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Io e Jacques

Sono stanco. Fuori piove ed è come se Jacques Brel fosse qui, accanto a me.
Schiacciamo i nostri nasi contro il vetro della finestra e ci limitiamo ad appannarlo, di tanto in tanto. Guardiamo le persone: i passi affrettati e le teste basse sotto gli ombrelli. Inutile alzare lo sguardo, se non puoi vedere il cielo.
Le colline fumano d’angoscia e le strade si lasciano impastare dai passi dei viandanti.
Il sole dice: oggi no.
Jacques prende la chitarra e torna accanto a me. Si accende una sigaretta e apre la finestra. Il freddo entra, del calore non c’è più traccia.
Suona qualcosa, Jacques penso.
La mano accarezza le corde, ma sono note di pianoforte.
Alla fermata, un uomo e una donna si abbracciano. Forse si baciano. Aspettano il pullman, o il tram, o che qualcuno dica loro: non potete. Fare cosa chiederanno loro? Amarvi si sentiranno rispondere. Ridacchieranno e risponderanno è vero, siamo amanti. Se ne andranno.
Proteggiamo meno i nostri misteri canta la cicca di Jacques.
Oh, Jacques caro, ma quali misteri? Non li vedi, vestiti ma nudi, rotolare nella pioggia d’ottobre, mentre il sole d’agosto ancora non li ha lasciati? Le mani intrecciate e i capelli bagnati del catrame che li lega ai loro peccati. Se solo potessero dirsi addio, le carni e le anime di cui son fatti, queste danzerebbero fino a noi, sospese come il giudizio di chi ne ha troppo, e si farebbero ritrarre da te e dalle tue parole.
Ma a te non serve, Jacques. Tu che hai gli occhi ribaltati al contrario e che dentro di te vedono tutto quel che basta a vivere felici. Una scena allestita, un palco rialzato e il sipario che si apre.
Oh, Jacques, guardala! Lei che non conosce più il sapore dell’acqua e sta sdraiata ad aspettare. E quando ti avvicini e sei già pronto a carezzarla, e capisci che non è te che aspetta. Guarda fuori, Jacques, presto! Prima che i tuoi occhi piangano, prima che le tue lacrime anneghino il tuo stomaco, tu guarda fuori! E cerchiamo i due amanti, che loro sanno.
Oppure no, lasciamoli stare. A cosa serve chiedere, se già sappiamo? Cosa abbiamo da dire noi, io e te, se non parole spezzate di malinconia, se non frammenti di un mondo che nessuno riesce a vedere. Allora restiamo qui, Jacques, in silenzio. Restiamo qui, dietro questo vetro appannato e freddo, con quello che vorremmo dire e che non riusciamo. Restiamo qui, Jacques, con la chitarra e la sigaretta, e aspettiamo che fuori qualcosa accada.

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Ciao, Gianmaria

Gianmaria l’ho conosciuto tanti anni fa, durante un viaggio in macchina Torino – Catanzaro. Mio padre, appena partiti, mise un suo disco. Mi disse di ascoltare, che era un poeta. Io non gli diedi retta, un po’ perché per me gli unici poeti erano Baudelaire e Verlaine, un po’ perché era quel principio di adolescenza in cui non puoi fare a meno che contraddire.

Nel 2012 frequentavo la Scuola Holden. Era novembre e dovevo scegliere da una lista i workshop ai quali avrei voluto partecipare. Uno di questi aveva come docente Gianmaria Testa. Ricordai quel viaggio in macchina Torino – Catanzaro e quel disco che non avevo voluto ascoltare. Fu naturale spuntare quel nome e metterlo in cima alle mie preferenze.

Arrivò in aula con addosso una maglietta nera e in spalla l’immancabile custodia della chitarra. La posò per terra, come farebbe un qualsiasi artista di strada, e si presentò Io sono Gianmaria. Ciao, piacere, salve a tutti. Prese la chitarra e si adoperò per accordarla. Io non sono un insegnante, quindi questa non è una lezione. Ci guardò, eravamo una quindicina. Vi va se parliamo un po’? E’ necessario parlare, solo così si può imparare qualcosa. Non ho mai avuto l’occasione di stare nella stessa stanza con quindici scrittori. E’ un’opportunità.

Ci chiese di raccontargli di noi, uno per uno. Era interessato alle nostre esperienze, alle nostre storie, con indosso l’abitudine di raccontarle nelle sue canzoni. Volle sapere se qualcuno di noi suonasse. Sì? Tieni la chitarra, facci sentire qualcosa. E così sedeva tra noi e si faceva spettatore. Gli occhi chiusi, ascoltava col cuore. Applaudiva, incoraggiava, dava consigli. Io ero capotreno, non mollare.

Tirò fuori dalla tasca del cappotto un ep ancora nel cellofan. Questo me l’hanno mandato da ascoltare. Lo facciamo insieme, avete voglia? Mise su il disco. Era osceno. Lui non si scompose. Cercava ciò che vi fosse di buono. Alla fine si arrese e spense lo stereo. Vi va una sigaretta?

Gli chiedemmo di suonare qualcosa per noi. Disse di sì, felice. Eseguì Ventimila leghe e ce ne spiegò il significato. Bisogna insegnare ai bambini – perché questa è canzone per i bambini – che non si deve temere il diverso, che non bisogna credere a dei coglioni razzisti – è chiaro a chi mi riferisca, è nel titolo – che siamo tutti uguali. 

La lezione era finita. Lui non se n’era accorto, noi nemmeno. Beviamo qualcosa, vi va? Brindiamo a quest’esperienza che ho fatto oggi, all’avervi potuto conoscere. 
Tirò fuori dalla borsa delle bottiglie di vino rosso, dei bicchieri e dei grissini. Forza, ragazzi!

Ero in balcone con un amico che fumava. Lui ci raggiunse e tocco i nostri bicchieri col suo. Chiese da accendere, poi cominciammo a parlare di scrittura e di musica. Mi ascoltava e annuiva. Lo ascoltavo e annuivo. Quanti anni hai, Andrea? Venti. Mi studiò. Mi mise una mano sulla spalla e bevve un sorso di vino, guardando dritto davanti a sé. Feci lo stesso. Vuoi fare lo scrittore? Sì. Fai bene, servono dei buoni scrittori. Già. Continuammo a bere.

Come ultima cosa gli chiesi di autografarmi dei cd. Sono per papà, ti ho conosciuto grazie a lui. Sorrise. A Pino, con affetto. Gianmaria.

L’ho visto per l’ultima volta l’anno seguente. La vecchia Holden chiudeva e lui venne a suonare per dirle addio. Eravamo tutti attorno a lui, i bambini sdraiati sul pavimento, chiusi in una grossa aula. Lo ascoltammo tutti, quel poeta umile e generoso, mentre ci raccontava storie di uomini come noi, come lui.
Un bicchiere di rosso vi va? chiese, posata la chitarra.

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