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Raccontami della Shoah

Sarò breve, davvero.
“Shoah” è improprio, esclude ogni vittima non appartenente al popolo ebraico. Mi riferisco agli Zingari, agli omosessuali, agli oppositori politici, agli handicappati. “Shoah” è un termine improprio, ma è quello usato in questi giorni sui giornali, nelle radio, in televisione e per comodità lo userò anche io.
Dicevo: sarò breve.
Ogni anno sentiamo parlare di: Shoah, Olocausto, genocidio, sterminio degli Ebrei. E ancora: piazzale Loreto, Duce, Fascismo, Mussolini; Auschwitz, Führer, Nazismo, Hitler.
Quest’anno: Liliana Segre, Gene Gnocchi, Claretta Petacci scrofa.

Indignatevi.

Voglio essere breve.
Tra una citazione di Primo Levi e un estratto video de La Grande Storia, mi chiedo: è così che pensate di sbrigarvela? Darci un contentino è la vostra messa della domenica? Cosa succederà, quando i reduci saranno chiusi nelle loro bare zincate? Basterà che i numeri di cui sono stati marchiati svaniscano nel consumarsi della loro pelle, perché quell’orrore venga cancellato dalla nostra Storia? Nostra, perché il Fascismo era cosa Nostra; perché dovremmo ricordarci – e tutti – che noi abbiamo combattuto una guerra stando da quella parte là; che noi abbiamo fatto salire al potere un uomo che Hitler, quello cattivo, coi baffetti, quello pazzo, ha preso a modello. Perché noi, intelligenti uomini occidentali, siamo il popolo che ha accettato anni e anni di dittatura. E ne eravamo felici. Quindi ogni tanto ricordiamocelo, che gli Ebrei li abbiamo ammazzati anche noi e non solo i Crucchi brutti e cattivi.

Ma non è questo il punto.
Il punto è: perché mi fate vedere quei filmati, perché mi fate vedere quei film, perché mi ricordate del binario di Auschwitz?
Non dovremmo fermarci tutti? Non dovremmo fermarci tutti un attimo, chiudere Facebook, ritardare la pubblicazione della prossima Instagram Story, mettere via quel libro che stiamo per fotografare e che tanto non leggeremo mai; ecco, fare tutto questo e molto di più e dire: vi prego, spiegateci come si è arrivati a deportare gli Ebrei. Vi prego, spiegateci come si è arrivati a crederci la pura razza italica. Vi prego, spiegateci come si è arrivati a sottostare a una dittatura che ha piegato il Paese e che macchierà le nostre coscienze per sempre.

Brucia il fantoccio della Boldrini.
La lettura del proclama “Basta invasione”.
Mussolini ha fatto cose buone.
I migranti devono essere respinti.
Prima gli Italiani.
Froci di merda.
Ebrei di merda.
Zingari di merda.
Basta Europa.
Viva Putin.
Viva Trump.

Vi prego, ricordateci di come tutto questo, di come tutto questo e un ceto medio che si sente massacrato e incompreso, di come tutto questo e una classe operaia che si sente sfruttata, di come tutto questo e le nuove e vecchie generazioni sono in conflitto, di come tutto questo e la nascita di movimenti, di come tutto questo e la necessità di un nemico interno, di come tutto questo e la rinascita del nazionalismo.

vi prego ricordateci di come tutto questo un popolo ci ha già portati a sterminarlo una volta

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Ciao, Gianmaria

Gianmaria l’ho conosciuto tanti anni fa, durante un viaggio in macchina Torino – Catanzaro. Mio padre, appena partiti, mise un suo disco. Mi disse di ascoltare, che era un poeta. Io non gli diedi retta, un po’ perché per me gli unici poeti erano Baudelaire e Verlaine, un po’ perché era quel principio di adolescenza in cui non puoi fare a meno che contraddire.

Nel 2012 frequentavo la Scuola Holden. Era novembre e dovevo scegliere da una lista i workshop ai quali avrei voluto partecipare. Uno di questi aveva come docente Gianmaria Testa. Ricordai quel viaggio in macchina Torino – Catanzaro e quel disco che non avevo voluto ascoltare. Fu naturale spuntare quel nome e metterlo in cima alle mie preferenze.

Arrivò in aula con addosso una maglietta nera e in spalla l’immancabile custodia della chitarra. La posò per terra, come farebbe un qualsiasi artista di strada, e si presentò Io sono Gianmaria. Ciao, piacere, salve a tutti. Prese la chitarra e si adoperò per accordarla. Io non sono un insegnante, quindi questa non è una lezione. Ci guardò, eravamo una quindicina. Vi va se parliamo un po’? E’ necessario parlare, solo così si può imparare qualcosa. Non ho mai avuto l’occasione di stare nella stessa stanza con quindici scrittori. E’ un’opportunità.

Ci chiese di raccontargli di noi, uno per uno. Era interessato alle nostre esperienze, alle nostre storie, con indosso l’abitudine di raccontarle nelle sue canzoni. Volle sapere se qualcuno di noi suonasse. Sì? Tieni la chitarra, facci sentire qualcosa. E così sedeva tra noi e si faceva spettatore. Gli occhi chiusi, ascoltava col cuore. Applaudiva, incoraggiava, dava consigli. Io ero capotreno, non mollare.

Tirò fuori dalla tasca del cappotto un ep ancora nel cellofan. Questo me l’hanno mandato da ascoltare. Lo facciamo insieme, avete voglia? Mise su il disco. Era osceno. Lui non si scompose. Cercava ciò che vi fosse di buono. Alla fine si arrese e spense lo stereo. Vi va una sigaretta?

Gli chiedemmo di suonare qualcosa per noi. Disse di sì, felice. Eseguì Ventimila leghe e ce ne spiegò il significato. Bisogna insegnare ai bambini – perché questa è canzone per i bambini – che non si deve temere il diverso, che non bisogna credere a dei coglioni razzisti – è chiaro a chi mi riferisca, è nel titolo – che siamo tutti uguali. 

La lezione era finita. Lui non se n’era accorto, noi nemmeno. Beviamo qualcosa, vi va? Brindiamo a quest’esperienza che ho fatto oggi, all’avervi potuto conoscere. 
Tirò fuori dalla borsa delle bottiglie di vino rosso, dei bicchieri e dei grissini. Forza, ragazzi!

Ero in balcone con un amico che fumava. Lui ci raggiunse e tocco i nostri bicchieri col suo. Chiese da accendere, poi cominciammo a parlare di scrittura e di musica. Mi ascoltava e annuiva. Lo ascoltavo e annuivo. Quanti anni hai, Andrea? Venti. Mi studiò. Mi mise una mano sulla spalla e bevve un sorso di vino, guardando dritto davanti a sé. Feci lo stesso. Vuoi fare lo scrittore? Sì. Fai bene, servono dei buoni scrittori. Già. Continuammo a bere.

Come ultima cosa gli chiesi di autografarmi dei cd. Sono per papà, ti ho conosciuto grazie a lui. Sorrise. A Pino, con affetto. Gianmaria.

L’ho visto per l’ultima volta l’anno seguente. La vecchia Holden chiudeva e lui venne a suonare per dirle addio. Eravamo tutti attorno a lui, i bambini sdraiati sul pavimento, chiusi in una grossa aula. Lo ascoltammo tutti, quel poeta umile e generoso, mentre ci raccontava storie di uomini come noi, come lui.
Un bicchiere di rosso vi va? chiese, posata la chitarra.

Lasciami andare

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