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Aura

La collina più alta di Torino. Non poteva che essere questo, il posto giusto. Ho aspettato tre giorni, Aura, perché anche il momento fosse quello giusto.
Ho imparato, ho imparato il tempismo.
Tre giorni seduto sul nostro prato, due notti a dormire in macchina nel piazzale. La mano a cercarti sul sedile che non è più il tuo. Toccare il vuoto e scoprire che punge più di una spina.
Gli occhi rossi, Aura, come durante quei giorni di afa in cui andavamo in Vespa senza casco per sentire l’aria colpirci la faccia; dicevi che era il vento a schiaffeggiarti per aver scelto una città dal clima fermo e stantio. Tu qui non ci sei mai stata bene, Aura. Ti mancava Portovenere, sederti sugli scogli e pensare. Un libro aperto sulle ginocchia, la tramontana a stropicciarne le pagine.
Ho pensato che avrei dovuto riportarti a casa, che forse era quello il posto giusto. Tu però non ci sei mai voluta tornare. Per le persone, dicevi. Il vento mi ha spinta qui, tra le tue braccia e ridevi. Ma i tuoi occhi tristi dicevano altro, come se ti stessi chiedendo perché quello stesso vento non avesse potuto spazzare via tutto il resto, dalla tua vita.
Mi sono convinto che tornare, per te, sarebbe stato un passo indietro e che non me lo avresti mai perdonato, tu che hai sempre guardato avanti. Anche gli ultimi giorni, quando la malattia ti suggeriva di tirare le somme in vista del traguardo, tu hai preferito provare a spostarlo qualche metro più in là, il traguardo. E allora eccoti a chiamarmi vicino a te per parlarmi del viaggio che avremmo fatto ad agosto, del Grande Nord che avremmo visitato. Io non ti ascoltavo, no. Respiravo il tuo profumo e cercavo di imprimerlo nella mia testa. Ho persino letto un libro, Chiudi i ricordi in un cassetto e impara ad aprirlo quando vuoi, ma non ha funzionato. Forse, se fossi stato più attento alla tua voce, avrei capito se ci credevi davvero a quel viaggio, se davvero pensavi che la tua sola forza bastasse a superare questo novembre dai colori cupi e sbiaditi.
Mi hai istruito sul viaggio che avremmo fatto insieme, ma non su quello che avresti fatto da sola. Confidavi che avrei fatto la scelta giusta? Ti fidavi così tanto di me?
Mi sono detto che non eri mai appartenuta alla terra. Il pensarti dentro a una cassa di legno mi dava gli incubi. Non avrei mai potuto chiuderti in gabbia per l’eternità, sigillare la tua prigionia con tre metri di terra.
So che non sei nemmeno dentro quest’urna anonima che stringo tra le mani. Sei libera, da qualche parte. Forse il vento ti ha riportata a casa, a fare pace col tuo passato, o forse sei riuscita a convincerlo perché ti facesse visitare ancora il mondo.
Quante volte siamo stati quassù, a guardare Torino ai nostri piedi? Quando insieme alla città mi sono inginocchiato anche io, proprio qui, e ho racchiuso me stesso in un anello sottile come il dito che lo indossava.
È questo il posto giusto e lo è anche il momento. Guardalo, il vento, come scuote le chiome e sentilo, il vento, come fa suonare le foglie raccolte per terra. Mi ha fatto aspettare. Ci ha fatti aspettare. Ma non era in ritardo, si stava solo preparando per te. Perché fosse forte abbastanza da accoglierti, perché anche lui ha avuto bisogno di piangere una figlia che portava il suo nome.

Addio, Aura disse l’uomo, prima di aprire l’urna.
Addio, ripeté, mentre le ceneri danzavano alte.
Addio, sussurrò, e il sospiro del vento aveva ormai coperto la sua voce.

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L’importanza di scrivere

L’altra sera ho ricevuto un racconto via email.
Era di una ragazza con cui avevo scambiato giusto qualche messaggio.
Pochi giorni prima mi dice che le piace scrivere e le chiedo di mandarmi qualcosa, che sono curioso.
Così, superate le remore o la vergogna, un paio di sere fa si decide a mandarmi due vecchi lavori.
Mi dice che sono un po’ datati: 2010 e 2012.

La sera stessa, prima di dormire, decido di leggerli, che in fondo Mo Yan per una volta può aspettare.
So di non avere davanti il lavoro di una professionista, eppure c’è qualcosa che non mi fa levare gli occhi da quella pagina. Questo qualcosa è la sincerità con cui è scritta.
Quel racconto, a differenza di tanti altri che ho letto – e anche di parecchi romanzi – è puro, vero, credibile.
Leggendo quelle parole, mi è sembrato di conoscere quella ragazza da sempre e poco importava se la storia fosse autobiografica o totalmente inventata: io sapevo di star leggendo semplicemente lei.

Poi una frase: Tu che avevi la pazienza di un amore discreto e rassegnato…

L’ho trovata di una bellezza disarmante. Poche parole di una forza incredibile. Persino in questo momento non riesco a fare a meno di leggerle e rileggerle e leggerle ancora. Quella frase racchiude un mondo di emozioni e di immagini. Quella frase mi ha reso invidioso di non esserne l’autore.
Ho finito di leggere il racconto con i brividi, quasi vergognandomi dello star spiando – seppur con il permesso – la vita e il passato di questa ragazza.
Ero stanco, ma dovevo assolutamente leggere anche il secondo racconto.

Una volta finito, sono rimasto fermo. Poi ho spento la luce e mi sono messo a dormire.

Quando mi sono svegliato, però, ciò che avevo letto la sera precedente era ancora vivo nella mia testa. Era qualcosa che io stesso avevo vissuto.
Ho deciso, allora, di prendermi due giorni per pensarci sopra. Ne avevo bisogno.
Quei due racconti avevano stimolato non solo il mio lato creativo, dandomi subito la voglia di scrivere, ma anche la necessità di maturare una riflessione; la sensazione che ci fosse qualcosa che mi stesse sfuggendo e che fosse proprio lì, a due passi dal comprenderla.

 

Oggi ho finito di leggere il romanzo “Il supplizio del legno di sandalo” del sopracitato Mo Yan e ci sono arrivato.
Anche la sua scrittura era autentica e sincera. Per quanto stesse raccontando una storia, c’era lui. La fase della dissimulazione era superata, non c’era più bisogno di nascondersi dietro a una penna. E ho provato la medesima cosa nel leggere Benni, o Pennac, o McEwan, e altri grandi narratori. C’è sempre un momento in cui ti rendi conto che è tutto vero. Che sì, tutte quelle pagine servono a trasmettere qualcosa e arricchirti.
Eppure, tutti questi autori, sentendoli parlare ti fanno desiderare di non averlo mai fatto. Vorresti rimanere sulle loro pagine, perché sai che il modo in cui si comportano non è sincero. E’ quella la vera maschera.
Ma la loro natura, la loro essenza, è quella di cui sono intrise le loro parole.

E allora ho pensato che essere un grande narratore voglia dire avere il coraggio di raccontare sé stessi attraverso le storie di altri e abbattere quel noioso muro che troppa gente si diverte a erigere tra fiction e non fiction.
Che essere un grande narratore, come diceva Carver, è vedere ogni evento della propria vita, piacevole o spiacevole che sia, come un’occasione. Un’occasione per raccontare qualcosa, per fare letteratura, per esprimere sé stessi senza sigillarsi nella propria maschera pirandelliana.

Ed eccola, la meraviglia della letteratura! Eccola, la meraviglia dell’arte! L’arma di chi non ha paura di mostrarsi, dei coraggiosi che davvero non temono giudizio e non si vergognano di farsi denudare da chiunque, aspettandolo con il cuore in mano come il Cristo Misericordioso.

E allora scrivete! Scrivete tutti!  Che tutti scrivano e possano sentirsi, per una volta, vivi.
Questo è il mio invito a raccontarvi, a farvi conoscere, a non avere pudore o vergognarvi.
A essere dei bambini che non guardano indietro con rammarico e avanti con rassegnazione.

Per quello che riguarda i due racconti, non smetterò mai di ringraziare quella ragazza per avermeli fatti leggere. Per avermi dato modo di migliorarmi e soprattutto, per aver mostrato uno scorcio della meraviglia che sta dentro di lei.
Anche se non lo ha mai pensato, anche se non ci ha mai creduto, anche se la scrittura rimarrà sempre il suo piacevole passatempo, lei è un’autrice migliore di un mucchio d’altri che possono vedere il proprio nome dietro la vetrina di una libreria.

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