Ho trascorso il primo giorno a casa davanti al televisore. Era un mercoledì. Mi sono svegliato alle sette, come sempre, per abitudine, e ci ho messo un po’ a far passare quel senso di urgenza che mi attanagliava ogni mattina. In silenzio, mi sono vestito per andare a lavoro pur sapendo che non sarei andato oltre la cucina. Volevo che qualcosa rimanesse invariato, quotidiano.
Ho caricato la moka e mi sono seduto ad aspettare che Aurora si svegliasse. Non ero abituato a quella calma. L’orologio scandiva un tempo che non mi apparteneva, di cui avevo solo il ricordo. Ho preso il cellulare e ho controllato i siti dei vari quotidiani. Il numero di infetti si era alzato e c’era stato un picco di morti. Sono andato in soggiorno e ho preso un libro per distrarmi. Sulla poltrona, ho iniziato a sfogliare le pagine di un vecchio saggio di Schlegel. Trovato il segno, mi sono sforzato di leggere; senza riuscire. Era un plico di pagine bianche. Ho guardato la copertina, poi il dorso. L’ho riposto. Ho preso dalla libreria un romanzo di Simenon, e il telecomando. Il volume era basso dalla sera precedente. Aurora aveva guardato un film, io ero andato a dormire che mi si togliesse dalla testa lo scarponcino in camoscio di Marco. Aurora mi ha chiesto di stare insieme, che mi avrebbe fatto bene. Ha sorriso, ma stare bene non era quello che volevo. Quanti anni aveva Marco, mi sono chiesto? Non morivano solo i vecchi?
Ogni canale aveva un giornalista, un medico e il suo contraddittorio. Quando il medico profetizzava che non sarebbe finita in fretta, la conduttrice lo interrompeva sorridendo e lanciava la pubblicità. Comparivano dei numeri, ci si chiedeva di donare a qualche istituto. Cambiavo canale, ma non c’era differenza tra uno studio e l’altro. A volte l’inquadratura si stringeva sulle labbra di un politico che elencava i doveri della classe dirigente e le proposte del suo partito. Bisognava collaborare, ma si provava a far cadere il governo. C’era chi si scusava coi cittadini, chi prometteva discontinuità, una nuova rotta. Più spesa, dicevano, e che l’Europa doveva ascoltare. Budapest ti sarebbe piaciuta, ho pensato. C’è una piazza, a Budapest, una piazza con un grosso monumento dedicato ai russi che avevano liberato la città dall’occupazione nazista. Gli abitanti non sapevano ancora cosa serbasse loro il futuro, della repressione, dei pogrom, delle fucilazioni. Quando il regime comunista cadde, i cittadini portarono fuori dalla città i monumenti eretti durante l’occupazione. Tutti tranne uno. Se avessero sgomberato la piazza di quel grosso monumento alla liberazione, in Russia ogni singola bara ungherese sarebbe stata scoperchiata e i morti sarebbero stati ammucchiati, forse a bruciare, forse a decomporsi. Gli ungheresi, messi alle strette, si limitarono a privare il monumento dell’illuminazione. Ricordo la mia mano in quella di Aurora, una notte sotto la pioggia, a guardarlo. La piazza buia, a eccezione di un piccolo rettangolo giallo, l’ufficio di qualche impiegato dell’ambasciata americana. Dietro al monumento, un bronzeo Ronald Reagan guardava verso casa, il passato alle spalle.
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza. Lo proclamava con le labbra contratte in una smorfia, i capelli tinti fermi in un riporto. Intorno agli occhi la pelle era più chiara, come se avesse dormito sotto al sole con una mascherina. Mi sono ricordato di averlo visto in un manifesto a Londra, anni prima, stretto in un bacio appassionato con il leader britannico euroscettico. Avevano poi vinto, la Gran Bretagna non sarebbe più stata Europa.
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza, proclamò, mentre i suoi funzionari trattavano in segreto con un’azienda tedesca per assicurarsi l’esclusiva sul futuro vaccino.
Ho sentito Aurora sbadigliare. Sono tornato in cucina e ho messo la moka sul fornello. Il fuoco basso, che il tempo non sarebbe mancato.
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Psicosi 3
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Psicosi 2
Hanno diminuito le corse dei pullman, poi quelle della metropolitana. Ho iniziato ad andare al lavoro in bicicletta e pedalavo nelle strade deserte. Ogni tanto la sirena di un’ambulanza si faceva vicina, per poi disperdersi in qualche vicolo. Agli incroci si vedevano i primi posti di blocco della polizia. Ti fermavano, chiedevano dove andavi, verificavano, e facevano cenno di andartene. Qualcuno gli dava dei fascisti dal balcone. Loro alzavano la testa, sorridevano.
Non avevo più bisogno di legare la bicicletta. Continuavo a farlo per abitudine, perché la mia quotidianità era ancora quella e nella mia quotidianità avevo bisogno di legare la bicicletta. Davanti al portone c’era il solito ragazzo che raccoglieva firme per una ong. Indossava la mascherina sotto gli occhi smarriti. In silenzio porgeva i fogli e la penna, ma era solo un accenno. Non parlava. Va’ a casa gli dicevo.
Nell’androne aspettavo l’ascensore osservando il mio riflesso nello specchio ossidato che mi stava di fronte. Avevo l’aria stanca e i capelli lunghi. I barbieri avevano chiuso. Dovevo chiedere ad Aurora di tagliarmeli.
In ufficio cercavamo di sdrammatizzare. Marco, dall’altro lato della scrivania, teneva aperto il sito dell’ambasciata ungherese. Doveva andare a Budapest con la fidanzata, i biglietti presi da mesi. Non ti fanno partire, gli ripetevo. Lui mi guardava torvo da sopra al monitor. Annamaria arrivava dal suo ufficio e mi rimproverava di lasciarlo stare. Era nuovo Marco, aveva voglia di farsi notare. Indossava delle camicie a quadri e degli scarponcini in camoscio, puliti e lucidi. È solo un’influenza, ripeteva. Una brutta influenza.
Eravamo intasati dalle email di fornitori e distributori. Lo Stato aveva imposto delle restrizioni, intere città bloccate e i militari a presidiarne le uscite. La filiera era saltata e lavoravamo muovendo merce che non esisteva, credendo in un’inversione imminente, repentina. Non ci fu.
È andata avanti così per qualche giorno. In strada aumentavano le pattuglie e in ufficio l’apprensione. Quando arrivavo, non vedevo più il ragazzo delle firme davanti al portone. Alcuni colleghi si erano messi in ferie per stare a casa con i figli, perché le scuole avevano chiuso. Io telefonavo ad Aurora, e ridevo. Lo facevo per tranquillizzare Marco, per convincerlo che andasse tutto bene. Così dicevo ad Aurora che ci stavamo rilassando, che rubavamo lo stipendio; poi guardavo Marco e ridacchiavo che lui no, lui era ancora in prova.
A volte gli sgattaiolavo dietro, tornando dal bagno, mentre cercava l’Ungheria nella lista dei Paesi che impedivano voli dall’Italia, e iniziavo a tossire con forza. Lui si stringeva nelle spalle, Annamaria si sporgeva dall’altra stanza.
Sedendomi alla scrivania, guardavo dalla finestra le Alpi fare da sfondo a una piazza deserta.
Una mattina ho trovato il portone socchiuso. Dall’androne e dalle scale veniva un vociare confuso, concitato. Al secondo piano la porta dell’ufficio era spalancata. Prima che potessi avvicinarmi, Annamaria è uscita, sconvolta. «Non entrare, Massimo» ha detto sbarrandomi il passaggio, le braccia aperte. «Non entrare.» Da dietro la porta, a terra, una gamba e un piede e uno scarponcino in camoscio, immobile.
Alle mie spalle passi veloci e pesanti per le scale. Degli uomini vestiti di tute chimiche bianche ci hanno oltrepassati, le facce nascoste da grosse mascherine.
«Ha iniziato a tossire, poi è caduto» ha detto Annamaria, seguendoli. «Non risponde.» Si è girata e mi ha fatto cenno di andarmene, prima di chiudersi la porta dietro.
Sono tornato a casa, e da allora non sono più uscito.
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Psicosi 1
È successo tutto molto in fretta, in realtà. A guardare le strade vuote e silenziose, le serrande abbassate, le persiane chiuse, si potrebbe pensare a una situazione immutata da quanto, mesi? Anni? Invece sono bastati pochi giorni. All’inizio mi veniva in mente una sola parola: psicosi. Vorrei saperne dare la genesi, di questa parola. Genesi. È così biblico. Non lo è? Quello che sta accadendo, voglio dire.
Attraverso le fessure della veneziana guardo la fermata del pullman. Lo faccio soprattutto nelle ore di punta. O meglio, in quelle che lo erano. Cerco di immaginarla in un giorno di pioggia, con le persone che si stringono sotto la banchina, e il pullman che arriva sbuffando, stanco. Qualcuno non riesce a salire e rimane lì, sotto la tettoia gocciolante. Sono giorni che non c’è più nemmeno quel qualcuno.
Nessun rumore.
Lo dicevo ad Aurora qualche tempo fa. Le chiedevo se riuscisse a immaginare la città silenziosa, come una volta. Tra tanti anni, con le auto elettriche, pensavo. Ora non serve più immaginarla. Tutti direbbero che è tranquilla, ma io dico disturbante. Una sera, in televisione avevano parlato di una ricerca svedese sul rumore delle città. C’era una classifica. Quelle peggiori erano sempre le stesse. Torino mancava. Nessuno dice mai nulla su Torino. Comunque, i rumori insopportabili sono il martello pneumatico e gli schiamazzi, più dello stridio della forchetta sul piatto. Non ho letto il silenzio. Eppure è il rumore peggiore, ora lo so. Le città dovevano essere orribili, prima.
I telegiornali hanno sempre detto che la situazione era grave e che bisognava preoccuparsi, ma per i politici era tutto sotto controllo. A chi credere? Io e Aurora ci guardavamo, senza risposte.
Ogni mattina un uomo entrava in cortile con la bicicletta. Si fermava davanti ai bidoni della plastica e iniziava a frugare, smuovendo la spazzatura con uno stecco di ferro. Quando trovava qualcosa, lo esaminava e lo riponeva in una cassetta della frutta usata come portapacchi. Per anni ho spiato quell’uomo da dietro la tenda. Per anni ho desiderato che chiudessero a chiave il cancello, che non potesse più entrare, di urlargli dietro che il mio era un cortile rispettabile. Poi ha smesso di venire. Eppure non è cambiato niente: il cancello è ancora aperto e io sono ancora alla finestra. Lui, però, non l’ho più visto.
Prima, quando tutto era sotto controllo, andavo a lavoro con superbia. In metropolitana facevo le foto di nascosto a chi indossava la mascherina. Psicopatico, pensavo. Le mandavo ad Aurora e ridevamo. Stavo in mezzo agli altri passeggeri, fiero. Ero superiore.
Una mattina i vagoni erano vuoti. L’orario era quello di sempre. Ho provato disagio. Non sono sceso, non mi sono presentato a lavoro. Sono andato fino al capolinea, e poi indietro. Seduto, guardavo il mio riflesso viaggiare nel tunnel illuminato della metropolitana. Per la prima volta in dieci anni mi sono accorto che quando il treno si ferma, le porte del vagone non combaciano con quelle della stazione. Mi sono chiesto se dovesse essere così.
Mi sono accorto anche dei cinesi, di quanti fossero, del fatto che non stessero a casa. Vederli con le mascherine mi infastidiva. Ero dispiaciuto che i loro ristoranti stessero chiudendo, che non ci fossero clienti ai tavoli, ma preferivo non averli in metropolitana. Perché non si mettevano in quarantena? Era più sicuro. Per loro, intendo. Se ne saliva uno, mi allontanavo. Pensavo sarebbe stato meglio per loro stare in quarantena. Alcuni erano stati aggrediti. Non era più sicura, la quarantena? Non farsi vedere per un po’, far calmare le acque. Per buon senso, ecco.
Col passare dei giorni non è cambiato molto. I vagoni erano deserti. Gli unici passeggeri si appoggiavano a grossi trolley. Scendevano tutti a Porta Nuova e nessuno saliva.
A casa lo dicevo ad Aurora. Quando rientravo, la trovavo sdraiata a letto, il laptop sulle cosce nude. Lei non doveva andare in ufficio, le bastava il computer. Non aveva molto da raccontarmi. Niente aneddoti sui colleghi, o sul capo. Non le piaceva lavorare così. Aveva bisogno di uscire, di tornare tardi e vedere un rifugio nella nostra casa. Così era un posto come un altro, diceva. Tutto uguale, pensavo io, cambiandomi.
Cucinando, guardavo dalla finestra le strade deserte. Dalla televisione qualcuno ammoniva di non assaltare i supermercati, che le scorte non sarebbero finite. Ci abbiamo creduto.
In una trasmissione, un politico emaciato stava contraddicendo un medico. Non c’era da preoccuparsi, non dovevamo cambiare stile di vita. Lavarci le mani un po’ di più, nient’altro. Un’influenza, diceva. È solo una brutta influenza. Abbiamo spento e lasciato i piatti sporchi nel lavello. Abbiamo fatto sesso con i vestiti ancora addosso.
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Reddito di cittadinanza
Ho notato una cosa, una cosa che mi piace poco e che è esplosa con la presunta vittoria del Movimento 5 stelle. Riguarda, ovviamente, il “reddito di cittadinanza” e quella enorme bufala che vi si nasconde dietro.
Da quello che ho capito – e potrei aver capito male – il “reddito di cittadinanza” è una sorta di assegno di disoccupazione che può essere erogato per circa un anno e che viene negato se il beneficiario, nell’arco di suddetto periodo, rifiuta tre offerte di lavoro avanzategli dal Centro per l’impiego. Non voglio soffermarmi sull’improbabilità di ricevere tre offerte di lavoro – e mi viene in mente il siparietto Porro-Bonafede – perché dovrei essere a conoscenza della durata minima del contratto proposto e di altri parametri che ignoro, così come tralascerò le questioni relative ai corsi di formazione e alle otto ore settimanali massime di impegno richiesto in progetti comunali.
Quello che mi interessa trattare riguarda le implicazioni sottintese da questo provvedimento, la concezione che ne hanno le persone – e il grosso degli elettori del Movimento – e le impressioni che ho avuto.
Un primo aspetto della questione è figlio di una costante che ho notato – e non solo io – durante tutta la campagna elettorale. E’ una caratteristica trasversale, che ha riguardato tutti i partiti politici, ed è una subliminale, tacita e implicita esclusione dalle parole “lavoro” e “crisi occupazionale” di tutti quegli impieghi che richiedono una persona laureata, una persona che, grazie a dei sacrifici, ha potuto specializzarsi in un preciso ambito, anche – e, forse, soprattutto – per poter aspirare a degli impieghi, se non più redditizi, almeno più gratificanti.
Quando io sento parlare di lavoro, invece, non colgo alcuna distinzione. “Ai nostri giovani manca il lavoro e bisogna fare qualcosa” si sente dire. La mia domanda, però, è: chi sono, questi nostri giovani? E quali sono, quindi, questi lavori? Stiamo maliziosamente ponendo su uno stesso livello – usando un criterio per nulla funzionale, quello dell’età – chi ha smesso di studiare in terza media e chi ha finito il proprio ciclo scolastico in un ITIS e chi ha continuato fino al raggiungimento di una laurea magistrale (o un master)? Mi sembra che la tendenza sia questa e, forse, il fatto che in Italia il livello di laureati sia molto basso è figlio anche di questo linguaggio fuorviante e, io credo, molto scorretto.
Questa è stata una delle grandi carenze che ho trovato nei programmi elettorali e nella comunicazione propagandistica, accompagnata da una generica riluttanza nel voler affrontare il tema dei “laureati” e di qualsiasi pianificazione di uno scenario lavorativo italiano che muti e si prepari ad accogliere quelle che ancora vengono definite “eccellenze” e che all’estero sono invece la normalità. I laureati non sono “cervelli”, sono normali cittadini con dei doveri e dei diritti, cittadini che hanno affinato le proprie competenze così da poter affrontare la realtà lavorativa che il secolo XXI ci propone.
Dicevo: quando si parla di lavoro e di occupazione giovanile, in Italia, ho sempre la percezione che ci si riferisca a lavori manuali, usuranti, lavori di un secolo passato e di un’epoca che è destinata a concludersi anche se vogliamo fingere che non sia così.
A questo punto entra in gioco il famoso “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 Stelle. Questa misura ignora totalmente i laureati e non fa altro che svilirne e umiliarne il percorso di studi e le scelte di vita. “Se in Italia non c’è una sufficiente offerta lavorativa per voi, non è un problema nostro: voi siete dei parassiti”. E’ questo che sottende questa misura. Se rifiuti tre lavori, tre lavori che non c’entrano nulla col tuo titolo accademico, tu sei un parassita, un ingrato. Sei un fannullone. E io i soldi non te li do più. Perché, parliamoci chiaro, il problema non deriva dall’assenza di una concreta discussione politica su questi temi, no, il problema è che i laureati sono troppo presuntuosi, troppo viziati per poter capire che per vivere – e questo sia chiaro – si devono pulire anche i cessi.
Questa mattina mi sono inserito in un paio di discussioni, qui su Facebook, che riguardavano proprio il “reddito di cittadinanza” e sono rimasto basito – ma dovevo aspettarmelo – nel leggere queste accuse dirette a chi, come me, rifiuta questa generalizzazione del mondo del lavoro; a chi, come me, non vorrebbe soldi dallo Stato, bensì una pianificazione fin qui assente e che sarà il grande dramma di questo secolo italiano.
C’è un divario, in Italia, ed è quello tra chi non ha studiato e chi ha studiato. Se, una volta, chi aveva un titolo accademico veniva encomiato e rispettosamente chiamato “professore”, adesso è soggetto a biasimo, a disprezzo, a disapprovazione.
In Italia continua ad affermarsi – e sempre più – la tendenza a livellare verso il basso, verso l’ignoranza, verso un’omologazione su bassi livelli. A cosa serve, di fatto, un titolo accademico, se a essere coltivata con cura è la generale presunzione del sapere tutto? A cosa serve affinare le conoscenze e i giudizi, se la presunta “tuttologia” è così diffusa, così comune, così radicata?
Mi sono sentito dare del fannullone e un po’ mi è spiaciuto. Mi è spiaciuto perché mi impegno in quello che faccio, ma anche per i miei genitori, che fanno dei sacrifici per farmi studiare.
Ho letto della rabbia, nelle parole che mi venivano rivolte, e questa rabbia, ne sono convinto, è alimentata proprio da coloro i quali, alle ultime elezioni politiche, si sono presentati agli elettori come santoni con il lume della verità in mano, pronti a donarne la fiammella a chi li avesse seguiti ciecamente e fedelmente.
Sono una persona che studia e, in quanto tale, un fannullone. Mi piace. Finirò per abituarmici.
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Brucia la strega (1/2)
In questo momento non riesco a non pensare a Don Antonio e alle sue omelie. Una in particolare. Citava un passo del vangelo, forse Luca 15:2, che diceva più o meno vivrà nel fuoco della Bestia/brucerà il peccatore che ha dimenticato/come colui che ha tradito Cristo/ogni debito verrà pagato. Quella notte ho sognato di essere una strega, che molti uomini venissero a prendermi nel sonno e mi portassero in un bosco per bruciarmi viva. Il mio peccato? Aver fatto l’amore a quindici anni.
***
Eravamo al supermercato.
Sono scoppiata a ridere per una battuta di mio marito e, con un movimento brusco, ho fatto cadere un pacco di pasta dal carrello. Un signore si è avvicinato per raccoglierlo e io gli ho sorriso per ringraziarlo. Rimasti soli, mi è tornato da ridere. Non a mio marito, però. Mi ha guardata per qualche istante, poi si è limitato a dire vergogna.
Arrivati a casa, avevo appena posato le buste della spesa, quando mi ha afferrata per il polso e mi ha dato uno schiaffo in faccia. Io non me lo aspettavo e sono caduta per terra. Il pavimento era freddo; la mia guancia bruciava. Vergogna ha ripetuto e si è sfilato la cintura dai pantaloni. Io ho provato a replicare, ma la prima cinghiata mi ha ricacciato la voce in gola.
***
Non avevo fatto l’amore a cuor leggero, la prima volta. Come tutte le ragazze mi sono chiesta se fosse la persona giusta e se io fossi pronta. Ma il mio corpo, ormai, era quello di una donna e di donna erano anche le mie voglie. Così ho deciso di lasciarmi andare, felice e orgogliosa della mia decisione.
L’entusiasmo, o forse il non credermi più una ragazzina, mi ha portato a vedere mia madre come un’amica con cui confidarmi. E così ho fatto.
La mia era una madre moderna. Non se ne stava nell’angolo della cucina, zitta a guardare cosa facesse mio padre. No, lei era al passo coi tempi e spesso lo sfidava per dimostrargli che fossero sullo stesso piano. Così, subito dopo la mai confidenza, che aveva più il tono di una confessione, mi ha picchiata proprio come se fosse mio padre. E mentre lo faceva, continuava a darmi della svergognata e a chiedermi perché le avessi voluto fare del male. Perché la gente avrebbe parlato e loro che razza di genitori sarebbero stati, agli occhi degli altri?
Il lavandino era pieno dei miei capelli castani, strappati da quelle stesse mani in cui cercavo delle carezze. Ho contato le ciocche e per ciascuna di esse ho letto la definizione della parola vergogna.
La ricordo ancora adesso: vergogna s. f. Sentimento di colpa o di umiliante mortificazione che si prova per un atto o un comportamento, propri o altrui, sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti.
***
Io Massimo non l’ho mai giustificato.
Lui mi aveva picchiata e lo aveva fatto con crudeltà: la voce era fredda e pacata, la mano non aveva esitato. Non era stato un raptus. Eppure, ho creduto di doverlo aiutare. Aiutare, sì, perché da subito ho pensato che il suo fosse un problema. Ho sempre avuto la tendenza ad attribuire ogni azione, sbagliata o giusta che sia, a un fatto pregresso. Non so, magari qualcosa legato all’infanzia, su cui poi una persona costruisce un lato del proprio carattere. Ecco, quando mi ha picchiata, io Massimo lo conoscevo da otto anni e stavamo insieme da sette.
Ricordo quel ventiduenne gentile e sicuro di sé che mi fermava nei corridoi dell’università e che si faceva sempre avanti per offrirmi un caffè. Ricordo anche che più imparavo a conoscerlo, più quella sicurezza si mostrava fragilità. Massimo aveva paura che il suo ruolo di uomo venisse sovvertito. Per esempio aveva bisogno di pagare per me; oppure aveva bisogno che io non indossassi i tacchi, così da non essere più alta di lui. Aveva persino bisogno di diventare l’unica persona che riuscisse a farmi stare bene, perché credeva che solo così sarei rimasta con lui.
***
Anche se avevo solo quindici anni, dovevo sposarmi. Era questo che pensavano i miei genitori. Devi sposarti dicevano. Secondo loro – secondo tutti – solo il matrimonio avrebbe potuto restituirmi l’onore che avevo buttato via stupidamente. Me lo ripetevano ogni giorno, da quando avevano iniziato a parlarmi di nuovo. Io, però, invece di convincermene, iniziai solo a sentire crescere qualcosa dentro di me che mi avrebbe accompagnato per anni. Ogni volta che ero attratta da un ragazzo, o che più semplicemente sentivo il bisogno di averne uno, mi sentivo a disagio. Forse anche sporca. Di sicuro meritevole di una punizione. Sì, temevo che Dio mi avrebbe punita per le mie pulsioni impure.
Quando decidevo di andare a letto con un ragazzo, provavo uno sprizzante senso del pericolo e dello sbagliato. Mi lasciavo trascinare dalla passione e dai miei desideri, ma ero sempre consapevole che una parte di me pensasse che fosse sbagliato e che avrei dovuto fermarmi finché fossi stata in tempo. Durante i rapporti, il piacere schiacciava questa pulsione, ma, per quanto fossi trasportata e coinvolta, più i miei sensi si avvicinavano al culmine, più sentivo crescere, martellante, il senso di colpa. I miei orgasmi erano un’esplosione di gioia e tristezza allo stesso tempo ed era solo quest’ultima a trascinarsi fino alla fine, a tenermi compagnia anche quando ero rimasta sola nel mio letto.
***
Massimo non fu più lo stesso.
Forse è stato proprio il suo improvviso cambiamento a non farmi andare via, a convincermi che non potessi lasciarlo solo. Dopotutto negli anni avevo avuto anche io delle crisi e lui, rimanendo al mio fianco, mi aveva aiutata. Quando l’ho visto chiudersi sempre più in sé stesso e diventare solo uno spettatore del nostro rapporto, ho capito che aiutarlo fosse una mia responsabilità. Non ho mai sopportato chi distrugge una relazione solo perché sfaldare è più semplice che ricucire. E io ci ho provato: mi sono costretta ad arginare quella prima volta – che nella mia testa era anche l’ultima – nel cassetto delle esperienze sbagliate.
Una volta, a lezione, avevo sentito dire che persino un’esperienza negativa può essere un’opportunità. Ne ho fatto la mia filosofia di vita: trasformare una brutta situazione in un punto di partenza e non di arrivo. Io e Massimo avremmo potuto sfruttare l’occasione e, insieme, avremmo potuto cambiare e risolvere quelle debolezze della sua personalità che gli impedivano di vivere serenamente. E che la prima di queste sue fragilità si chiamasse vergogna, lo avevo ormai intuito.
***
E’ servito del tempo prima che riuscissi a trovarmi a mio agio con la mia sessualità. Ho dovuto fare un lungo lavoro su me stessa, a partire dalla rimozione di qualsiasi concetto cattolico che mi era stato inculcato durante l’infanzia. Forse è un po’ spietato affermare che il sesso e l’anima abbiano poco da spartire, ma la realtà ti costringe al cinismo. Mi sono ritrovata a usare gli uomini e a illuderli del contrario. Il modo migliore di sedurre è essere sedotti.
Per seguire l’università avevo dovuto trasferirmi. Dividevo un piccolo appartamento con una ragazza di Perugia. Spesso, quando uscivamo la sera, qualche ragazzo si faceva avanti per offrirmi da bere. Io accettavo. Non avevo remore nell’approfittare della stupidità maschile. Finivo il bicchiere, mostravo un bel sorriso e me ne tornavo a casa. Oppure decidevo di rimanere e di non tornarci da sola, a casa.
Avevo un’ottima media e agli occhi dei miei genitori era la dimostrazione che fossi diventata una brava ragazza. Come se non la fossi sempre stata… Poi è arrivato Massimo. Lui sì che speravo volesse offrirmi qualcosa. E infatti lo fece, più volte, ma io accettai solo la prima. Le altre, ognuno il suo. Con lui mi interessava avere un rapporto alla pari, anzi: con lui mi interessava avere un rapporto. Da allora, per anni, è stato l’unico uomo che ho frequentato.
***
Sapevo che Massimo sarebbe peggiorato.
Inizialmente sembrava non solo aver capito il suo errore, ma anche disposto ad affrontare i propri lati più torbidi. Io l’ho trattato amorevolmente, forse ancora più di prima, come se l’essere consapevole della sua debolezza mi spingesse a prendermi cura di lui. E’ stata la contraddizione maggiore con cui abbia dovuto convivere, perché io, quello schiaffo e quelle cinghiate, non ho potuto scordarli. Non era una questione di orgoglio ferito, si trattava proprio dell’essere stata ferita, nell’animo e fisicamente. Ho provato quel dolore che è figlio del tradimento e nella mia testa si è ricreata l’immagine di uno specchio che, illuminato al centro di una stanza buia, va in frantumi. Lo stesso specchio che avevo visto frantumarsi già una volta, da ragazza; l’identica sensazione di impotenza e incredulità, quando a mancare è proprio quell’appiglio che reputavamo eterno, solido, dalle radici profonde e incorruttibili. Avevo capito, inequivocabilmente, che tra me e Massimo era finita. Alle mie amiche, quando sfogavano le proprie frustrazioni di coppia, ripetevo che l’amore è solo un fatto di equilibrio e che i problemi devono essere relegati entro certi confini indelebili. Quando non si riesce ad arginarli, a ridurli, sforano e corrodono tutto e tu lo sai, tu te ne rendi conto, perché qualcosa in te muore e la senti morire, ma ormai non puoi più fare niente. Rattoppare è inutile. E’ tutto lì, l’amore.
***
Ero tornata ragazza. Era così che mi sentivo, che mi vedevo. Quando ero seduta al tavolino di un bar, mi sorprendevo a guardare un uomo poco distante: ne immaginavo il profumo, le carezze e persino l’intensità dei baci. Finivo per sorridere, imbarazzata ma felice. Finché non mi ricordavo di dover tornare a casa e di dover vedere Massimo, di dover passare del tempo con lui senza poterlo evitare. Vivevo di espedienti. La sera andavo a letto presto, anche se non avevo sonno, e se Massimo mi raggiungeva nell’immediato, fingevo di dormire. A fatica resistevo alle sue mani sul mio corpo. Avevo voglia, ma non con lui. Non cedevo. Non ero più una ragazzina, potevo controllarmi. L’astinenza mi confermò quello che già sapevo e cioè che non provavo più nulla per Massimo, nemmeno l’attrazione sufficiente per il sesso. Avrei potuto farlo, ma sarebbe stato come fare l’amore da sola. Era finita e me ne rammaricai. Era arrivato il momento di voltare pagina.
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Petaloso: l’ennesima occasione persa dall’Italia.
Probabilmente conoscete tutti la vicenda legata al termine petaloso e trovo quindi superfluo rimarcare che sia un neologismo “nato” dalla fantasia di Matteo, un bambino di terza elementare.
Come sapete, Matteo ha scritto petaloso in un tema scolastico e la sua insegnante, Margherita Aurora, dopo averlo evidenziato come errore, ha pensato che potesse essere una parola adeguata per la lingua italiana e, di conseguenza, meritevole di fare parte del nostro vocabolario.
Margherita Aurora ha così deciso di far valutare petaloso all’Accademia della Crusca e, una volta ricevuto il responso, ha deciso di condividerlo su Facebook.
L’Accademia della Crusca ha osservato che petaloso sia un vocabolo ben composto e molto chiaro e, di conseguenza, potenzialmente utilizzabile nella lingua italiana. Solo potenzialmente, però: affinché un termine venga riconosciuto come membro del nostro patrimonio linguistico, deve essere largamente diffuso tra il popolo. Insomma: deve essere un termine popolare.
Ha così preso vita una mobilitazione del web finalizzata alla promozione di petaloso. Una causa che ha visto coinvolti numerosi cittadini, importanti multinazionali e persino il Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Questo, per il piccolo Matteo, deve proprio essere un sogno da cui non svegliarsi mai.
Qual è il problema, allora?
Il problema è che i sogni sono labili e il più delle volte tendono a degenerare in incubi. E’ esattamente quello che potrebbe accadere a Matteo e a petaloso, dopo che la sovraesposizione dei media – per una volta corretta, aggiungerei – ha sì reso di comune conoscenza la vicenda, ma, allo stesso tempo, l’ha costretta nello scoprire il fianco al cinismo fiacco e frustrato che popola internet.
Petaloso è stato preso di mira dagli internauti che non hanno esitato a trasformarlo nell’ennesimo fenomeno trash. Se da un lato è di facile deduzione lo sciacallaggio di numerose pagine Facebook, che non fanno altro che sfornare contenuti di infimo livello e che sono alla costante e perpetua ricerca di click da parte degli iscritti, dall’altro è ancora più agevole comprendere come gli stessi utenti agiscano con una cattiveria immotivata e gratuita, figlia dell’invidia e della sola capacità di non comprendere.
L’ignoranza – in Italia dilagante molto più che in altri stati dell’Unione Europa – impedisce di capire quanto petaloso sia non solo una speranza, ma soprattutto un’opportunità.
Innanzitutto l’insegnate andrebbe erta a emblema della buona scuola e contrapposta a tutto ciò che vi è di inadeguato all’interno dell’istituzione scolastica. Margherita Aurora ha dimostrato di non volersi limitare, come molte sue colleghe e colleghi, a bollare come errore una parola sbagliata. Al contrario, ha dato una lezione molto importante alla sua classe: un errore può essere trasformato in qualcosa di positivo e non sempre ciò che definiamo sbagliato lo è per forza. Margherita Aurora, incentivando Matteo, ha incoraggiato i suoi ragazzi a non essere degli studenti passivi e svogliati, ma parte della loro materia di studio: la cultura italiana.
Proseguendo, lo stesso Matteo, fatto tesoro di questa esperienza, potrebbe diventare un uomo che non sprecherà la propria vita davanti a uno schermo, senza avere la ratio per discernere ciò che non andrebbe mai e assolutamente toccato.
Forse Matteo, avendo una famiglia e dei docenti che lo incoraggiano, non si sentirà costretto a essere alternativo, a pensare che le persone intelligenti e furbe debbano per forza avere un pensiero alternativo e controcorrente. Forse Matteo si renderà conto che, prima di tutto, nella vita è necessario averlo un pensiero. Forse Matteo comprenderà che è dietro a un’iniziativa come quella della sua insegnante che si deve unire una Nazione, rivendicando la propria identità, e non dietro a vuoti slogan e luoghi comuni.
Quello che ho realizzato io in questi giorni passati in disparte a osservare, è che preferiamo un sistema scolastico che non funziona, che riempie di nulla le teste dei propri studenti; preferiamo degli insegnanti che si siedono dietro a una cattedra senza avere la più pallida idea di cosa voglia dire passione; preferiamo pensare che tutto ciò che vada oltre alle addizioni sia inutile nella vita comune, inutile per pagare le bollette; preferiamo sentirci superiori, metterci sempre in una posizione antagonista, credendoci cinici e furbi, senza capire che siamo figli del nulla che rappresentano gli anni zero; preferiamo parlare, sempre, senza avere cognizione di quello che diciamo.
Ecco perché credo che quella di petaloso sia l’ennesima buona occasione sprecata dal nostro Paese.
Ecco perché credo che quella di petaloso sia l’ennesima buona occasione sprecata da noi nuove generazioni.
Ecco perché io sostengo petaloso: perché avrei voluto trovarmici io, quindici anni fa, al posto di Matteo.
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Diario di Nemo (giorno 1)
Oggi è stato uno di quei giorni che la voglia di mettersi a scrivere proprio manca. A dirla tutta, è stato uno di quei giorni che vorresti proprio non alzarti dal letto e continuare a dormire. Il brutto dello scrivere è che spesso ci si dimentica che sia un lavoro e quindi che non sia rimandabile. Mi viene da dire che la scrittura sia un piacere solo quando la si intende come un impiego, altrimenti diventa frivolezza. Finalmente riesco a capire chi mi diceva che è fatica. E ne sono felice.
Per onestà, devo ammettere che la pigrizia mi ha fatto iniziare solo dopo pranzo. Ma fortuna che l’ho fatto!
Ho avuto bisogno di soffermarmi su alcune date e sull’età di alcuni personaggi nelle due fasi narrative: passato e presente. E’ stato complicato riuscire a intrecciare tutto, ma molto utile. Questo mi ha portato ad avere chiarezza e lucidità su dettagli che reputavo inutili e che, al contrario, complicavano e affaticavano di molto la fase creativa.
Schiarendomi le idee, ho finalmente avuto ben chiaro quale debba essere lo scheletro della prima parte del romanzo e come questa debba concludersi.
Avere questa consapevolezza mi ha permesso di ricamare intorno scene di dettaglio che hanno rafforzato di molto la struttura portante. Nello specifico mi sono trovato a parlare per un’intera pagina di violenza psicologica sulle donne, in una forma che non avrei mai pensato di poter concepire. Di fatto quella che si percepisce è solo una sensazione di violenza.
Io sono consapevole di non scrivere ancora ad alti ritmi, ma purtroppo questi si assumono grazie all’abitudine e all’impegno costante, cosa che sto cercando di avere e che sta portando i suoi frutti.
Avere risultati porta solo nuovo entusiasmo. E nuovo entusiasmo porta a sua volta dei risultati. Il meccanismo è semplice, il difficile è riuscire a entrarci.
Bottino di oggi: 6549 battute
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