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Brucia la strega (1/2)

In questo momento non riesco a non pensare a Don Antonio e alle sue omelie. Una in particolare. Citava un passo del vangelo, forse Luca 15:2, che diceva più o meno vivrà nel fuoco della Bestia/brucerà il peccatore che ha dimenticato/come colui che ha tradito Cristo/ogni debito verrà pagato. Quella notte ho sognato di essere una strega, che molti uomini venissero a prendermi nel sonno e mi portassero in un bosco per bruciarmi viva. Il mio peccato? Aver fatto l’amore a quindici anni.

***

Eravamo al supermercato.
Sono scoppiata a ridere per una battuta di mio marito e, con un movimento brusco, ho fatto cadere un pacco di pasta dal carrello. Un signore si è avvicinato per raccoglierlo e io gli ho sorriso per ringraziarlo. Rimasti soli, mi è tornato da ridere. Non a mio marito, però. Mi ha guardata per qualche istante, poi si è limitato a dire vergogna.
Arrivati a casa, avevo appena posato le buste della spesa, quando mi ha afferrata per il polso e mi ha dato uno schiaffo in faccia. Io non me lo aspettavo e sono caduta per terra. Il pavimento era freddo; la mia guancia bruciava. Vergogna ha ripetuto e si è sfilato la cintura dai pantaloni. Io ho provato a replicare, ma la prima cinghiata mi ha ricacciato la voce in gola.

***

Non avevo fatto l’amore a cuor leggero, la prima volta. Come tutte le ragazze mi sono chiesta se fosse la persona giusta e se io fossi pronta. Ma il mio corpo, ormai, era quello di una donna e di donna erano anche le mie voglie. Così ho deciso di lasciarmi andare, felice e orgogliosa della mia decisione.
L’entusiasmo, o forse il non credermi più una ragazzina, mi ha portato a vedere mia madre come un’amica con cui confidarmi. E così ho fatto.
La mia era una madre moderna. Non se ne stava nell’angolo della cucina, zitta a guardare cosa facesse mio padre. No, lei era al passo coi tempi e spesso lo sfidava per dimostrargli che fossero sullo stesso piano. Così, subito dopo la mai confidenza, che aveva più il tono di una confessione, mi ha picchiata proprio come se fosse mio padre. E mentre lo faceva, continuava a darmi della svergognata e a chiedermi perché le avessi voluto fare del male. Perché la gente avrebbe parlato e loro che razza di genitori sarebbero stati, agli occhi degli altri?
Il lavandino era pieno dei miei capelli castani, strappati da quelle stesse mani in cui cercavo delle carezze. Ho contato le ciocche e per ciascuna di esse ho letto la definizione della parola vergogna.
La ricordo ancora adesso: vergogna s. f. Sentimento di colpa o di umiliante mortificazione che si prova per un atto o un comportamento, propri o altrui, sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti.

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Io Massimo non l’ho mai giustificato.
Lui mi aveva picchiata e lo aveva fatto con crudeltà: la voce era fredda e pacata, la mano non aveva esitato. Non era stato un raptus. Eppure, ho creduto di doverlo aiutare. Aiutare, sì, perché da subito ho pensato che il suo fosse un problema. Ho sempre avuto la tendenza ad attribuire ogni azione, sbagliata o giusta che sia, a un fatto pregresso. Non so, magari qualcosa legato all’infanzia, su cui poi una persona costruisce un lato del proprio carattere. Ecco, quando mi ha picchiata, io Massimo lo conoscevo da otto anni e stavamo insieme da sette.
Ricordo quel ventiduenne gentile e sicuro di sé che mi fermava nei corridoi dell’università e che si faceva sempre avanti per offrirmi un caffè. Ricordo anche che più imparavo a conoscerlo, più quella sicurezza si mostrava fragilità. Massimo aveva paura che il suo ruolo di uomo venisse sovvertito. Per esempio aveva bisogno di pagare per me; oppure aveva bisogno che io non indossassi i tacchi, così da non essere più alta di lui. Aveva persino bisogno di diventare l’unica persona che riuscisse a farmi stare bene, perché credeva che solo così sarei rimasta con lui.

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Anche se avevo solo quindici anni, dovevo sposarmi. Era questo che pensavano i miei genitori. Devi sposarti dicevano. Secondo loro – secondo tutti – solo il matrimonio avrebbe potuto restituirmi l’onore che avevo buttato via stupidamente. Me lo ripetevano ogni giorno, da quando avevano iniziato a parlarmi di nuovo. Io, però, invece di convincermene, iniziai solo a sentire crescere qualcosa dentro di me che mi avrebbe accompagnato per anni. Ogni volta che ero attratta da un ragazzo, o che più semplicemente sentivo il bisogno di averne uno, mi sentivo a disagio. Forse anche sporca. Di sicuro meritevole di una punizione. Sì, temevo che Dio mi avrebbe punita per le mie pulsioni impure.
Quando decidevo di andare a letto con un ragazzo, provavo uno sprizzante senso del pericolo e dello sbagliato. Mi lasciavo trascinare dalla passione e dai miei desideri, ma ero sempre consapevole che una parte di me pensasse che fosse sbagliato e che avrei dovuto fermarmi finché fossi stata in tempo. Durante i rapporti, il piacere schiacciava questa pulsione, ma, per quanto fossi trasportata e coinvolta, più i miei sensi si avvicinavano al culmine, più sentivo crescere, martellante, il senso di colpa. I miei orgasmi erano un’esplosione di gioia e tristezza allo stesso tempo ed era solo quest’ultima a trascinarsi fino alla fine, a tenermi compagnia anche quando ero rimasta sola nel mio letto.

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Massimo non fu più lo stesso.
Forse è stato proprio il suo improvviso cambiamento a non farmi andare via, a convincermi che non potessi lasciarlo solo. Dopotutto negli anni avevo avuto anche io delle crisi e lui, rimanendo al mio fianco, mi aveva aiutata. Quando l’ho visto chiudersi sempre più in sé stesso e diventare solo uno spettatore del nostro rapporto, ho capito che aiutarlo fosse una mia responsabilità. Non ho mai sopportato chi distrugge una relazione solo perché sfaldare è più semplice che ricucire. E io ci ho provato: mi sono costretta ad arginare quella prima volta – che nella mia testa era anche l’ultima – nel cassetto delle esperienze sbagliate.
Una volta, a lezione, avevo sentito dire che persino un’esperienza negativa può essere un’opportunità. Ne ho fatto la mia filosofia di vita: trasformare una brutta situazione in un punto di partenza e non di arrivo. Io e Massimo avremmo potuto sfruttare l’occasione e, insieme, avremmo potuto cambiare e risolvere quelle debolezze della sua personalità che gli impedivano di vivere serenamente. E che la prima di queste sue fragilità si chiamasse vergogna, lo avevo ormai intuito.

***

E’ servito del tempo prima che riuscissi a trovarmi a mio agio con la mia sessualità. Ho dovuto fare un lungo lavoro su me stessa, a partire dalla rimozione di qualsiasi concetto cattolico che mi era stato inculcato durante l’infanzia. Forse è un po’ spietato affermare che il sesso e l’anima abbiano poco da spartire, ma la realtà ti costringe al cinismo. Mi sono ritrovata a usare gli uomini e a illuderli del contrario. Il modo migliore di sedurre è essere sedotti.
Per seguire l’università avevo dovuto trasferirmi. Dividevo un piccolo appartamento con una ragazza di Perugia. Spesso, quando uscivamo la sera, qualche ragazzo si faceva avanti per offrirmi da bere. Io accettavo. Non avevo remore nell’approfittare della stupidità maschile. Finivo il bicchiere, mostravo un bel sorriso e me ne tornavo a casa. Oppure decidevo di rimanere e di non tornarci da sola, a casa.
Avevo un’ottima media e agli occhi dei miei genitori era la dimostrazione che fossi diventata una brava ragazza. Come se non la fossi sempre stata… Poi è arrivato Massimo. Lui sì che speravo volesse offrirmi qualcosa. E infatti lo fece, più volte, ma io accettai solo la prima. Le altre, ognuno il suo. Con lui mi interessava avere un rapporto alla pari, anzi: con lui mi interessava avere un rapporto. Da allora, per anni, è stato l’unico uomo che ho frequentato.

***

Sapevo che Massimo sarebbe peggiorato.
Inizialmente sembrava non solo aver capito il suo errore, ma anche disposto ad affrontare i propri lati più torbidi. Io l’ho trattato amorevolmente, forse ancora più di prima, come se l’essere consapevole della sua debolezza mi spingesse a prendermi cura di lui. E’ stata la contraddizione maggiore con cui abbia dovuto convivere, perché io, quello schiaffo e quelle cinghiate, non ho potuto scordarli. Non era una questione di orgoglio ferito, si trattava proprio dell’essere stata ferita, nell’animo e fisicamente. Ho provato quel dolore che è figlio del tradimento e nella mia testa si è ricreata l’immagine di uno specchio che, illuminato al centro di una stanza buia, va in frantumi. Lo stesso specchio che avevo visto frantumarsi già una volta, da ragazza; l’identica sensazione di impotenza e incredulità, quando a mancare è proprio quell’appiglio che reputavamo eterno, solido, dalle radici profonde e incorruttibili. Avevo capito, inequivocabilmente, che tra me e Massimo era finita. Alle mie amiche, quando sfogavano le proprie frustrazioni di coppia, ripetevo che l’amore è solo un fatto di equilibrio e che i problemi devono essere relegati entro certi confini indelebili. Quando non si riesce ad arginarli, a ridurli, sforano e corrodono tutto e tu lo sai, tu te ne rendi conto, perché qualcosa in te muore e la senti morire, ma ormai non puoi più fare niente. Rattoppare è inutile. E’ tutto lì, l’amore.

***

Ero tornata ragazza. Era così che mi sentivo, che mi vedevo. Quando ero seduta al tavolino di un bar, mi sorprendevo a guardare un uomo poco distante: ne immaginavo il profumo, le carezze e persino l’intensità dei baci. Finivo per sorridere, imbarazzata ma felice. Finché non mi ricordavo di dover tornare a casa e di dover vedere Massimo, di dover passare del tempo con lui senza poterlo evitare. Vivevo di espedienti. La sera andavo a letto presto, anche se non avevo sonno, e se Massimo mi raggiungeva nell’immediato, fingevo di dormire. A fatica resistevo alle sue mani sul mio corpo. Avevo voglia, ma non con lui. Non cedevo. Non ero più una ragazzina, potevo controllarmi. L’astinenza mi confermò quello che già sapevo e cioè che non provavo più nulla per Massimo, nemmeno l’attrazione sufficiente per il sesso. Avrei potuto farlo, ma sarebbe stato come fare l’amore da sola. Era finita e me ne rammaricai. Era arrivato il momento di voltare pagina.

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