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Consigli natalizi

Visto che due anni fa – devo dire inaspettatamente – mi hanno scritto in molti per ringraziarmi dei consigli che vi ho dato sui libri da regalare (o, perché no, regalarvi) per Natale, ho deciso di riproporvi una lista anche quest’anno. 

Robert Louis Stevenson, Il Master di Ballantrae (ed. Garzanti «Grandi Libri», 2000)
Questo romanzo mi ha tenuto compagnia durante il lockdown: l’ho divorato. Di Stevenson avevo già letto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e L’isola del tesoro, ma qui stiamo parlando di tutt’altro. Il Master emana un’aurea imponente sin dalla prima pagina, dandoci l’impressione di un’imminente e inevitabile sventura che si abbatterà non solo sui protagonisti, ma anche sulle nostre anime che, dopo essere state spettatrici del conflitto tra i due rampolli della famiglia Durrisdeer, non potranno più guardare il mondo alla stessa maniera. Non manca il contesto storico, quella dell’insurrezione giacobita del 1745. 

Ballantrae spesso decideva la strada da seguire lanciando in aria una moneta, e una volta, poiché avevo protestato contro tale comportamento puerile, mi rispose con una strana osservazione che non dimenticherò mai. «Non conosco modo migliore», disse, «per esprimere tutto il mio disprezzo per la ragione umana».

John Steinbeck, Uomini e topi (ed. Bompiani «1929_2019», 2019)
In qualche modo tutti hanno sentito parlare di George Milton e Lennie Little, il cui sodalizio li porta ad attraversare, come braccianti stagionali, l’America con l’obiettivo di mettere da parte abbastanza soldi da poter realizzare il loro sogno, acquistare un pezzo di terra a Hill Country dove potersi isolare da un mondo spietato, dove potersi rifugiare, dove poter allevare qualche coniglio. George, cinico e disilluso; Lennie, un bambino confinato nel corpo di un gigante. Questo romanzo, scritto nel 1937, sembra dirci che il sogno americano non esiste, non è possibile, e che i progetti degli uomini sono futili e possono essere facilmente stravolti dal destino. 
Da segnalare l’uscita di un graphic novel edito sempre da Bompiani. 

George proseguì. “Per noi non è così, noi abbiamo un avvenire. Possiamo parlare con qualcuno al quale importa di noi. Non dobbiamo starcene seduti in un bar e buttar via i soldi solo perché non abbiano un altro posto dove andare. Se gli altri tizi vanno in galera possono marcire, per quello che importa alla gente. Noi invece è diverso.”

Marcello Fois, I Chironi (ed. Einaudi Super ET, 2017)
Una delle saghe famigliari italiane più belle. Questo libro raccoglie i tre romanzi che hanno per protagonisti i Chironi: Stirpe, Nel tempo di mezzo, Luce perfetta. A fare da sfondo, la Sardegna (terra natale dell’autore). Questi romanzi hanno qualcosa di epico – soprattutto Stirpe – e la voce autorevole di Fois sembra quella di un cantore vissuto secoli fa. Che la narrazione riguardi i primi anni del ‘900, o gli ultimi, l’impressione che si ha è che l’autore ci prenda per mano per essere la nostra guida e farci comprendere un secolo di storia italiana da un punto di vista diverso, più decentrato. 

Luigi Ippolito si è messo disteso sul letto rifatto. È vestito di tutto punto, i bottoni della tonaca brillanti, le scarpe lucidate a specchio. Come sempre è stato e sempre sarà, si chiama per cognome e nome Chironi Luigi Ippolito e, senza muoversi, si mette in piedi per guardarsi composto, morto, pronto da piangere. L’Uno sta lì, preciso a se stesso, l’Altro lo fissa, inquieto, pietrificato, ma turbolento, dritto e secco come un insulto detto in faccia, tra il letto e la finestra. Che la fissità dell’Uno è parvenza e la fissità dell’Altro è controllo.

Andrew Sean Greer, Less (ed. La nave di Teseo, Oceani, 2017)
Arthur Less è uno dei protagonisti più simpatici che possiate trovare. Un dinoccolato scrittore americano omosessuale prossimo ai cinquant’anni e convinto di essere un fallito, sia come autore che come uomo. In questo romanzo Arthur scappa da una cocente delusione amorosa, ritrovandosi in Giappone, Italia, Germania, Marocco, ecc. e in ogni sua tappa non si potrà che empatizzare con lui, imparando sempre più a conoscerlo e, poco ma sicuro, a conoscere anche noi stessi. Il tutto, però, ridendo.

Ed eccolo lì in piedi dentro la sua stanza di carta, il nostro baldo protagonista. Immobile, i pugni stretti. Chi lo sa che cosa si agita in quella sua testa balorda? Gli uccelli, il vento, la fontana sembrano riecheggiare come se giungessero dal fondo di un lunghissimo tunnel. Volta le spalle al giardino, che si anima fluido dietro il vetro antico, verso la parete di carta. La porta, suppone, è questa. Non per entrare nel giardino, ma per uscire. Sono solo bacchette di legno e carte. Qualunque altro uomo li abbatterebbe con un soffio. Ma da quanto tempo esiste? Ha mai visto un fiocco di neve?

Thomas Girst, Tutto il tempo del mondo (ed. add editore, 2020)
Un orologio alto 150 metri. Un vinile che viaggia nello spazio. Un brano riprodotto per 600 anni. E ancora: criogenia, Duchamp, gocce di pece, Proust, giardini zen, Egizi ed enciclopedie, artisti e scienziati. A legarli, il tempo. Questo è quello che Thomas Girst ci racconta nei 28 capitoli di questo libro, avventurandosi come un flaneur nei veli della Storia e mostrandoci come il tempo e l’eternità siano da sempre la vera ossessione dell’uomo. E mentre Jeff Bezos si preoccupa di innalzare un orologio che possa scandire il tempo per 10.000 anni, non possiamo che sorridere amaramente pensando a programmi politici che non vanno oltre le prossime elezioni. In un’epoca votata al tutto e subito, facciamo difficoltà a credere che un postino abbia passato 33 anni a raccogliere ciottoli e conchiglie per costruire il suo Palais Idéal. Eppure, quello che Girst vuole insegnarci è proprio questo: ritrovare il piacere dell’attesa, dell’essere pazienti. Lo fa anche con la sua scrittura, in un libro che è una vera e propria celebrazione della lentezza. Così, leggendo di grandi artisti che hanno dedicato le loro intere vite per completare un’unica opera, scopriamo che è ancora possibile isolare questo mondo frenetico e imparare a prendersi il proprio tempo.

Oltre a cadere nell’oblio, a una grande mente non può forse capitare nulla di peggio che continuare a vivere per la posteriorità soltanto in virtù di un’aneddoto: Newton e la mela, Martin Lutero e il calamaio, Socrate e la coppa di cicuta, Diogene e la botte, Colombo e l’uovo, van Gogh e l’orecchio. Da questo punto di vista, il più colpito è stato Marcel Proust.

William Shakespeare, Macbeth (ed. Mondadori, Oscar baobab classici, 2018)
Macbeth è una delle mie tragedie preferite. È superfluo parlarne. Questa è un’edizione illustrata e i disegni sono di Ferenc Pinter. Ve ne innamorerete. Il testo è solo in italiano, quindi se cercate l’originale a fronte dovete rivolgervi ad altre edizioni. Questa, però, è un gioiello. Copertina rigida, grande formato, illustrazioni ben definite: il modo migliore per godersi la lettura di questo capolavoro.

Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel (ed. SUR, 2017)
Scrittore argentino, Adolfo Bioy Casares sceglie come protagonista del suo romanzo più celebre un ergastolano che, in fuga, approda su un’isola deserta. In apparenza, però. La verità è che l’isola è abitata da persone misteriose, che il protagonista cerca di evitare in ogni modo per la paura di essere riconosciuto. La solitudine, però, e la voglia di conoscerle gli faranno scoprire che la realtà non è come sembra. Un romanzo breve, eppure intenso, con forti richiami all’Isola del dottor Moreau di H.G. Wells. 

Da quel momento fino a oggi pomeriggio, la vergogna mi ha tormentato, e con questa il desiderio di inginocchiarmi davanti a Faustine. Non ho potuto aspettare fino al tramonto. Sono andato alla collina, deciso a rovinarmi, e con il presentimento che, nel migliore dei casi, mi sarei abbandonato a suppliche da melodramma. Mi sbagliavo. Sta succedendo qualcosa di inspiegabile. La collina è disabitata.

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Quello che vi consiglio (per Natale)

Ultimamente riesco a trovare pace dallo stress solo nella lettura. Nonostante passi le giornate a studiare, nonostante un occhio un po’ troppo facile all’affaticamento, ho bisogno di leggere. Inutile dare scuse: se si vuole passare un po’ di tempo con un libro, questo tempo si trova. Io, ad esempio, leggo al mattino, facendo colazione; leggo sul pullman, andando all’università; leggo di pomeriggio, prendendo il caffè o sorseggiando un tè, e leggo la sera, prima di dormire. Il tempo, appunto, si può ricavare: basta sottrarlo allo scrolling inconsapevole su Facebook e Instagram. Se non riuscite, semplicemente leggere non è la vostra esigenza. Nel caso lo fosse – o conosceste qualcuno come me – quest’anno voglio consigliarvi qualche titolo che sarebbe perfetto come vostro – o come suo – regalo di Natale. Ho scelto cinque titoli, ma non ne ho scritto le recensioni che, se volete, trovate in gran quantità su internet. Giusto qualche riga e una citazione, nella speranza di incuriosirvi.

 

BORIS VIAN – LA SCHIUMA DEI GIORNI (Marcos y Marcos)
Se mi chiedeste quale emozione abbia provato leggendo questo romanzo, non potrei che rispondere tenerezza. E se mi chiedeste di cosa parli questo romanzo, non potrei che rispondere amore. Non perché trasudi sentimentalismo, o perché sia patetico: questo, Boris Vian non se lo sarebbe mai permesso. Il punto è che dietro tutte le stravaganze – geniali stravaganze – di Vian, si nasconde la pura essenza dell’amore. So che è poco, ma non voglio dire altro. Questo romanzo va scoperto – come ho avuto la fortuna di scoprirlo io – leggendolo. Non ci si può immergere nel genio di Vian vittime di pregiudizio. Voglio, quindi, che sia l’autore stesso a presentare quello che è uno dei miei romanzi preferiti, riportando qui la sua premessa.

L’essenziale, nella vita, è dare giudizi a priori su tutto. In effetti, sembra che le masse stiano sempre dalla parte del torto, e che gli individui abbiano sempre ragione. Bisogna tuttavia stare attenti a non dedurre nessuna regola di condotta da questa constatazione: certe regole non hanno bisogno di esser formulate per essere seguite. Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse, perché il resto è brutto, e la dimostrazione contenuta nelle poche pagine seguenti deriva tutta la sua forza da un unico fatto: la storia è interamente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi. La sua realizzazione materiale in senso stretto consiste essenzialmente in una proiezione della realtà, in un’atmosfera obliqua e surriscaldata, su un piano di riferimento irregolarmente ondulato e un poco distorto. Come si vede, è una tecnica confessabile, ammesso che ce ne siano.

 

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STIG DAGERMAN – IL NOSTRO BISOGNO DI CONSOLAZIONE (IPERBOREA)
Per chi non lo conoscesse, va premesso che Stig Dagerman è un autore difficile. Questo non perché a essere complessa sia la sua prosa – attuale, nonostante la sua produzione risalga alla prima metà del ‘900 – quanto perché a essere impegnativo è il suo pensiero. Per fortuna, verrebbe da dire. Dagerman, però, va affrontato con consapevolezza. Morto suicida nel 1954 a soli 31 anni, è riuscito a caricare la sua prosa di un impeto che può sembrare inarrestabile e spazzarti via. Una burrasca notturna da affrontare solo se ci si ritiene abbastanza forti da accettare di piegarsi come arbusti, fin quasi a farsi sradicare, per poi avere l’ostinatezza di tornare in piedi e guardare al nuovo giorno con la serenità di chi sa di avere imparato qualcosa di sé.
Il nostro bisogno di consolazione è un monologo del 1952 che Dagerman pubblicò su un periodico. Parliamo di una manciata di pagine, però fondamentali per chiunque combatta ogni giorno con se stesso, per migliorarsi, ma anche solo per capirsi. Fondamentali per chiunque, quotidianamente, si interroghi sul senso della propria vita.
Fondamentali per chiunque non abbia paura di confrontarsi con la parte più oscura del proprio animo.

Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso  – il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente. 

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LAURENT BINET – HHhH (EINAUDI)
Quello che vi propongo, è un romanzo storico ambientato durante la seconda guerra mondiale. A differenza dei numerosi romanzi anonimi e patetici sul tragico conflitto che ha colpito l’Europa meno di ottant’anni fa (è sempre bene ricordarlo), HHhH ci porta in Repubblica Ceca e ripercorre fedelmente i fatti che hanno portato nel 1943 alla morte del gerarca nazista Reinhard Heydrich per mano dei partigiani cecoslovacchi.
Ricordo che, appena terminata la lettura, fui pervaso dalla voglia di tornare a Praga e cercare i luoghi che videro aggirarsi gli eroi dimenticati di cui Binet si fa cantore, gli eroi silenziosi e ai più sconosciuti, che hanno contribuito ad arrestare il mostruoso ingranaggio nazista.

Ciò che ogni famiglia teme in quegli anni di ferro e di orrore accade una mattina a casa Moravec. Suonano alla porta, ed è la Gestapo. I tedeschi sbattono al muro la madre, il padre e il figlio, poi devastano freneticamente l’appartamento. << Dove sono i paracadutisti?>> abbaia il commissario tedesco, e l’interprete che li accompagna traduce. Il padre risponde a bassa voce di non conoscere nessuno. Il commissario torna a controllare nelle camere da letto. La signora Moravec chiede di poter andare in bagno. Un agente della Gestapo la schiaffeggia. Ma subito dopo viene chiamato dal suo capo e sparisce. Lei insiste con l’interprete, che la autorizza. Sa di avere solo pochi secondi. Così va a rinchiudersi in fretta nel bagno. Tira fuori la sua capsula di cianuro, e la morde senza esitare. Muore all’istante.

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MEYER LEVIN – COMPULSION (ADELPHI)
Ho finito da poco questo romanzo. Era impossibile staccarsene e le sue 580 pagine sono un ostacolo solo per gli sciocchi. Per tutti gli altri, infatti, sono una benedizione. E’ un romanzo-verità che anticipa di dieci anni il ben più celebre A sangue freddo di Truman Capote e ci racconta quello che è conosciuto come “il processo del secolo”, ovvero il processo Leopold-Loeb. Levin visse in prima persona la vicenda, seguendo il caso come reporter del Chicago Daily News, e la riporta con accurata fedeltà. A una prima parte più romanzata che mostra come i due criminali siano arrivati a compiere l’efferato omicidio, segue una seconda parte che racconta integralmente il processo, estremamente importante perché vide la difesa appellarsi ai cosiddetti alienisti per salvare i due imputati dalla pena capitale. Questo è uno degli aspetti più interessanti del romanzo, il vedere come, ricorrendo a un’ancora acerba e incerta psicologia, si sia provato a spiegare cosa avesse spinto due giovani prodigi, rampolli di due delle famiglie più ricche e prestigiose di Chicago, a sequestrare e uccidere a sangue freddo e senza movente un ragazzino.
Consiglio fortemente l’acquisto anche se non amanti del genere.

Il delitto era diventata la nostra ossessione. Lavoravo con Tom, sempre di corsa, sempre dietro alla polizia, accanto o davanti alla polizia, da un barlume di notizia all’altro, studiando e al contempo evitando gli altri giornalisti, e facendo congetture, immaginando, ascoltando, sempre più consapevole del fatto che in città stava diffondendosi un terrore mai sperimentato. La paura che il bambino ha dei lupi a caccia nella foresta, lupi che finiranno per divorarlo, anche se il bambino abita in una città in cui non esistono foreste, anche se gli è stato spiegato che nei dintorni non ci sono lupi – questa paura infantile sembrava essersi insediata nell’animo di tutti, a Chicago, e i lupi erano la minaccia primordiale, un animale ignoto, più feroce di qualsiasi altro animale mai incontrato dall’uomo. Si registrava un’ansia crescente, il presagio sempre più diffuso che ci fosse in città qualcosa di nuovo, di terribile e incontrollabile, una specie di nuovo germe omicida. 

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ALBERT CAMUS – LA PESTE (BOMPIANI)
Avrei potuto mettere Lo straniero, ma questo romanzo mi ha stregato al punto da farmi credere che ogni frase sia lì perché qualche forza astratta ha deciso che debba stare lì e che Camus non stesse facendo altro che trascrivere una qualche parola divina dettagli affinché spiegasse all’uomo il senso della vita. Non riesco a spiegarmi come la sensibilità di un autore possa essere tale da parlare all’umanità tutta di cosa significhi essere uomini. Perché è questo che fa Camus e lo fa con una maestria rara, perduta. La sua scrittura è limpida, priva di barocchismi che possano ostacolare la comprensione. Ogni significato ha il suo significante, senza errore.
Consiglio questo romanzo a chiunque sia disposto a leggere con calma e riflettere, senza la smania di arrivare all’ultima pagina e passare al prossimo libro. Camus va assimilato. Pagina per pagina, frase per frase, parola per parola.
Se riuscite, procuratevi l’ultima edizione Bompiani, perché la traduzione (di Yasmina Mélaouah) è molto fedele.

Venendo infine più espressamente agli amanti, che sono i più interessanti e di cui forse il narratore più parlare con cognizione di causa, costoro erano tormentati da ulteriori motivi di angoscia, fra cui occorre menzionare il rimorso. La situazione, infatti, permetteva loro di considerare i propri sentimenti con una specie di febbrile obiettività. E in quei casi era raro che non emergessero nitidamente le loro mancanze. La prima occasione era offerta dalla difficoltà che avevano a immaginare con esattezza la vita quotidiana dell’assente. Sa rammaricavano allora di essere del tutto ignari delle sue occupazioni; si accusavano della leggerezza con cui avevano tralasciato di informarsene e finto di credere che le occupazioni dell’amato non sono la fonte di ogni gioia per colui che ama. Da lì, era facile allora ripercorrere il loro amore ed esaminarne le pecche. In tempi normali sapevamo tutti, più o meno consapevolmente, che non c’e amore che non possa migliorarsi, e tuttavia accettavamo, in maniera più o meno pacifica, che il nostro restasse mediocri. Ma il ricordo è più esigente. E ne conseguiva che quella tragedia venuta dall’esterno, e che colpiva un’intera città, non ci recava soltanto una sofferenza ingiusta di cui avremmo potuto indignarci. Ci induceva anche a infliggerci personalmente un’ulteriore sofferenza e ci faceva così acconsentire al dolore. Era uno dei modi con cui la malattia distoglieva l’attenzione e confondeva le carte. 

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Mi chiamo Lucy Barton (****)

Affronto la recensione di questo romanzo col più profondo rispetto nei confronti di un’autrice dalla prosa magistrale, dotata di una tecnica narrativa capace di far impallidire gran parte degli autori contemporanei e Maestra indiscussa dei dialoghi. Eppure, per quanto dopo questa premessa possa sembrare che questo romanzo sia perfetto, devo osarmi nel dire che no, che questo romanzo non è perfetto, e che per me ha un terribile ed enorme difetto. Ma andiamo per gradi.

Elizabeth Strout – già premio Pulitzer nel 2009 – decide di prestare la propria voce e la propria penna a Lucy Barton, rendendola così protagonista, narratrice e autrice del romanzo Mi chiamo Lucy Barton. Questo espediente narrativo, questo far dimenticare al lettore che la storia sia frutto di fantasia, permette un’immedesimazione totale: è come se Lucy Barton si stesse confidando con noi, come se ci avesse fatti accomodare in salotto, davanti a una tazza di tè, e avesse iniziato a raccontarci la sua vita, a partire da quel giorno che, ricoverata in ospedale, ha visto comparire sua madre ai piedi del capezzale.
Perché è proprio così che inizia il romanzo: con il ricovero di Lucy – molti anni addietro – e la comparsa di sua madre, con cui non aveva più alcun rapporto da molti anni. La donna non entra in scena con sciocchi preamboli: è là. Semplicemente compare e tutto quello che vorresti fare è interrompere Lucy – sempre davanti alla tua tazza di tè – e chiederle se la madre fosse davvero là, o se fosse un fantasma, un sogno. Una scelta fantastica, questa evanescenza, da parte della Strout.
Eppure la madre c’è ed è una certezza, una delle poche informazioni che abbiamo all’inizio del libro. Non sappiamo nulla di Lucy, noi. E allora apprendiamo che Lucy rimarrà ricoverata per nove settimane in un ospedale di Manhattan, proprio di fronte al grattacielo Chrysler, e che la madre resterà ai piedi del suo letto per soli cinque giorni. Cinque giorni sui quali viene distribuito gran parte del carico narrativo del romanzo. Sarà proprio questo breve arco di tempo a permetterci di approfondire il rapporto tra le due donne e di svelare lentamente il passato di Lucy.
La narrazione è però frammentaria. Alle scene in ospedale, alla delicatezza dei dialoghi tra madre e figlia, vanno ad alternarsi frammenti del passato di Lucy che lei stessa ci racconta, nel suo presente narrativo, in quegli anni di molto posteriori al suo ricovero in ospedale. Così la narrazione diventa una treccia, una spirale chiusa e inattaccabile: Lucy racconta dell’ospedale e ciò che avviene in ospedale ci racconta a sua volta frammenti della vita della nostra protagonista; ci fornisce personaggi e vicende che hanno caratterizzato un’infanzia dura e difficile. Quella stessa infanzia che ha spinto Lucy ad allontanarsi dalla propria famiglia e dalla propria madre, a renderla spietata. Sì: Lucy è spietata. È lei stessa a dircelo, sul finire del romanzo.
Così quello che per molti viene definito un rapporto d’amore tra una madre e una figlia che si riabbracciano dopo tanti anni, nonostante tutto, nel momento del bisogno, per me non fa altro che definire a trecentosessanta gradi Lucy Barton, una donna spietata. Non c’è amore in quell’ospedale. C’è una giovane donna che vuole la mamma e che allo stesso tempo le imputa la propria natura, la colpevolizza per un affetto che non ha mai ricevuto. A Lucy Barton non interessa ciò che dice sua madre, le importa solo di sentire quella voce, di poterla avere di sottofondo mentre sonnecchia. La stessa Lucy ci confida spesso di non ricordarsi di quello che è stato detto, che crede che le parole fossero quelle.
Mi sono chiesto se Lucy Barton sia egoista o semplicemente incapace di amare. Lei che, a differenza di suo fratello e di sua sorella, riesce a scrollarsi via un’infanzia carica di vergogna e a diventare qualcuno, una scrittrice, ma che sull’altare di questo successo sacrifica tutto, pur senza rendersene conto. Lei, che per prendersi ciò che la vita le deve di diritto, rinuncia alla famiglia, al marito, alle figlie. Tutto solo per poi dire ho sbagliato. Tuttora mi chiedo chi sia davvero Lucy Barton e ogni volta ho il timore di sbagliarmi, di non poterla conoscere davvero. Questo perché Elizabeth Strout ha creato un personaggio talmente tridimensionale da averlo reso umano. Pur seguendo la sua voce in prima persona, noi non riusciamo a capire nel più profondo cosa stia pensando. Proprio come se fosse vera, in carne e ossa. Non è un semplice personaggio romanzato. No: Lucy Barton si ribella alla sua vita e ai suoi lettori. Comanda lei.
I fatti sono quelli, inderogabili, scolpiti nel tempo passato. Sono delle certezze immutabili e definite dalla maestria della penna di Elizabeth Strout.
Eppure, quello che filtra dal malinconico racconto di Lucy Barton, è che non vi sia sentimento. Che è un controsenso di per sé. Come fa un romanzo a essere così umano e allo stesso tempo privo di sentimento? Però è quello che io ho recepito. Come se il laconico racconto di Lucy Barton su quella che è stata la sua vita, di come ormai le cose siano andate così, trasmettesse una rassegnazione difficile da digerire. I fatti vengono riportati, nulla più, con un distacco che ci fa sempre sentire un po’ messi da parte. Questo è l’unico aspetto che ho trovato fastidioso in questo romanzo, ma non riesco ancora a capire se sia un difetto oggettivo o soltanto insofferenza nei confronti di una donna, Lucy Barton, che ho iniziato a odiare ogni giorno di più.

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Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Editore: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo di copertina: 17,50 euro

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