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Reddito di cittadinanza

Ho notato una cosa, una cosa che mi piace poco e che è esplosa con la presunta vittoria del Movimento 5 stelle. Riguarda, ovviamente, il “reddito di cittadinanza” e quella enorme bufala che vi si nasconde dietro.
Da quello che ho capito – e potrei aver capito male – il “reddito di cittadinanza” è una sorta di assegno di disoccupazione che può essere erogato per circa un anno e che viene negato se il beneficiario, nell’arco di suddetto periodo, rifiuta tre offerte di lavoro avanzategli dal Centro per l’impiego. Non voglio soffermarmi sull’improbabilità di ricevere tre offerte di lavoro – e mi viene in mente il siparietto Porro-Bonafede – perché dovrei essere a conoscenza della durata minima del contratto proposto e di altri parametri che ignoro, così come tralascerò le questioni relative ai corsi di formazione e alle otto ore settimanali massime di impegno richiesto in progetti comunali.
Quello che mi interessa trattare riguarda le implicazioni sottintese da questo provvedimento, la concezione che ne hanno le persone – e il grosso degli elettori del Movimento – e le impressioni che ho avuto.
Un primo aspetto della questione è figlio di una costante che ho notato – e non solo io – durante tutta la campagna elettorale. E’ una caratteristica trasversale, che ha riguardato tutti i partiti politici, ed è una subliminale, tacita e implicita esclusione dalle parole “lavoro” e “crisi occupazionale” di tutti quegli impieghi che richiedono una persona laureata, una persona che, grazie a dei sacrifici, ha potuto specializzarsi in un preciso ambito, anche – e, forse, soprattutto – per poter aspirare a degli impieghi, se non più redditizi, almeno più gratificanti.
Quando io sento parlare di lavoro, invece, non colgo alcuna distinzione. “Ai nostri giovani manca il lavoro e bisogna fare qualcosa” si sente dire. La mia domanda, però, è: chi sono, questi nostri giovani? E quali sono, quindi, questi lavori? Stiamo maliziosamente ponendo su uno stesso livello – usando un criterio per nulla funzionale, quello dell’età – chi ha smesso di studiare in terza media e chi ha finito il proprio ciclo scolastico in un ITIS e chi ha continuato fino al raggiungimento di una laurea magistrale (o un master)? Mi sembra che la tendenza sia questa e, forse, il fatto che in Italia il livello di laureati sia molto basso è figlio anche di questo linguaggio fuorviante e, io credo, molto scorretto.
Questa è stata una delle grandi carenze che ho trovato nei programmi elettorali e nella comunicazione propagandistica, accompagnata da una generica riluttanza nel voler affrontare il tema dei “laureati” e di qualsiasi pianificazione di uno scenario lavorativo italiano che muti e si prepari ad accogliere quelle che ancora vengono definite “eccellenze” e che all’estero sono invece la normalità. I laureati non sono “cervelli”, sono normali cittadini con dei doveri e dei diritti, cittadini che hanno affinato le proprie competenze così da poter affrontare la realtà lavorativa che il secolo XXI ci propone.
Dicevo: quando si parla di lavoro e di occupazione giovanile, in Italia, ho sempre la percezione che ci si riferisca a lavori manuali, usuranti, lavori di un secolo passato e di un’epoca che è destinata a concludersi anche se vogliamo fingere che non sia così.
A questo punto entra in gioco il famoso “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 Stelle. Questa misura ignora totalmente i laureati e non fa altro che svilirne e umiliarne il percorso di studi e le scelte di vita. “Se in Italia non c’è una sufficiente offerta lavorativa per voi, non è un problema nostro: voi siete dei parassiti”. E’ questo che sottende questa misura. Se rifiuti tre lavori, tre lavori che non c’entrano nulla col tuo titolo accademico, tu sei un parassita, un ingrato. Sei un fannullone. E io i soldi non te li do più. Perché, parliamoci chiaro, il problema non deriva dall’assenza di una concreta discussione politica su questi temi, no, il problema è che i laureati sono troppo presuntuosi, troppo viziati per poter capire che per vivere – e questo sia chiaro – si devono pulire anche i cessi.
Questa mattina mi sono inserito in un paio di discussioni, qui su Facebook, che riguardavano proprio il “reddito di cittadinanza” e sono rimasto basito – ma dovevo aspettarmelo – nel leggere queste accuse dirette a chi, come me, rifiuta questa generalizzazione del mondo del lavoro; a chi, come me, non vorrebbe soldi dallo Stato, bensì una pianificazione fin qui assente e che sarà il grande dramma di questo secolo italiano.
C’è un divario, in Italia, ed è quello tra chi non ha studiato e chi ha studiato. Se, una volta, chi aveva un titolo accademico veniva encomiato e rispettosamente chiamato “professore”, adesso è soggetto a biasimo, a disprezzo, a disapprovazione.
In Italia continua ad affermarsi – e sempre più – la tendenza a livellare verso il basso, verso l’ignoranza, verso un’omologazione su bassi livelli. A cosa serve, di fatto, un titolo accademico, se a essere coltivata con cura è la generale presunzione del sapere tutto? A cosa serve affinare le conoscenze e i giudizi, se la presunta “tuttologia” è così diffusa, così comune, così radicata?
Mi sono sentito dare del fannullone e un po’ mi è spiaciuto. Mi è spiaciuto perché mi impegno in quello che faccio, ma anche per i miei genitori, che fanno dei sacrifici per farmi studiare.
Ho letto della rabbia, nelle parole che mi venivano rivolte, e questa rabbia, ne sono convinto, è alimentata proprio da coloro i quali, alle ultime elezioni politiche, si sono presentati agli elettori come santoni con il lume della verità in mano, pronti a donarne la fiammella a chi li avesse seguiti ciecamente e fedelmente.
Sono una persona che studia e, in quanto tale, un fannullone. Mi piace. Finirò per abituarmici.

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Petaloso: l’ennesima occasione persa dall’Italia.

Probabilmente conoscete tutti la vicenda legata al termine petaloso e trovo quindi superfluo rimarcare che sia un neologismo “nato” dalla fantasia di Matteo, un bambino di terza elementare.
Come sapete, Matteo ha scritto petaloso in un tema scolastico e la sua insegnante, Margherita Aurora, dopo averlo evidenziato come errore, ha pensato che potesse essere una parola adeguata per la lingua italiana e, di conseguenza, meritevole di fare parte del nostro vocabolario.
Margherita Aurora ha così deciso di far valutare petaloso all’Accademia della Crusca e, una volta ricevuto il responso, ha deciso di condividerlo su Facebook.
L’Accademia della Crusca ha osservato che petaloso sia un vocabolo ben composto e molto chiaro e, di conseguenza, potenzialmente utilizzabile nella lingua italiana. Solo potenzialmente, però: affinché un termine venga riconosciuto come membro del nostro patrimonio linguistico, deve essere largamente diffuso tra il popolo. Insomma: deve essere un termine popolare.
Ha così preso vita una mobilitazione del web finalizzata alla promozione di petaloso. Una causa che ha visto coinvolti numerosi cittadini, importanti multinazionali e persino il Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Questo, per il piccolo Matteo, deve proprio essere un sogno da cui non svegliarsi mai.

Qual è il problema, allora?
Il problema è che i sogni sono labili e il più delle volte tendono a degenerare in incubi. E’ esattamente quello che potrebbe accadere a Matteo e a petaloso, dopo che la sovraesposizione dei media – per una volta corretta, aggiungerei – ha sì reso di comune conoscenza la vicenda, ma, allo stesso tempo, l’ha costretta nello scoprire il fianco al cinismo fiacco e frustrato che popola internet.
Petaloso è stato preso di mira dagli internauti che non hanno esitato a trasformarlo nell’ennesimo fenomeno trash. Se da un lato è di facile deduzione lo sciacallaggio di numerose pagine Facebook, che non fanno altro che sfornare contenuti di infimo livello e che sono alla costante e perpetua ricerca di click da parte degli iscritti, dall’altro è ancora più agevole comprendere come gli stessi utenti agiscano con una cattiveria immotivata e gratuita, figlia dell’invidia e della sola capacità di non comprendere.
L’ignoranza – in Italia dilagante molto più che in altri stati dell’Unione Europa – impedisce di capire quanto petaloso sia non solo una speranza, ma soprattutto un’opportunità.

Innanzitutto l’insegnate andrebbe erta a emblema della buona scuola e contrapposta a tutto ciò che vi è di inadeguato all’interno dell’istituzione scolastica. Margherita Aurora ha dimostrato di non volersi limitare, come molte sue colleghe e colleghi, a bollare come errore una parola sbagliata. Al contrario, ha dato una lezione molto importante alla sua classe: un errore può essere trasformato in qualcosa di positivo e non sempre ciò che definiamo sbagliato lo è per forza. Margherita Aurora, incentivando Matteo, ha incoraggiato i suoi ragazzi a non essere degli studenti passivi e svogliati, ma parte della loro materia di studio: la cultura italiana.
Proseguendo, lo stesso Matteo, fatto tesoro di questa esperienza, potrebbe diventare un uomo che non sprecherà la propria vita davanti a uno schermo, senza avere la ratio per discernere ciò che non andrebbe mai e assolutamente toccato.
Forse Matteo, avendo una famiglia e dei docenti che lo incoraggiano, non si sentirà costretto a essere alternativo, a pensare che le persone intelligenti e furbe debbano per forza avere un pensiero alternativo e controcorrente. Forse Matteo si renderà conto che, prima di tutto, nella vita è necessario averlo un pensiero. Forse Matteo comprenderà che è dietro a un’iniziativa come quella della sua insegnante che si deve unire una Nazione, rivendicando la propria identità, e non dietro a vuoti slogan e luoghi comuni.

Quello che ho realizzato io in questi giorni passati in disparte a osservare, è che preferiamo un sistema scolastico che non funziona, che riempie di nulla le teste dei propri studenti; preferiamo degli insegnanti che si siedono dietro a una cattedra senza avere la più pallida idea di cosa voglia dire passione; preferiamo pensare che tutto ciò che vada oltre alle addizioni sia inutile nella vita comune, inutile per pagare le bollette; preferiamo sentirci superiori, metterci sempre in una posizione antagonista, credendoci cinici e furbi, senza capire che siamo figli del nulla che rappresentano gli anni zero; preferiamo parlare, sempre, senza avere cognizione di quello che diciamo.

Ecco perché credo che quella di petaloso sia l’ennesima buona occasione sprecata dal nostro Paese.
Ecco perché credo che quella di petaloso sia l’ennesima buona occasione sprecata da noi nuove generazioni.
Ecco perché io sostengo petaloso: perché avrei voluto trovarmici io, quindici anni fa, al posto di Matteo.

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La scuola che non funziona

Oggi stavo sistemando la mia libreria e, nello spostare alcuni volumi da una mensola, ho trovato una pila di vecchi numeri del giornalino scolastico per cui scrivevo al liceo.
Ho iniziato a sfogliarli distrattamente, finché non mi sono capitate tra le mani le fotocopie di un tema scolastico.
Incuriosito dalla consegna – “Un ministro ha recentemente affermato che di cultura non si mangia. Cosa ne pensi a riguardo? Argomenta la tua risposta.” – mi sono messo a leggerlo, ma la mia testa si è persa, vittima di un’epifania.

Era uno dei primi giorni nella mia nuova classe. Ripetevo il secondo anno di liceo scientifico, dopo una rocambolesca bocciatura di cui non mi sono mai vergognato e cui devo molto. Avevo deciso di rimanere nella stessa sezione: sperimentale in scienze + pni. Questo voleva dire avere più o meno gli stessi insegnanti.
Mi avevano assegnato un posto in ultima fila, nell’angolo. Non sarebbe stata facile.

La professoressa di italiano era diversa da quella che avevo avuto l’anno precedente. E’ una materia in cui sono sempre andato bene, con una certa predisposizione, ma qualcuno del corpo docenti confida ai colleghi che a scrivere sono proprio un incapace – e questa persona, oltre a non essere la mia insegnante di italiano, non aveva mai letto un mio tema.

La nuova professoressa di italiano assegna un compito da fare a casa: scrivere una pagina ispirandosi a “L’addio ai monti” de “I promessi sposi” di Manzoni. L’elaborato viene poi consegnato il giorno seguente per essere valutato.

Passata una settimana, la professoressa restituisce i temi con i rispettivi voti. Non aspettavo altro. Ero felicissimo e curioso di sapere come fossi andato.

Manca solo più il mio, ma l’insegnante, invece di consegnarmelo, mi chiede di alzarmi in piedi.
Io lo faccio, mentre i miei nuovi compagni, con i quali non c’era ancora stato tempo sufficiente per socializzare, si girano a guardarmi.

L’insegnante mi chiede da dove ho copiato il tema.
Io resto incredulo.
Mi rivolge nuovamente la domanda, calma, mentre lei e tutti i miei compagni mi guardano con sospetto.
Rispondo che non l’ho copiato, che l’ho scritto io.
Lei non ci crede.
Ripeto di non averlo copiato e inizio ad agitarmi e a non capire il perché di quell’accusa.
L’insegnante resta impassibile: non l’ho convinta.
Vado alla cattedra e recupero il tema: nessun voto.

Quando la mia testa è tornata al presente, ho sentito la stessa stretta allo stomaco di quel giorno; sono stato male così come lo ero stato quel giorno, quando ero un ragazzino di sedici anni che non capiva perché nessuno credesse che fosse in grado di scrivere un buon tema come quello.

Quel giorno ho capito che non sarei partito allo stesso livello degli altri, che per molto tempo sarei stato senza motivo la pecora nera, quello incapace di prendere un buon voto per proprio merito.

E ho imparato che se vieni bocciato, se sei un disastro in matematica, per molti di quelli che si occupano della tua formazione, di arricchirti, sarai un disastro in tutto, incapace persino di scrivere un buon tema. D’altronde, come per tutte le cose, in Italia non esiste il beneficio del dubbio: o innocenti, o colpevoli.

Questo è il tema incriminato:

Ed eccola là, la flotta che tanto lontano mi porterà dalla mia città. I miei occhi non potranno più soffermarsi sulle candide mani delle donne, intente a filare ai telai, né la serenità potrà impadronirsi della mia faccia, nel vedere i pastorelli guidare le greggi di pecore, su per le imponenti rocce dell’Attica. Resteranno sfocati ricordi, nel susseguirsi di uomini armati che passeranno davanti ai miei occhi, come un branco di cervi in fuga da un cacciatore, così incauto da aver attirato la loro attenzione. Non sarà più il tempio della pallade Atena, ove da bambini facevamo impazzire le nostre madri, assalendoci armati di legni d’ulivo, a farmi ombra … Bensì le alte e splendenti mura di Ilio, che dovremo abbattere per volere di un re ingordo di potere. Non saranno più le leggiadre fanciulle della mia gente ad allietarmi, la mia famiglia non sarà più meritevole di attenzione … lo sarà unicamente il mio corpo, protetto da un bronzeo scudo e da una tagliente lama. Non più i seni delle giovani ateniesi attireranno i miei sguardi, ma lo faranno le rozze forme dei dadi intenti a rotolare su di uno sgabello, accompagnati dalle imprecazioni degli avidi scommettitori. Il mio è un addio, perché so di non tornare. È un addio alle caldi estati che, per venti lunghi anni, hanno accompagnato la mia vita. È un addio ai visi dei miei genitori, ricchi d’amore e malinconia, perché, dopotutto, il destino di un figlio è perire in battaglia, assai prima dei suoi cari. È un addio alla bella Agave, che per prima assaporò le mie labbra e che sarà destinata a vedermi tornare sul mio scudo, o a non ritrovarmi affatto.

La partenza non è mai dolce ed ancor meno lo è se imposta da estranei, ma che importa? Cosa importa della mia morte o di quella di altri mille? Non siamo tutti destinati a morire? Non siamo destinati tutti a dare il nostro addio a questo mondo, in attesa che il traghettatore ci porti dai nostri padri? Cosa importa se oggi o domani … Terra natia, madre dei miei padri … io oggi ti dico addio e ti ringrazio per tutti i tuoi doni. Per la pioggia, pronta a coprire il mio volto straziato dalle lacrime. Per il sole, che sempre ha illuminato il suo sorriso. Per il cibo, di cui ho potuto nutrirmi e per la dimora che sempre ho avuto. Ti ricorderò, mentre la gelida lama si bagnerà del mio caldo sangue, affondando nella mia troppo giovane carne. Il calore del sole, sulle navi che mi porteranno al mio crepuscolo, non sarà mai così opprimente da farmi dimenticare di te. Né così devastante sarà la fatica da rematore. Né così malvagia, la morte che mi strapperà dalle tue braccia … addio …

 

 

 

 

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