare nella vita. Guardo per un istante il soffitto. Stringimi in un calice infuocato/fa di un ricordo l’odore che hai assaporato/io sono il do/la nota più bassa che tu hai trascurato. Sospira. Mi sei mancata, dico. Sai cosa? dice stringendosi a me. La guardo curioso. Non le stacco gli occhi dalle labbra. È strano, ma anche divertente. Se uno dei due morisse, per l’altro sarebbe una tragedia. Sorride. Già, dico. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.

Mi sentivo libero quando scrivevo. Mi divertiva giocare con le parole e con lo stile. In redazione dicevano: bravo Valerio, hai talento. Mi piaceva mandare i miei racconti, pensavo di aver trovato finalmente qualcosa di vero, di sincero. Ma nella scrittura, di vero e sincero c’è poco o niente. In fondo, com’è che diceva quello stronzo del direttore? Che è come essere artigiani, apprendisti, garzoni. Che a furia di lavorare si diventa migliori. Ma lo si deve fare tutti i giorni. Ho mollato perché non trovavo niente di spontaneo nel dirsi mi alzo e lavoro per otto ore. Mi sono detto: è l’unico modo, c’è poco da fare, ma allora non mi va. Facciano loro. Continuino con le loro stupide gare. Io mollo tutto. Non mi piacciono le catene. Invece il parapendio sì. Non l’ho mai fatto, ma voglio provare da anni. Mi immagino con le cuffie – non so nemmeno se sia possibile – e Neffa che mi dice è il ritorno del guaglione sulla traccia. Cristo, quanto mi manca Neffa. Comunque poi mi butto giù, guardo la Morte in faccia e le dico buh.

Vado via da Torino, dico. Lei mi guarda. Pensa che non sia vero. Non sto scherzando. Si mette cavalcioni su di me, le mani sul mio petto. I capelli le cadono fermi nel vuoto. Anche i seni, con le punte all’insù. Penso che restare non sarebbe neanche male. Si china a baciarmi. Tanto ci vedremmo solo quando hai voglia di ricordarti cosa vuol dire essere amata, come in questi due anni dico. Lo so, dice. Non finirà mai, ma non ho voglia di pensarci. Per una volta voglio credere che esista solo il qui e ora. Che se sto bene adesso, non per forza starò male domani. Perché? chiedo. La nostra vita è questa. Strana, ma è questa.

Fuori dalla macchina c’è Cristina. Sono sicuro di averla vista, chinata a sbirciare dal finestrino. Ha cercato il mio sguardo e l’ha trovato. Un po’ come quando ci siamo conosciuti. Ero appena andato a vivere da solo, per scrivere senza distrazioni. C’era un locale sotto casa e la sera stavo sempre là, seduto al bancone, da solo. Bevevo vino e leggevo. Una sera, un gruppo di ragazze entra. Il proprietario le indirizza verso un tavolo nell’altra sala. Riuscivo a vedere solo un posto, quello dove era seduta lei. L’ho guardata per tutta la sera, finché non se ne sono andate. Ma il giorno dopo è tornata, da sola. E ora è qua, fuori dalla macchina, che poi è ancora sua. Ricordo ancora quando l’abbiamo comprata. Avevo ventiquattro anni e convivevamo da uno. Abbiamo preso una Seicento usata, molto usata. L’ha comprata lei, ma ha voluto cointestarla. Mi ha lasciato tre anni dopo. Ha detto che potevo tenermi la macchina, che lei aveva i soldi per comprarne un’altra. E io l’ho tenuta, l’unica cosa che mi ricordasse di lei ogni giorno, che ancora ne respiravo il profumo.

La portiera si apre e Cristina entra dal lato del passeggero. Guarda il parabrezza sfondato, poi me. Provo a sorridere. Non credo di esserci riuscito. È strana. Il suo colorito tende al grigio, come gli occhi. Ora che li guardo, penso che abbia ragione lei. Non so come, ma è riuscita a sedersi. Al contrario. Come me. Le chiedo come ha fatto. Lei mi guarda senza rispondere. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Io chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.

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#PrayForParis

Credo che una delle cose più intelligenti e che non vadano a perdersi nel fiume dei luoghi comuni l’abbia scritta Sgarbi:

“Il Dio della morte non è Dio.
Dio è grande e misericordioso, e dà la vita.
Il Dio che uccide è il demonio. È il male: non può vincere.”

In un mondo che va sempre più verso la negazione di Dio e di ciò che vi può essere di spirituale, è facile che lo stesso termine “Dio” muti di significato, di quel senso di amore e misericordia che da sempre lo arricchisce, per arrivare a essere una questione tra uomini, una bandiera all’insegna della quale si vuol far credere di combattere.
Non è difficile comprendere che nessuno stia uccidendo all’insegna di un qualche Dio, che “uccidere un innocente è come uccidere l’intera umanità” e che siano tutte questioni politiche più grosse di noi civili che, al più, siamo vittime sacrificabili.
Così quello stesso Dio che dovrebbe governare il Creato tutto, quella stessa entità cui le diverse religioni attribuiscono un nome differente, smette di essere portatore di amore e bellezza e si impoverisce in un messaggio di morte, mero oggetto di una contesa tra ignoranza e inciviltà.
Come ha scritto Sgarbi, Dio non può incarnare il male, o non esisterebbe il demonio.
E allora che fine ha fatto il bene, nell’umanità? Il nostro mondo ruota davvero grazie a motori di odio e malvagità?
Eppur non possono bastare questi episodi, mediocri manifestazioni di ciò che la crudeltà umana può fare, a scacciare dalla mia mente la quantità di bellezza che ogni giorno mi circonda.
Prima ancora di identificarci con Parigi, prima ancora di scendere nelle piazze a ripetere parole altrui, nella solitudine della nostra individualità dovremmo chiederci che fine abbia fatto la bellezza nel nostro mondo; o quella voglia di meravigliarsi del diverso, diverso che ormai siamo tanto rapidi a odiare dopo tragedie del genere.
Non chiediamoci dove sia DIo, domandiamoci perché non riusciamo più a vedere e comprendere ciò che rappresenta.

Manifesto la mia vicinanza a Parigi, a chi muore per non aver fatto nulla, continuando a fare ciò che, facendomi sentire vivo, contrasta la morte: scrivere.
Il mio inno alla vita è cercare di vivere ogni giorno che mi è concesso al massimo delle mie possibilità e non come un cadavere che si trascina verso la fine.

Lascio con due brani di American Beauty, sicuramente più importanti delle mie parole e che non mi stuferò mai di ricordare:

“…ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita.”

“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c’è elettricità nell’aria. Puoi quasi sentirla… mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c’era tutta un’intera vita, dietro a ogni cosa. E un’incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c’era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla… Il mio cuore sta per franare.”

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