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ABBIAMO TEMPO

OMAGGIO A BALTHUS

– Monsieur! Monsieur! Monsieur Sabél!
– Chi? Chi è?
– Monsieur Sabél, un’intervista per favore. “Le Figaro”, siamo “Le Figaro”.
– Oh, mon dieu! Non ci parlo con voi.
– Monsieur Sabél! Dove andate? Rallentate, vi prego!
– Cosa volete dalla mia misera vita?
– Un’intervista dal più grande artista di Parigi!
– Ma cosa volete capirne, voi, di arte!
– Sabél, s’il vous plaît…
-Senta: lei non è che un culo, ma un culo senza musica, eh!
– Monsieur?
– E salutatemi Gaston.

Monsieur Sabél non era un artista qualunque. Prima di tutto era un uomo, poi un ubriacone e solo dopo un pianista e pittore di nota fama. A Parigi tutti dicevano che era uno stravagante disadattato, ma qualcuno mormorava fosse anche un genio. Tra le voci che circolavano sul suo conto, quella riguardante la sua collezione di ombrelli era certamente la più curiosa. Pareva, infatti, che andasse comprando ombrelli di ogni tipo, anche a paia, ma nessuno gliene vide mai usare uno. “Ne ha a centinaia,” – diceva il proprietario di una boutique in St. Germain des Prés – “ e mica pregiati, eh! Madame, si fidi, quell’uomo è pazzo. Pazzo!”.

– E con questo fanno esattamente trecentotrentatre.
Monsieur Sabél chiuse dietro di sé la porta di legno massiccio che separava la camera da letto dal salone. Si affacciò alla finestra, osservando il passeggiare delle persone lungo il boulevard. Sbuffò e tirò le tende, nascondendo il proprio appartamento all’esterno. Sì portò sul divano e si sedette, poggiando le mani sulle ginocchia. Rimase a guardare per qualche secondo la tela sul cavalletto, di fronte a sé.
La sua attenzione venne distolta da un grosso gatto  nero che aveva individuato nelle sue cosce il posto perfetto per riposarsi.
–  Claude-Achille, pesi. Scendi.
Il gatto stese le zampe anteriori davanti a sé ed iniziò a fare le fusa.
– Non incanti un vecchio orso come me, lo sai bene. Dovrei metterti a dieta, majesté. Te e gli altri tuoi compari. Ne discuteremo questa sera a cena con Pablo, faglielo sapere.
Claude-Achille aprì un occhio giallognolo e sbadigliò. Poi si lecco la zampa sinistra e continuò a mormorare apprezzamenti a modo suo.
– Ho preso un altro ombrello, – disse – questo ha il manico in radica di ciliegio. L’ho chiuso insieme agli altri, ora sono trecentotrentatre. Forse non dovrei comprarne più, il tre non si ripeterebbe ancora. Dovrei arrivare a tremilatrecentotrentatre, ma sento di non avere abbastanza tempo. Mi sento stanco, Claude-Achille. Sì, lasciamo che restino così, pochi ma di perfetto numero. Ora spostati, devo cambiarmi.
Il gatto spalancò gli occhi quando si vide sospeso per aria e trattenne il fiato durante tutto il tragitto divano-cesta.

– Sai, amico mio, – prese a dire Monsieur Sabél, sfilandosi il pigiama – la gente è veramente stupida. Prima un ometto impertinente ha iniziato ad inseguirmi perché rilasciassi un’intervista a quel loro giornale, quello che da poco la moglie del ministro gli ha ammazzato il direttore. Se pensano che il mio nome serva ad intrattenere un gregge di bigotti, si sbagliano. Sono impazziti tutti, qua. Io non mi ci ritrovo più. Me li immagino, a parlottare dei miei ombrelli e a chiedersi cosa me ne faccia. Oppure ad indignarsi del mio uscire in pigiama. Che male c’è poi? Preferirebbero sfilassi nudo per Champs Elysées, forse? Avremmo dovuto andarcene, magari in Amérique.
Claude-Achille aveva assunto nella cesta la forma di una ciambella e poltriva rumorosamente.
– Stupido gatto. Forse avrei dovuto trovarmi una donna, altro che voi bestiacce.

Monsieur Sabél passò la serata a suonare il pianoforte per i suoi gatti, che restavano a sonnecchiare sul divano. Le note di Bach ed Haendel uscivano cupe dal mezza coda. Quando finì, si voltò verso il divano, ricevendo un cenno di assenso da Claude-Achille.
– Questi, cari miei, erano dei signori degni di essere chiamati così. Non come quegli artistelli da quattro soldi che suonano in quelle tristi serate di cabaret. I veri personaggi non verranno mai compresi dalle persone, ahimè.
Dopo aver bevuto un bicchiere di Bordeaux, Monsieur Sabél si sistemò, nel suo abito di velluto nero, sul divano e si addormentò con i suoi sette gatti.

– Quest’oggi, – disse – non aspettatemi per pranzo. Ho intenzione, infatti, di fare una lunga passeggiata lungo la Senna. Saltare un pasto, d’altronde, non potrebbe farvi che bene.
Messosi un pigiama blu, la bombetta ed il cappotto, uscì.

Camminando,  Monsieur Sabél si fermava spesso a guardare le foglie secche ai piedi degli alberi. Ogni tanto si chinava, ne raccoglieva una e la conservava tra le pagine di un libro che teneva sottobraccio. Da buon parigino era affezionato alla Senna, quasi quanto lo era alla sua solitudine. Sapeva di non essere in grado di relazionarsi con le altre persone, tanto ne era infastidito, quindi preferiva non forzare la mano e restare tranquillo. La vita era troppo breve per dedicare tempo agli altri; solo gli sciocchi potevano privarsi del proprio tempo così gratuitamente. Una donna, però, l’avrebbe voluta, ora che non era più così giovane. Era l’unica cosa che si rimproverava. Ma, ormai, come ripeteva sempre, si era abituato ad amare i suoi gatti e loro non avrebbero gradito l’essere spodestati.
Poco prima del tramonto si sentì in balia della stanchezza e decise di mettersi sulla via del ritorno.

– Claude-Achille, Pablo, venite a vedere quante belle foglie ho trovato.
I due gatti arrivarono veloci, stiracchiandosi.
– Penso siano perfette per la tela. Sono così entusiasta, finalmente sarà finita. Sarà rivoluzionaria. Ora vi faccio vedere.
L’uomo si avvicinò alla tela e tenne con le mani le foglie nei punti in cui avrebbero dovuto stare.
-Vedete? Non trovate sia finalmente completa?
I due gatti rimasero a fissare la tela: due cerchi di ragazzi e uomini che ballavano nudi, tinti di rosso acceso, al chiaro di luna, coperti da un ombrello aperto, incollato al dipinto, sul quale cadevano le foglie tenute della dita di Monsieur Sabél.
– Bella, vero? – incalzò l’uomo – ma la completerò domani, non bisogna mettersi fretta. Poi ora sento il mio corpo pervaso dalla stanchezza. Forse è meglio che mi metta a dormire.
I due gatti scesero dal divano miagolando e iniziarono a strusciarsi contro le gambe del padrone che, ridacchiando, si rese conto di non aver dato loro da mangiare dalla sera prima.
– Avete ragione, amici miei.
Mentre erano intenti a cibarsi, Monsieur Sabél si tolse il pigiama e si mise l’abito di velluto nero della sera prima. Riempì di vino il bicchiere e si mise sul divano.

Il sole era già alto da molto tempo e Claude-Achille e Pablo si cimentavano, insieme agli altri gatti, in una serie prolungata di miagolii dettati dalla fame. Si avvicinarono al divano ed il primo vi saltò sopra, assicurandosi di essere il più fastidioso possibile. Iniziò a camminare avanti indietro, poi salì sul petto di Monsieur Sabél e rimase fermo, acquattato. Non vedendo reazione, cominciò a mordicchiargli la folta barba grigia e i capelli mossi. Non vedendo reazione, guardò Pablo. Si accoccolò sul petto dell’uomo e sbadigliò. Pablo e gli altri gatti lo seguirono, accomodandosi lungo la figura.

“Lui e i gatti,” – diceva il proprietario di una boutique in St. Germain des Prés – “ tutti insieme, eh! Madame, si fidi, li hanno trovati tutti insieme sul divano”.

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L’UOMO E’ LIBERO!

Rimase a guardare il vecchio seduto alla sua tavola. Mangiava con foga, tanto da sporcarsi la barba col brodo. Il suo aspetto era tanto trascurato da impedirgli di capire con esattezza quanti anni avesse. Non era suo solito portare in casa degli sconosciuti, ma aveva temuto che se l’avesse lasciato fuori, gli sarebbe rimasto sulla coscienza quella notte. In fondo, quel gesto gli aveva riempito il cuore di orgoglio ed una certa eccitazione gli scuoteva il corpo. Il buon Signore non avrebbe che potuto essere fiero di lui, pensava.
– Gabriela, – urlò – il nostro ospite è con il piatto vuoto. Vieni a riempirlo!
Una donna corpulenta arrivò in gran spolvero dall’altra stanza, aggiustandosi la scollatura del vestito. Prese la pentola di coccio e riempì il piatto con tre mestolate abbondanti. Il vecchio le rivolse uno sguardo di gratitudine. Gabriela ricambiò con un sorriso imbarazzato e sedette  a una sedia in legno, nell’angolo più scuro della cucina.
Quando vide svuotarsi nuovamente il piatto, pensò fosse arrivato il momento di parlare con lui.
– Gradite ancora qualcosa? – chiese
– Va bene così, grazie – scosse la testa il vecchio – Siete stati già troppo gentili con me.
– Bisogna sempre aiutare chi è in difficoltà  – disse lei tornando a sparecchiare la tavola – Sicuro, niente più?
– Non voglio approfittare del vostro buon cuore – disse il vecchio, compiacendosi.
Abraham si alzò e andò ad un piccolo mobile in legno. Prese una vecchia pipa scolorita, dal becco nero, e tornò a sedersi, tenendo il proprio sguardo fisso sul vecchio – Perdonatemi, ma credo di non ricordare il vostro nome –
– Non ve lo ricordate –  ridacchiò l’uomo ripulendosi la barba – non lo ricordate perché non me l’avete chiesto – E senza aspettare risposta, riprese. – Mi chiamo Knulp Woyzeck.
– Io sono Abraham Albrecht. E lei è mia moglie.
Il vecchio piantava gli occhi  al tavolo.
– Allora, – riprese Abraham – da dove viene, signor Woyzeck?
– Per favore, sarò anche un povero vecchio, ma diamoci del tu. Non c’è alcuna distanza tra un cane affamato e la mano che lo ciba.
– Certamente – annuì Abraham con un piccolo imbarazzo.
– Lipsia, comunque.
– E’ una bella città? – lo interruppe Gabriela, intenta a cucire un vestito sgualcito.
– Un tempo. Un tempo lo era. – rispose rabbuiato –  Non ci torno da anni.
Abraham cambiò argomento.
–  E hai moglie e figli, Knulp?
– No! Dio me ne scampi!- rispose ridendo l’uomo – Le donne sono solo un’inutile scocciatura. Infami meretrici che ti succhiano via l’anima. E i figli sono ancora peggio! Inutili larve che credono di avere diritto a qualsiasi cosa. Mai una soddisfazione! Sempre in combutta con le loro stupide madri.
La coppia lo guardò in silenzio. Knulp cercò un tono più pacato – Mi dispiace, non volevo mancarvi di rispetto. Avete avuto così tanta premura della mia persona.
Abraham lo assecondò – Non preoccuparti. Ognuno è libero di pensarla come vuole.
– Vedo che anche in questa casa non ci sono marmocchi – riprese l’altro.
– Non abbiamo i soldi. E ci piacerebbero sì, ma non riusciremmo a mantenerli – rispose
– Che lavoro fai?
– Il taglialegna.
– Sano lavoro spaccaossa. Solo per veri uomini.
– Già. – disse Abraham, gonfiando il petto – Stavo appunto tornando, quando ti ho trovato delirante tra gli alberi che fiancheggiano il Lech.
– E fortuna che mi hai trovato!
– Cosa ci facevi da queste parti, Knulp?
– E’ una lunga storia.
– Domattina, domattina ce la racconterai.
– Certamente sì – disse Knulp, allargando le labbra in un sorriso sornione.
– Ora è tardi, è meglio andare a dormire. Gabriela ti preparerà la branda, qua in cucina.

L’hanno detto loro: sei hai bisogno, non esitare a svegliarci. E noi non abbiamo esitato. E noi avevamo bisogno, vero? Certo che è vero. Un bisogno irrefrenabile, l’esigenza di un bambino.
Ma loro sono stati tanto gentili con noi.
E noi con loro.
Menti.
No. Ti ricordi il pastore? Lui non era stato gentile con noi. E noi non siamo stati gentili con lui.
Hai ragione. Come sei saggio.
Devi fidarti di più di me.
La colpa era grande.
Enorme.
Contro la parola del Signore.
Lo nascondevano.
Non dovevano?
Non dovevano.
Lo dice Gesù?
Lo dice Gesù e lo dice Dio.
Dobbiamo pregare?
Chiedere perdono.
Padre, perdonaci, noi, umili peccatori e servi della tua volontà. Abbiamo fatto ciò che dovevamo. La morte non è giunta per mano nostra, ma per mano tua, santa e divina.
Se ne vergognavano.
Ed è sbagliato.
Due genitori così indegni.
Meglio non averli.
Come noi.
Sì. Come noi.

La prima luce del giorno si fece strada dalla finestra con le imposte rotte. Un unico fascio che si proiettava vicino al lavello, sui coltelli che lo riflettevano sulla parete. Knulp Woyzeck ascoltava i rumori che venivano dalla stanza da letto, contorcendosi sulla branda. Ricordò di quand’era piccolo e, a trovare sua madre, veniva il tamburmaggiore. Gli affidava i battenti e gli diceva di battere sulla grancassa più che potesse. Mentre Knulp iniziava a colpire la membrana di pelle dello strumento, l’uomo, sulla trentina, prendeva la mano della madre e la guidava verso la stanza da letto. Quando il soldato andava via e lui restava di nuovo solo con la donna, lei lo picchiava, dicendogli che era tutta colpa sua. Non capiva e restava fermo, a prendersi le botte, e a piangerle tutte fuori. Poi la madre, Johanna, si fermava e lo tirava a sé, stringendolo ai seni. Guardava fuori dalla finestra ed iniziava a recitare passi della Bibbia.
-“C’era una volta un povero bambino, che non aveva né padre né madre – tutti erano morti e non aveva nessuno al mondo, e moriva di fame e piangeva giorno e notte. E perché non aveva più nessuno al mondo…” . Stai ascoltando, Knulp?
– Sì, Abraham. Prego, Gabriela, procedi.
– Se ti annoi, possiamo smettere.
– Come ci si può stufare della sacra Bibbia? – chiese il vecchio sorridendo.
– Tu sei un uomo di fede, Knulp? – insistette il padrone di casa, sostenuto dallo sguardo curioso della moglie.
– Solo un pazzo può non seguire i precetti del nostro signore Gesù Cristo martire.
Gabriela tornò soddisfatta con la faccia sul libro.

Il coltello affonda nel collo e recide vene e capillari. Il sangue cola e schizza e si raggruma sulla vestaglia. Gli occhi sono spalancati dal terrore e cercano aiuto. Aiuto che, però, i cadaveri non possono dare. Abraham l’avrebbe difesa, se fosse toccato prima a lei. Ora stava sdraiato, le mani sul ventre aperto, a tenere le viscere.
– Devi morire, Johanna. Per tutto il male che hai fatto a quel povero bambino, devi chiedere scusa al signore Iddio.
– Gabriela – provava a sussurrare la donna con un filo di vita.
Knulp spingeva il coltello con entrambe le mani, poggiando le labbra a quelle della sua vittima.
– Ti amo, Johanna Christiane, ma devi morire.
Il peso della testa di Gabriela spinse il collo a piegarsi, finché orecchio e spalla non si toccarono.
Con la barba cremisi di sangue, il vecchio si girò a guardare il bambino che stava in piedi sulla porta, sbattendo le mani e saltando.
– Hai visto che bello? Non ci daranno più fastidio. Nessuno si vergognerà più di noi. Nessuno ci terrà più nascosti.
Il bambino si fermò e guardò il letto: l’uomo che si teneva le viscere e quello seduto sulla donna, che restava con il collo reciso e gocciolante. Per un attimo sembrò turbato e si strinse la piccola testa pelata tra le mani.
– No, no! – urlò Knulp, facendosi vicino al bambino – Non le ascoltare! Non ascoltare quello che ti dicono. Ascolta solo la voce di Dio e dei suoi angeli. Il diavolo tentatore caccialo fuori.
Il bambino cominciò a parlare da solo, dicendo frasi sconnesse e senza senso. Knulp lo strinse a sé, tenendogli la testa con le mani imbrattate di sangue.- Adesso vieni con me, o gli altri bambini verranno a cantarti che tua madre è morta.

– Ti piacciono le barbabietole? – chiese Gabriela.
– Non farti scrupoli, io mangio tutto – la rassicurò il vecchio.
– Abraham dovrebbe tornare a momenti.
– Tuo marito è proprio un brav’uomo.
– Ma Abraham non è mio marito! – disse la donna ridacchiando.
Knulp rimase attonito e guardò la donna.
– Noi non siamo sposati.
– Come mai? – il volto dell’uomo si irrigidì.
– Non c’è stata occasione, – minimizzò la donna – e poi il matrimonio impone dei vincoli dai quali, invece, io sono libera.
Gabriela si sistemò la scollatura, che lasciava vedere molto dei suoi seni prosperosi.

Poi è arrivato.
Sì, comparso.
Un bambino.
Debole.
Denutrito.
Pelato?
Senza capelli.
Come noi.
Sì.
Illegittimo.
Odiato.
Figlio di Satana.
O di dio?
Sì.
La vergogna.
Sulle sue labbra.
Johanna.
Christiane.
Come spiegarlo?
La vergogna.
Davanti a un vecchio.
Per l’amore di Dio.
Che è potente e misericordioso. Gli ultimi saranno i primi.
Caino uccise Abele e l’uomo conobbe l’omicidio.

–  Siamo molto dispiaciuti per l’inconveniente di oggi. Gabriela mi ha spiegato tutto.
– Non preoccupatevi.
– Vedi, Knulp, non volevamo ti spaventassi. Mats è un bambino… strano.
– Non preoccupatevi.
– Noi gli vogliamo tanto bene, ma è difficile con lui – aggiunse Gabriela.
– Posso ben capire.
Knulp sorrise.
– Ora è tardi, è meglio dormire. Se hai bisogno, non esitare a svegliarci.

Racconto incluso nell'antologia digitale del Premio Perelà. Download gratuito dell'ebook al link http://premioperela.blogspot.it/2013/07/on-road-o-in-spiaggia.html

Racconto incluso nell’antologia digitale del Premio Perelà.
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http://premioperela.blogspot.it/2013/07/on-road-o-in-spiaggia.html

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