Ho trascorso il primo giorno a casa davanti al televisore. Era un mercoledì. Mi sono svegliato alle sette, come sempre, per abitudine, e ci ho messo un po’ a far passare quel senso di urgenza che mi attanagliava ogni mattina. In silenzio, mi sono vestito per andare a lavoro pur sapendo che non sarei andato oltre la cucina. Volevo che qualcosa rimanesse invariato, quotidiano.
Ho caricato la moka e mi sono seduto ad aspettare che Aurora si svegliasse. Non ero abituato a quella calma. L’orologio scandiva un tempo che non mi apparteneva, di cui avevo solo il ricordo. Ho preso il cellulare e ho controllato i siti dei vari quotidiani. Il numero di infetti si era alzato e c’era stato un picco di morti. Sono andato in soggiorno e ho preso un libro per distrarmi. Sulla poltrona, ho iniziato a sfogliare le pagine di un vecchio saggio di Schlegel. Trovato il segno, mi sono sforzato di leggere; senza riuscire. Era un plico di pagine bianche. Ho guardato la copertina, poi il dorso. L’ho riposto. Ho preso dalla libreria un romanzo di Simenon, e il telecomando. Il volume era basso dalla sera precedente. Aurora aveva guardato un film, io ero andato a dormire che mi si togliesse dalla testa lo scarponcino in camoscio di Marco. Aurora mi ha chiesto di stare insieme, che mi avrebbe fatto bene. Ha sorriso, ma stare bene non era quello che volevo. Quanti anni aveva Marco, mi sono chiesto? Non morivano solo i vecchi?
Ogni canale aveva un giornalista, un medico e il suo contraddittorio. Quando il medico profetizzava che non sarebbe finita in fretta, la conduttrice lo interrompeva sorridendo e lanciava la pubblicità. Comparivano dei numeri, ci si chiedeva di donare a qualche istituto. Cambiavo canale, ma non c’era differenza tra uno studio e l’altro. A volte l’inquadratura si stringeva sulle labbra di un politico che elencava i doveri della classe dirigente e le proposte del suo partito. Bisognava collaborare, ma si provava a far cadere il governo. C’era chi si scusava coi cittadini, chi prometteva discontinuità, una nuova rotta. Più spesa, dicevano, e che l’Europa doveva ascoltare. Budapest ti sarebbe piaciuta, ho pensato. C’è una piazza, a Budapest, una piazza con un grosso monumento dedicato ai russi che avevano liberato la città dall’occupazione nazista. Gli abitanti non sapevano ancora cosa serbasse loro il futuro, della repressione, dei pogrom, delle fucilazioni. Quando il regime comunista cadde, i cittadini portarono fuori dalla città i monumenti eretti durante l’occupazione. Tutti tranne uno. Se avessero sgomberato la piazza di quel grosso monumento alla liberazione, in Russia ogni singola bara ungherese sarebbe stata scoperchiata e i morti sarebbero stati ammucchiati, forse a bruciare, forse a decomporsi. Gli ungheresi, messi alle strette, si limitarono a privare il monumento dell’illuminazione. Ricordo la mia mano in quella di Aurora, una notte sotto la pioggia, a guardarlo. La piazza buia, a eccezione di un piccolo rettangolo giallo, l’ufficio di qualche impiegato dell’ambasciata americana. Dietro al monumento, un bronzeo Ronald Reagan guardava verso casa, il passato alle spalle.
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza. Lo proclamava con le labbra contratte in una smorfia, i capelli tinti fermi in un riporto. Intorno agli occhi la pelle era più chiara, come se avesse dormito sotto al sole con una mascherina. Mi sono ricordato di averlo visto in un manifesto a Londra, anni prima, stretto in un bacio appassionato con il leader britannico euroscettico. Avevano poi vinto, la Gran Bretagna non sarebbe più stata Europa.
Il presidente degli Stati Uniti d’America non avrebbe limitato la libertà dei suoi cittadini per una banale influenza, proclamò, mentre i suoi funzionari trattavano in segreto con un’azienda tedesca per assicurarsi l’esclusiva sul futuro vaccino.
Ho sentito Aurora sbadigliare. Sono tornato in cucina e ho messo la moka sul fornello. Il fuoco basso, che il tempo non sarebbe mancato.
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Psicosi 3
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Psicosi 1
È successo tutto molto in fretta, in realtà. A guardare le strade vuote e silenziose, le serrande abbassate, le persiane chiuse, si potrebbe pensare a una situazione immutata da quanto, mesi? Anni? Invece sono bastati pochi giorni. All’inizio mi veniva in mente una sola parola: psicosi. Vorrei saperne dare la genesi, di questa parola. Genesi. È così biblico. Non lo è? Quello che sta accadendo, voglio dire.
Attraverso le fessure della veneziana guardo la fermata del pullman. Lo faccio soprattutto nelle ore di punta. O meglio, in quelle che lo erano. Cerco di immaginarla in un giorno di pioggia, con le persone che si stringono sotto la banchina, e il pullman che arriva sbuffando, stanco. Qualcuno non riesce a salire e rimane lì, sotto la tettoia gocciolante. Sono giorni che non c’è più nemmeno quel qualcuno.
Nessun rumore.
Lo dicevo ad Aurora qualche tempo fa. Le chiedevo se riuscisse a immaginare la città silenziosa, come una volta. Tra tanti anni, con le auto elettriche, pensavo. Ora non serve più immaginarla. Tutti direbbero che è tranquilla, ma io dico disturbante. Una sera, in televisione avevano parlato di una ricerca svedese sul rumore delle città. C’era una classifica. Quelle peggiori erano sempre le stesse. Torino mancava. Nessuno dice mai nulla su Torino. Comunque, i rumori insopportabili sono il martello pneumatico e gli schiamazzi, più dello stridio della forchetta sul piatto. Non ho letto il silenzio. Eppure è il rumore peggiore, ora lo so. Le città dovevano essere orribili, prima.
I telegiornali hanno sempre detto che la situazione era grave e che bisognava preoccuparsi, ma per i politici era tutto sotto controllo. A chi credere? Io e Aurora ci guardavamo, senza risposte.
Ogni mattina un uomo entrava in cortile con la bicicletta. Si fermava davanti ai bidoni della plastica e iniziava a frugare, smuovendo la spazzatura con uno stecco di ferro. Quando trovava qualcosa, lo esaminava e lo riponeva in una cassetta della frutta usata come portapacchi. Per anni ho spiato quell’uomo da dietro la tenda. Per anni ho desiderato che chiudessero a chiave il cancello, che non potesse più entrare, di urlargli dietro che il mio era un cortile rispettabile. Poi ha smesso di venire. Eppure non è cambiato niente: il cancello è ancora aperto e io sono ancora alla finestra. Lui, però, non l’ho più visto.
Prima, quando tutto era sotto controllo, andavo a lavoro con superbia. In metropolitana facevo le foto di nascosto a chi indossava la mascherina. Psicopatico, pensavo. Le mandavo ad Aurora e ridevamo. Stavo in mezzo agli altri passeggeri, fiero. Ero superiore.
Una mattina i vagoni erano vuoti. L’orario era quello di sempre. Ho provato disagio. Non sono sceso, non mi sono presentato a lavoro. Sono andato fino al capolinea, e poi indietro. Seduto, guardavo il mio riflesso viaggiare nel tunnel illuminato della metropolitana. Per la prima volta in dieci anni mi sono accorto che quando il treno si ferma, le porte del vagone non combaciano con quelle della stazione. Mi sono chiesto se dovesse essere così.
Mi sono accorto anche dei cinesi, di quanti fossero, del fatto che non stessero a casa. Vederli con le mascherine mi infastidiva. Ero dispiaciuto che i loro ristoranti stessero chiudendo, che non ci fossero clienti ai tavoli, ma preferivo non averli in metropolitana. Perché non si mettevano in quarantena? Era più sicuro. Per loro, intendo. Se ne saliva uno, mi allontanavo. Pensavo sarebbe stato meglio per loro stare in quarantena. Alcuni erano stati aggrediti. Non era più sicura, la quarantena? Non farsi vedere per un po’, far calmare le acque. Per buon senso, ecco.
Col passare dei giorni non è cambiato molto. I vagoni erano deserti. Gli unici passeggeri si appoggiavano a grossi trolley. Scendevano tutti a Porta Nuova e nessuno saliva.
A casa lo dicevo ad Aurora. Quando rientravo, la trovavo sdraiata a letto, il laptop sulle cosce nude. Lei non doveva andare in ufficio, le bastava il computer. Non aveva molto da raccontarmi. Niente aneddoti sui colleghi, o sul capo. Non le piaceva lavorare così. Aveva bisogno di uscire, di tornare tardi e vedere un rifugio nella nostra casa. Così era un posto come un altro, diceva. Tutto uguale, pensavo io, cambiandomi.
Cucinando, guardavo dalla finestra le strade deserte. Dalla televisione qualcuno ammoniva di non assaltare i supermercati, che le scorte non sarebbero finite. Ci abbiamo creduto.
In una trasmissione, un politico emaciato stava contraddicendo un medico. Non c’era da preoccuparsi, non dovevamo cambiare stile di vita. Lavarci le mani un po’ di più, nient’altro. Un’influenza, diceva. È solo una brutta influenza. Abbiamo spento e lasciato i piatti sporchi nel lavello. Abbiamo fatto sesso con i vestiti ancora addosso.
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Quo vadis?
I
“Ho bisogno di un biglietto per Torino” disse l’uomo. Indossava un completo nero; sotto una camicia bianca di Sea Island, chiusa fino al colletto, stretto da una cravatta azzurra, con una fantasia a righe blu scuro. Dall’altra parte dello sportello una ragazza minuta prese a controllare sullo schermo del suo computer. Quando non digitava sulla tastiera, la mano destra accarezzava i capelli scuri, seguendone la lunghezza fino alle spalle, sulle quali ricadevano ordinati.
“Il primo treno parte alle diciannove e quindici” disse la ragazza alzando gli occhi sull’uomo. Questi fece “sì” con la testa, prima di spostare lo sguardo sul tabellone elettronico delle partenze. Per un attimo si chiese se fosse necessario tornare a Torino. Avrebbe potuto andare ovunque, o non partire affatto. Cominciò a pensare che stava reagendo in maniera spropositata; che in fondo non era successo nulla.
“Immagino lei preferisca un posto in Business Class” disse la ragazza.
“Preferisco l’economica” disse l’uomo.
La ragazza lo guardò.
“Sono trentotto euro.”
L’uomo sfilò dal portafoglio una banconota da cinquanta e gliela porse.
“Voleva anche il ritorno?”
“Non credo. No. Grazie” disse. Aspettò che la ragazza stampasse il biglietto, poi si allontanò.
Decise di andare alla banchina, anche se in anticipo di due ore. Il tabellone delle partenze indicava solo la destinazione e l’orario: era troppo presto perché informasse anche sul numero del binario. Lui, però, si diresse deciso al nove. Sapeva che il treno sarebbe passato da lì. Tutte le volte che era andato in stazione convinto di partire e tornare a casa, prima che gli venisse a mancare il coraggio e rinunciasse, aveva visto che quel treno si sarebbe fermato a quel binario.
Si sedette a una delle panchine e tirò fuori dalla tasca destra della giacca una busta da lettera piegata in due. Chiuse gli occhi, mentre ne percorreva la superficie con le dita. Ripensò alla prima volta che la prese in mano. Era in casa e stava lavorando nel suo studio, quando sentì il citofono suonare. Pensò fosse pubblicità – anche se accanto al portone una targhetta d’ottone informava che i condomini non desideravano riceverla – e rimase chino sul proprio lavoro. Quando suonarono una seconda volta, però, si decise a rispondere. Mentre aspettava l’ascensore, si chiese cosa avrebbe potuto consegnargli il postino: acquisti per corrispondenza non ne aveva fatti, quindi perché farlo scendere a firmare la ricevuta?
Il postino era un uomo sulla quarantina. Era basso, panciuto, con un cappellino giallo sulla testa, a coprirne le stempiature.
“Lei è il signor Borioso?” chiese.
“Sì.”
“C’è una lettera per lei, una raccomandata con ricevuta di ritorno.” disse “Mi deve mettere una firma qua”.
Porse all’uomo la lettera, poi mise una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e ne tirò fuori un piccolo computer palmare.
“Scusi, dove devo firmare?” chiese l’uomo.
“Qua” ripeté e indico lo schermo.
Il signor Borioso guardò il postino raggiungere la propria vettura con passi corti e veloci, poi rimase fermo nell’androne del palazzo con la lettera in mano. Sopra c’era il suo indirizzo, in piccolo, e una grossa scritta a inchiostro blu, di chiara calligrafia femminile, che diceva “Per Iso”. Passò tutta la superficie della busta con l’indice e il medio della mano destra, seguendone le increspature filacciose. Aveva ricevuto altre volte lettere in carta di riso, ma erano passati ormai anni. Serrò la mascella e tornò in casa, pensieroso.
L’altoparlante annunciò un ritardo con seguenti scuse verso gli utenti e questo distrasse l’uomo dai suoi pensieri. Ma solo per un momento. Il fastidio che aveva provato quando aveva aperto la lettera, una volta tornato nel suo studio, non si era ancora consumato, nonostante fossero passati sei giorni. Si chiese allora se stesse facendo la cosa giusta: in fondo perché era là? Che motivo aveva di tornare a Torino?
II
“Lucia si sposa,” pensò “Lucia si sposa.”
Quand’era rientrato in casa, dopo che il postino gli aveva consegnato la lettera, e lui l’aveva aperta, s’era sentito mancare. Un invito al suo matrimonio. Ma con chi poi? Perché? E soprattutto non poteva lasciarlo in pace? La lettera diceva pressappoco “Saremmo felici se tu venissi al nostro matrimonio domenica venticinque marzo. Fabrizio e Lucia.” Un biglietto prestampato. Non gli sembrava possibile. Eppure -se lo ricordava – si erano promessi di sposarsi. Sotto il noce, in quel pomeriggio autunnale. Lei si era stretta a lui, aveva lasciato che la baciasse e poi gli aveva promesso che lui sarebbe stato suo marito.
L’altoparlante avvisò della partenza del treno.
A un’ora dall’arrivo lo scompartimento non si era ancora riempito. I due posti accanto a Iso erano liberi. Davanti a lui un uomo stava dormendo, la testa reclinata indietro e la bocca socchiusa. Aveva un maglione blu scuro, dei jeans che calzavano un po’ larghi e un paio di scarpe da ginnastica. Accanto a lui un bambino di otto – nove anni continuava a chiedere alla madre il telefono cellulare. All’ennesimo tentativo, questa si arrese e il bambino iniziò a premere il pollice su vari punti dello schermo del telefonino. Dopo qualche minuto lo restituì alla donna e prese a muoversi su e giù per il sedile in velluto sgualcito, scivolando fino al pavimento verdognolo. La madre continuava a dirgli di stare fermo, guardandosi attorno imbarazzata.
“Tirati su” disse. “Subito.”
Il bambino la ignorò, ma si fermò comunque. Prese a ispezionare Iso, affascinato dal suo completo nero. Iso guardò il bambino e poi la madre, che arrossì. Si soffermò sul seno, messo in risalto da un’abbondante scollatura. La maglietta scendeva sui fianchi aderendovi, lasciando scoperta parte della pancia. I pantaloni di velluto nero erano attillati alle gambe magre della donna e scomparivano dentro a un paio di stivaletti in pelle senza tacco. Iso pensò che non potesse avere più di trentacinque anni. Alzò lo sguardo fino ad incontrarne gli occhi: erano castani con delle scintille di nero. Lei si voltò a destra, verso il corridoio, e accavallò le gambe con fare provocante. Iso guardò il bambino, che adesso era seduto composto con la testa ciondolante in avanti, poi si alzò ed uscì dallo scompartimento, poggiandosi con la schiena al finestrino del corridoio. Si portò le mani al collo e strinse il nodo della cravatta, tirando in fuori il petto. La donna lo seguì, gli si fermò davanti e proseguì. Il suo modo di camminare, un piede davanti all’altro, scaldò il sangue dell’uomo che, dopo aver chiuso la porta dello scompartimento, le si fece dietro.
Bussò ai servizi.
“Occupato” disse la donna.
“Sono io” rispose Iso.
La porta si aprì ed entrò, noncurante che qualcuno potesse vederlo.
La donna si accese una sigaretta.“Fumi?” chiese.
“Ho smesso.”
Lei gliene porse una e lui se la portò alla bocca.
“Tuo figlio è rimasto da solo con quel vecchio” disse.
“Non gli succederà niente, per cinque minuti.”
“Sei sposata?”
“Ci stiamo separando” disse stringendosi il braccio sinistro sotto il seno.
“Tu sei sposato?”
“No.”
Lei lo guardò per un attimo, speranzosa, poi butto la sigaretta nel gabinetto. Gli si avvicinò e gli prese la testa tra le mani, carezzandogli le guance.
III
Quando la donna uscì, Iso si appoggiò con le mani sul lavandino e si protese in avanti, quasi a sfiorare lo specchio con il naso. Si guardò negli occhi. Erano verdi, piccoli, due fessure. Li chiuse. Rimase fermo e pensò a Lucia e al suo matrimonio. Si chiese se avrebbe potuto cambiare le cose e se lei lo amasse ancora, nonostante fossero passati così tanti anni, nonostante l’avesse abbandonata. Le immagini di quel giorno gli tornarono in mente, vive. Il sole di agosto, l’odore dei mobili in mogano di casa sua, le lacrime di sua madre e le spalle di suo padre.
Riaprì gli occhi e si sciacquò la faccia, poi uscì.
Trovò lo scompartimento vuoto. Un senso di delusione lo strinse. Sperava di ritrovare la donna e di poter continuare a giocare con la sua complicità, ma poi pensò che fosse meglio così, che di lei rimanesse solo un ricordo pronto a sbiadire.
Si sedette vicino al finestrino e guardò fuori, cercando di capire quanta strada ancora lo tenesse lontano dalla sua Lucia. Ricordò il suo viaggio di sola andata per Bologna. Il treno era pieno si ritrovò in piedi nel corridoio, a terra il suo borsone con dentro lo stretto indispensabile. Aveva avuto poco tempo per riempirlo, mentre sua madre continuava a urlare e tirarlo per un braccio, nel tentativo di fargli cambiare idea. Ma lui aveva già preso la sua decisione, il bisogno di uscire da quella casa e di lasciare Torino era troppo forte. Suo padre rimase in soggiorno a leggere il giornale, senza mai degnarlo di uno sguardo.
I suoi pensieri vennero interrotti dalla donna che si precipitò nello scompartimento.
“Mio figlio è sparito” disse sgomenta.
Iso esitò qualche istante, poi si alzò e si avvicinò alla donna.
“Quando sono tornata,” riprese lei “qui non c’era più nessuno. Ho fatto il giro di tutti gli scompartimenti, ma niente.”
La donna scoppiò a piangere e si lasciò andare tra le braccia di Iso che iniziò a sentirsi un po’ in imbarazzo, non tanto per la situazione in sé, quanto per l’idea che si stava facendo strada nella sua testa e cioè di essere colpevole della scomparsa del bambino. Come aveva fatto a lasciare che il suo egoismo e i suoi istinti prendessero il sopravvento sul buon senso? E lei, questa donna che stava sfruttando solo una nuova occasione per stringersi al suo corpo, che razza di madre era?
L’allontanò e le chiese se fosse andata dal controllore. La donna fece no con la testa. Iso uscì sul corridoio e si guardò attorno. Non c’era nessuno, al di fuori di un ragazzo che gesticolava animatamente durante una telefonata.
“Vieni,” disse alla donna “muoviti.”
“Cristina. Mi chiamo Cristina” rispose lei, asciugandosi gli occhi.
Iso non le rispose e si diresse verso la fine del vagone. Lei gli stava appena dietro e lo guardava.
“Non mi hai detto come ti chiami.”
“No” rispose Iso, senza voltarsi.
Cristina gli prese il braccio per farlo fermare.
“Smettila.”
Iso fece finta di niente.
“Ma cosa credi, che sia un oggetto? Finché dovevi divertirti, tutto sorrisi e attenzioni, e adesso che non ti servo più mi tratti come se fossi una puttana.”
“Sto cercando tuo figlio” rispose Iso senza scomporsi.
“Solo perché ti senti in colpa.”
Iso si fermò.
“Li conosco quelli come te. Quelli che muovono il culo solo per il proprio interesse. Ora ti senti in colpa e hai bisogno di levare questa macchiolina dalla tua coscienza. Ma ti dico una cosa, tesoro: sei così sporco che non cambierà niente. Ma tu ti sentirai felice, certo. Penserai di essere una brava persona. Ma non lo sei, credimi. Non lo sei.
Iso si girò bruscamente e la donna si sentì intimorita. La guardò negli occhi, ma lei abbassò lo sguardo. Rimasero così, fermi, in silenzio.
“Mamma.”
Iso e Cristina si voltarono. Davanti a loro, stava in piedi il bambino, tenuto per mano da un controllore.
“E’ lei la tua mamma?” gli chiese l’uomo.
Il bambino annuì. La donna andò ad abbracciarlo e scoppiò a piangere.
Il controllore le spiegò che il vecchio dello scompartimento doveva scendere e, non volendo lasciare da solo il bambino, vedendolo passare, aveva pensato di lasciarglielo in custodia. Di non preoccuparsi, che non era successo niente.
Cristina lo ringraziò e, preso per mano il bambino, fece per tornare allo scompartimento.
Quando gli passò accanto, Iso le sussurrò che doveva scendere.
Lei non lo guardò nemmeno e Iso la seguì con lo sguardo, finché la porta del vagone non le si chiuse alle spalle.
Si appoggiò con la testa al finestrino, stanco, e sospirò.
IV
Esistono due tipi di uomini: quelli che vivono per il futuro e quelli che vivono nel passato.
Con la mano già sul portellone, Iso provò a ricordarsi il sapore dell’aria di Torino. Chiuse gli occhi e inspirò, ignorando l’acredine del vagone. Per un attimo si vide bambino, con il pallone in mano e il fiume alle spalle e gli uomini sdraiati a dorso nudo sull’erba del parco, ad accarezzare i capelli delle loro donne; poi ragazzo, i portici di via Po a proteggere il suo amore per Lucia; infine uomo, l’aria pesante della città a spingerlo sul treno per Bologna.
L’emozione lo colse e decise di abbandonarsi al flusso di passeggeri che lo trascinò fuori dal treno.
Ma il passato è un biglietto di sola andata e questo Iso lo capì solo quando ad accoglierlo fu una stazione sotterranea, ai muri i cartelli che vietavano di fumare, e quell’odore che appartiene solo al progresso, a chi ti ricorda che non hai scampo.
Fuori, la luna aveva già abbracciato Torino. Quella stessa luna che era l’unica cosa di familiare riuscisse a vedere. Un tassista gli fece un cenno, pronto a sacrificarsi per un’ultima corsa. Confortato dal rifiuto di Iso, rientrò nel suo taxi e partì, le luci ancora spente. Iso lo guardò allontanarsi, prima di incamminarsi in direzione opposta. Si ricordava di un albergo del centro. Per quella notte sarebbe andato bene, il giorno dopo sarebbe tornato a casa.
Incrociò lo sguardo di Lucifero, l’angelo che sormontava il gruppo statuario di piazza Statuto. Si diceva controllasse l’ingresso dell’Inferno. Se lo lasciò alle spalle e imboccò una via Garibaldi stranamente deserta e buia. Le serrande dei negozi erano abbassate, eccetto quella di un piccolo bar-tabacchi, che illuminava uno scorcio di strada. Sotto i riflettori, un tavolino in ferro battuto e due sedie di plastica bianca. Si ricordò delle mattinate passate nei dehor dei bar a fumare, provando a leggere le storie scritte nei libri ingialliti e nei movimenti delle persone che scorrevano veloci davanti ai suoi occhi.
Decise di sedersi, ma in quel momento non aveva con sé né libri, né sigarette, né, tantomeno, c’era passaggio. Ordinò comunque un caffè e un pacchetto di leggere. Il sapore di tabacco trovò terreno lasciato fertile dal gusto forte del caffè e Iso si chiese come avesse fatto a privarsi di quel piacere per così tanti anni. Era a metà della terza sigaretta, quando il barista gli fece capire che stavano chiudendo. Iso la spense e si affrettò a pagare.
L’albergo era come lo ricordava: il portone rotto e la luce delle scale, debole, ammiccava con complicità ai pochi avventori.
Un uomo ubriaco dondolava, poggiato al bancone della reception, mentre una donna minuta, ma grassottella, sfogliava le pagine bianche del registro. Aveva i capelli corti e stinti e gli occhi di chi non ha più nulla da vedere.
– Vuoi una camera, tesoro? – chiese annoiata.
La voce della donna, poco più del ronzio prodotto dalle pale del lampadario, sembrò turbare l’ubriaco che, seppur con fatica, si voltò verso Iso. Un movimento macchinoso e speculare a quello del piccolo ventilatore da tavolo alle sue spalle. In quella stanza tutto pareva immobile, opera di uno scultore alle prime armi. L’aria stessa, pigra, restava indifferente alle pale e al ventilatore. Non c’era alcun motivo di muoversi.
– Se ne ha ancora una libera – rispose Iso.
– Prova con la tre, tesoro. La chiave è alla porta, tesoro.
Gli fece scivolare davanti il registro.
– Se aspetti qualcuno, tesoro, basta la tua firma.
– Nessuno, non aspetto nessuno.
– Vuoi un po’ di compagnia, tesoro? – chiese sporgendosi sul bancone.
– No, grazie – rispose Iso.
La donna rimase così, con gli abbondanti seni schiacciati contro il piano di legno scolorito.
– Offre la casa – disse l’ubriaco, senza muovere gli occhi dalla scollatura della donna. Questa rise di un sorriso di femmina.
Iso declinò ancora l’offerta e si diresse verso la stanza numero tre, lasciandosi alle spalle la profanità di quello strano presepe.
La chiave riposava nella toppa, impolverata, e brontolò non poco, prima di rassegnarsi al volere di Iso. La stanza era piccola e l’unica fonte di luce era una abat-jour che, più che illuminare, proiettava ombre sul grosso armadio della parete opposta. Al vetro della finestra era attaccato un foglio strappato, con la parolarottadi un nero sbiadito. Il letto era una branda verde, più corta del materasso che ospitava. Isò aprì l’anta dell’armadio a vi trovò coperte e lenzuola. L’unica traccia del cuscino era una federa sgualcita. Tornò alla reception con l’intenzione di cambiare stanza, ma non vi trovò né la donna, né l’ubriaco. Rassegnato, si mise la chiave in tasca e scese in strada. Era digiuno dalla sera precedente. Si ricordava di un locale vicino, con una bicicletta disegnata sull’insegna. Da ragazzo ci passava le serate.
Lo trovò con facilità, così come lo ricordava. Sbirciò dalla finestra se ci fosse un tavolo libero. Stava per entrare, quando la porta si aprì e la sorpresa lo bloccò, il braccio ancora per aria.
V
Iso sta scendendo in metropolitana, la stazione è quella del Lingotto. L’ha raggiunta dopo dieci fermate di pullman che potevano essere una sola. Ormai ha perso anche la cognizione del tempo. Gli rimane quella del luogo, del dove, ma non può sapere per quanto. Tutto quello che sa, che riesce a percepire, è che la sua testa si svuota sempre di più e ogni pensiero, ogni capacità logica, qualsiasi ragionamento, deve arrendersi davanti al rapido e sconsiderato avanzare di quella domanda composta da un’unica parola: perché? Già, perché Lucia gli ha fatto questo? Se solo avesse un briciolo di lucidità, si interrogherebbe sulla causa. Se solo avesse un briciolo di autostima, non continuerebbe a dirsi che è tutta colpa sua, che ad avere sbagliato qualcosa è stato lui. Eppure, si fidava di lei. L’errore, forse, è stato questo.
Iso sta scendendo in metropolitana, gradino dopo gradino, quando si sente afferrare il braccio. E’ una stretta salda, ma gentile. La stretta di un amico. Per poco non cade e tutto quello che è in grado di fare è balbettare parole. E tra queste c’è anche il nome di lui, Valerio, che un po’ come se fosse stato messo lì da qualcuno, gli restituisce uno sguardo severo e una frase che Iso ancora ricorda.
– Non esistono problemi grandi, ma solo uomini piccoli – ha la prontezza di dire Iso.
Questa volta è Valerio a rimanere disorientato, la mano ancora sulla maniglia, a tenere aperta la porta. Indossa una polo grigia e ha mantenuto un fisico asciutto. Si è fatto crescere la barba, ma la tiene curata, e i capelli neri si sono ritirati fino a lasciare una stempiatura che gli dà l’aria dell’uomo maturo. Dimostra esattamente l’età che ha: trentacinque anni. Né più, né meno.
Ci vuole qualche istante prima che riconosca Iso nell’uomo che gli sta davanti; poi si lascia andare in un abbraccio sincero, più da fratello che da amico. Lo invita a entrare e lo fa accomodare al bancone, come fosse suo ospite. Ma non gli si siede accanto, no. Aggira il bancone e si mette dall’altro lato. Prende un bicchiere, lo riempie, e glielo posa davanti.
– Offre la casa – dice, mentre riempie anche il suo.
Con un cenno richiama l’attenzione di un ragazzetto con il grembiule.
– Sono un con amico, – dice indicando Iso – sta’ un po’ al bancone.
Il ragazzetto annuisce.
Tocca il bicchiere di Iso, che ancora non si era brindato.
– Andiamo fuori, che si sta facendo ressa.
In principio c’è bisogno di tempo. Per quanto l’affetto sia profondo, sentono l’esigenza di argomenti da poco. Si comincia dalla sigaretta offerta – fumi ancora? – e si continua col locale. Che Valerio, quel pub in cui ci passavano le serate e che poi gli ha dato lavoro come cameriere, alla fine se l’è comprato. Si giustifica dicendo che gli piace avere le persone intorno e poterne leggere le storie nei movimenti. Dice che ne ha viste storie diventare un tutt’uno, là dentro. E lui? La ragazza ce l’ha, ma non si vogliono sposare.
– Alla fine che cambia? Nulla, no? – domanda a birra quasi finita.
Iso abbassa la testa. Sono seduti di fronte al locale, sul gradino di un negozio, le schiene poggiate a una serranda che sembra lamentarsene a ogni cigolio. Intorno a loro, ragazzi troppo piccoli si fingono uomini per una notte. Tutti uguali. Persino la voce di uno sembra uguale a quella dell’altro. Le ragazze mostrano le proprie nudità in nome di un’emancipazione ormai tradita.
– Sono tutti così, Iso. Alla loro età, io manco uscivo la sera.
Lo dice con la consapevolezza di aver pronunciato il falso.
– Lucia si sposa – dice Iso.
E’ in quel momento che tutto pare riempirsi del silenzio. Le stesse voci di strada sembrano abbassarsi, consapevoli che ormai si è fatto tardi, che la città è stanca e vuole dormire. Così ogni discussione diventa un sussurro e le strade cedono il posto al più totale immobilismo.
Immobile è anche Valerio, che non sa bene cosa dire. Quando per anni non hai notizie di un caro amico e poi te lo ritrovi davanti, desideri sempre che sia tutto come un tempo, che nulla sia cambiato di un dettaglio. Ma sono quei pensieri fittizi, figli della consapevolezza che siano situazioni non reali. Ma non questa volta. L’impressione è diventata certezza e ora è sicuro che Iso non sia cambiato. Forse è cresciuto, forse è invecchiato. Ma è rimasto lo stesso, è ancora un ragazzo. Un ragazzo che è scappato perché incapace di reggere una delusione, così egoista da non tornare nemmeno per il funerale del fratello. Non è bastato un morto suicida, ma un matrimonio sì. E Valerio glielo dice, non ha problemi. Lo dice con quella pacatezza che rende ogni parola efficace, una lama mascherata da carezza.
Iso non è mai stato capace di replicargli. Ha sempre recepito le sue parole come quelle di un padre cui obbedire incondizionatamente.
Ed è così che si salutano, alla chiusura del locale; come Iso si era salutato con suo padre, prima di partire. Con quella consapevolezza che spesso volersi bene non è abbastanza e che quella persona non la rivedrai più.
VI
Rientra in albergo che non è nemmeno più ora di dormire. Il bancone che fa da reception è orfano della donna minuta e grassottella. La porta numero 3, ancora intorpidita dal sonno, fa un po’ di capricci prima di aprirsi; quando decide di cedere, sbadiglia un cigolio.
Iso si lascia cadere sul letto con ancora le scarpe addosso. Anche se fuori il cielo sta schiarendo, lui ha bisogno di dormire, di chiudere formalmente quella giornata.
Il tonfo di una corda lasciata srotolarsi nel vuoto gli fa spalancare gli occhi. A pochi centimetri dalla sua faccia, le suole lucide di due scarpe da uomo. Sono da completo, con i tacchi ancora inviolati dall’usura. Oscillano descrivendo prima dei cerchi, poi degli ovali e, infine, delle ellissi. E così al contrario, per tornare dei cerchi. Iso ne segue il moto per qualche ciclo, prima di andare oltre. E oltre ci sono dei pantaloni neri con l’orlo curato e preciso, stretti alla vita da una cintura in pelle che ha il riguardo di non fare grinze. Senza pieghe è anche la camicia bianca di lino che, da dentro ai pantaloni, culmina in un colletto abbottonato e stretto da una cravatta scura, intonata con la giacca che segue ed esalta le forme del busto. Unica cosa stonata, e Iso l’ha pensato più di una volta, sono gli occhiali da sole. Dopo qualche istante decide di alzarsi e sfilarli.
L’ultima volta che aveva guardato negli occhi suo fratello, lui gli aveva negato un abbraccio. Li distanziavano pochi passi, ma era stata la rigidità delle pose a sancire la rottura del patto di sangue che Dio aveva stipulato facendoli nascere dalla stessa madre.
Ora che lo fissava, ritrovava lo stesso sguardo fermo. Suo fratello non aveva mai esitato in vita ed era sicuro non lo avesse fatto neanche nell’atto di ripudiarla. Anzi, era proprio nel rifiuto che acquisiva la sicurezza che da sempre li aveva distinti. Anche in quel momento, lui vivo e lui morto, era Iso a esitare. Allungò una mano verso le guance asciutte che gli stavano di fronte e, tremando, si impegnò di riscoprirne la cute. Era imperfetta come la ricordava, al pari di quella di un ragazzino che non è ancora in grado di nasconderla con la barba. Faticava a mantenere quel contatto e cercava incoraggiamento negli occhi scuri di lui, senza ricevere nulla in cambio. Doveva contare solo su di sé, nessun aiuto ormai.
– Ti ho sempre invidiato, – disse – e continuo a farlo. Anche ora.
Gli occhi fissi.
– Pensavo fosse una partita aperta, che si avesse deciso di non barare. Si giocava con le tue regole, che era il fratello maggiore a prendere d’esempio il minore.
Gli occhi fissi.
– E quando tutto era sul punto di cambiare, quando hai capito che ad aver sbagliato non ero io, ma tu…
Gli occhi fissi.
– Hai buttato tabellone e carte all’aria e mi hai lasciato da mettere a posto.
La sicurezza di star agendo nel giusto convinse la mano sinistra a emulare la destra. Stringendo la testa del fratello, Iso si accorse della vacuità del suo sguardo. Si avvicinò fino a che i nasi non si sfiorarono e le labbra non si rivelarono speculari tra loro. Forse aveva la presunzione di restituire la vita con un soffio, o più banalmente era l’istinto a muoverlo nella teatralità di un gesto tanto semplice.
– Ti perdono – sussurrò, le labbra appena schiuse.
***
Dal finestrino del taxi, Iso guardò il cielo diradarsi in un azzurro privo di convinzione, con i banchi di nuvole indecisi sul da farsi. Da ragazzo aveva imparato a riconoscerli: nimbostrati, stratocumuli, strati… Ricordava il nome solo di quelli portatori di pioggia, o che l’avevano appena scaricata. Sorrise ricordando della ragazza che aveva provato a insegnargli quei nomi, a fargli capire senza mezzi termini che la vita stessa era voglia e bisogno di conoscere ciò che ci circonda. Aveva perso tutto questo insieme alla sua innocenza, il giorno in cui l’aveva tradita. Era stata un’esperienza, ma col tempo aveva smarrito anche la necessità di farne di nuove.
Nello scendere dal taxi si chiese se l’unica cosa a tenerlo in vita non fosse Lucia, o il capriccio che incarnava. Perché era questa l’ultima idea che aveva trovato terreno fertile nella fragilità di Iso. Cos’era venuto a fare a Torino? Era uno sciocco a credere di poter cambiare qualcosa. Doveva accettare che Lucia avesse scelto di sposarsi e che lui fosse estraneo alla vicenda. Eppure, se di estraneità si poteva parlare, lei non avrebbe dovuto scrivergli. Quell’invito – e di questo Iso era convinto – rappresentava un’esplicita richiesta di aiuto, il messaggio imbottigliato che naviga nell’oceano, l’ultima richiesta di un impiccato prima che il collo si spezzi.
Fino a che punto potessero protrarsi la follia e la disperazione umana, Iso non lorealizzò nell’analizzare i propri pensieri, ma nel vedere le spesse tende nere che impedivano al sole di irradiare l’interno della seconda abitazione di via Santorre, nel precollina. Interno 2.
Citofonò.
L’apparecchio restituì la voce meccanica di una donna.
– Iso, mamma. Iso – rispose ancor prima che la voce gli chiedesse di identificarsi.
VII
Il cancello si aprì con uno schiocco secco e Iso si trovò davanti un giardino molto curato.
Percorse il vialetto in porfido che conduceva alla porta di casa, davanti alla quale sua madre, una donna alta e magra, lo aspettava con le mani al volto e un’espressione contesa da stupore e gioia.
La donna, ormai in lacrime, abbracciò il figlio.
Profumava di magnolia e cannella e Iso pensò che fosse la fragranza più adatta alla sua carnagione pallida.
Si ricordò dei pomeriggi passati con Lucia sulla riva del fiume e la testa poggiata sulla sua spalla; si spruzzava il collo di un profumo alla vaniglia che lo rilassava al solo respirarlo, dandogli un senso di protezione.
Quell’essenza materna ebbe un effetto simile: gli sciolse i muscoli, ma non lo fece sentire al sicuro.
Il rumore del traffico era attutito dalle chiome degli alberi che recintavano il cortile e i suoni che arrivavano a Iso erano fiacchi e confusi.
Chiudendosi il cancello alle spalle aveva accettato di uscire dalla realtà e dal tempo e dalle regole che lo governano, per entrare in una piccola bolla di vetro; e in quella bolla, in quel microcosmo che altro non era se non il suo passato, i ricordi la facevano da padroni. Erano ovunque e ricoprivano ogni cosa, piccoli come coriandoli e pericolosi come mine.
Entrarono in casa, madre e figlio, la più sacra tra le coppie.
La madre che trascinava il figlio, il Cristo che portava la croce: la sua sofferenza più grande e la sua unica possibilità di riscatto agli occhi di Dio.
Avanzarono con il loro incedere classico, trascinandosi per un corridoio dalle pareti bianche, scandite da numerosi quadri di natura morta. Iso li ricordava uno per uno ed essi gli ricordavano che nulla era cambiato.
Attraversarono una stanza piccola e scura, per poi ritrovarsi nella luce del soggiorno che le ampie tende bianche non riuscivano a trattenere. Molte volte, giocando, Iso vi si era nascosto dietro aspettando che il fratello lo trovasse. E quando ci riusciva, il sipario si apriva e i due si abbracciavano ridendo. Ma adesso erano solo delle tende.
La stanza dava un senso di soffocamento: ogni parete ospitava grossi mobili pieni di cianfrusaglie. Appese ai muri troneggiavano voluminose cornici di ottone, a protezione di tele scure e sgualcite. Il pavimento era un labirinto tra tavoli, tavolini e sgabelli, in un continuo incrociarsi di minuscoli percorsi che conducevano nel medesimo punto e in quel punto – e non avrebbe potuto essere altrimenti – c’era una poltrona di pelle dallo schienale alto e lucido. Di fronte, seppure nascosta, la televisione strideva in una voce ora di donna, ora di uomo.
Iso non esitò e, una volta scelto quello che pensava essere il tragitto migliore, lo percorse tutto d’un fiato, fino a destinazione, fino a che non fu davanti a quella poltrona e a suo padre.
I leoni ammazzano i cuccioli perché temono di essere ammazzati a loro volta. E’ la loro natura e nessuno può definirla deplorevole. Quando uno dei cuccioli riesce a scappare e a eludere la morte, il leone sa che da quel momento dovrà sempre guardarsi le spalle. Sa che verrà il giorno in cui dovrà smettere di ciondolare all’ombra di un’acacia per concludere il parricidio. Sa anche che non vi riuscirà e che l’unico epilogo accettato coincide con la sua morte.
Glielo leggeva negli occhi: lo odiava. Lo disprezzava al punto che poteva credergli: Iso, suo figlio, era morto da anni. Anzi, forse non era mai nato e l’unico figlio avuto era quello che aveva trovato appeso a una trave.
Don-Don-Dondolava mentre Iso comprava il biglietto del treno.
Don-Don-Dondolava mentre Iso si sedeva al suo posto.
Don-Don-Dondolava mentre il treno partiva.
Iso sapeva che sarebbe stato complesso, ma non pensava impossibile. Se si trovava in quella casa, era solo perché si era deciso a risolvere la questione una volta per tutte, o perlomeno scusarsi. In modo composto e adulto. Eppure ebbe l’impressione che suo padre volesse solo la teatralità. E lui, Iso, poteva dargliela?
VIII
Negli occhi di suo padre non riuscì a ritrovare i propri.
Al contrario, vi trovò languore.
In quello sì, poté rivedersi.
Provò rabbia. Una rabbia senza freni, insaziabile. Erano occhi di morto: lo fissavano senza guardarlo. Andavano oltre, a perdersi nei dettagli di qualcosa che forse nemmeno esisteva.
Si chinò su suo padre, sfiorandogli l’orecchio con le labbra appena schiuse.
– Sono stato io – disse.
Si tirò su e rimase in attesa. Cercò tra le rughe del padre un indizio che nascondesse una reazione alle sue parole. Ma erano rughe di morto.
Spazientito, tornò chino su di lui.
– Per questo me ne sono andato. Per questo non sono venuto al funerale. Solo per questo.
Sentì un fremito nel respiro dell’uomo.
– Tu mi hai spinto a farlo. Tu. E io sapevo che lui era d’accordo. Che lo voleva anche lui. A volte credo abbia passato tutta la vita a supplicarmi di farlo. Lui era migliore, sì, e il più capace. Ma una cosa, la più importante, quella che più avrebbe voluto realizzare, non è mai stato in grado di portarla a termine. Io, invece, il buono a nulla, non mi sono tirato indietro. Lui aveva paura, io no. Gli ho fatto capire che la paura precede sempre il sollievo, così come il dubbio precede sempre la certezza. Lui ormai sta bene. E’ a come sto io, che nessuno si interessa. E’ come sto io, che tu dovresti chiederti. Perché non me lo chiedi, papà, come mi sento? Io, che ho avuto la determinazione di trascinarlo fino a quella maledetta trave, che ho avuto la forza di sorreggerlo, che ho retto il suo sguardo fermo mentre il suo corpo si contorceva nella vuota penombra di un magazzino. Sono sopravvissuto, sono io quello vivo, eppure per tutti sono io quello dentro una bara. Per tutti: te, gli amici, Lucia. Ebbene, papà, guardami bene, perché quello uscito vivo da quell’inferno sono io. E non ho nessuna voglia di ritornarci.
Posò una mano sul ginocchio dell’uomo e ne sentì il corpo scosso da lievi spasmi. Si girò senza guardarlo e se ne andò, il silenzio della stanza scandito da singhiozzi.
* * *
Inspirò più aria che poté, perché cos’altro c’era da fare? Non si era mai illuso che dirlo a qualcuno, confessarlo, avrebbe cambiato qualcosa. Ormai aveva imparato a conviverci. All’inizio era stato difficile, sì. Voleva urlarlo al mondo, tornare a casa strisciando e piangendo, scivolare lui stesso nella fossa prima che vi calassero la bara del fratello. Poi, però, la realtà si era fatta ricordo e i ricordi, si sa, fanno in fretta a mischiarsi con la fantasia. Così lo stesso Iso aveva finito per dimenticarsi di ciò che aveva fatto molti anni prima. Non se ne era dimenticato, assolutamente, piuttosto lo aveva messo da parte, isolato. E ora che aveva finito per tirarlo fuori, senza alcun preavviso poi, si sentiva smarrito. Smarrito, ma con una nuova consapevolezza di sé. Un seme piantato inavvertitamente aveva picchiato a lungo il terreno nel tentativo di emergere e ora – ma Iso non ne era ancora conscio – era pronto a germogliare.
Si incamminò verso la sponda del fiume e ne seguì il corso per un paio di ore, dopodiché si fermò a una panchina per riposare. Davanti a lui, alcune canoe seguivano la corrente accompagnate dalle urla di un istruttore a bordo di un motoscafo. Iso guardò annoiato il ripetuto affondare e poi riemergere dei remi dal pelo dell’acqua. Provò a cercare qualcosa di interessante intorno a sé, ma tutto quello che trovò furono un cuore e due nomi incisi sulla corteccia di un albero. Ragazzini pensò.
Si alzò, deciso a tornare in albergo. Aveva bisogno di dormire ancora qualche ora, di chiudere gli occhi e dimenticare. Guardò un’ultima volta i due nomi sull’albero. Lorenzo ed Erica. Tra le radici, nascosto nei ciuffi d’erba, gli sembrò che qualcosa brillasse. Si avvicinò. Un piccolo coltello serramanico. Lo raccolse e se lo passò tra le mani. Lo soppesò. Lo fece scattare. La lama era ancora affilata. Capì che era nuovo, fresco, come l’amore che aveva inciso sulla corteccia. Lo mise in tasca.
Sorrise.
Lorenzo ed Erica
IX
Quella notte Iso dormì. Dormì come non gli era più riuscito da molto tempo. Fu un sonno ristoratore: cupo e privo di sogni.
Svegliatosi, seppe esattamente cosa fare.
Si vestì e recuperò dalla tasca della giacca la lettera di Lucia. Se la rigirò tra le mani, poi lesse l’indirizzo scritto sulla busta.
Uscì dalla stanza.
La proprietaria dell’albergo gli sorrise mentre le restituiva le chiavi.
– Di già, tesoro?
– Devo.
– Sicuro, tesoro? – ammiccò, i pesanti seni poggiati sulla scrivania – Non posso fare proprio nulla per te?
L’aria di Torino era pesante e Iso faceva una certa fatica a respirare. Pensò che presto sarebbe stato a casa. L’indomani, al più tardi.
Via Garibaldi era deserta. I lampioni spenti e il cielo cianotico. I bar iniziavano ad aprire. Sprazzi di luce sul suo cammino.
Non aveva molto tempo. Anche se il sole si nascondeva ancora dietro le colline, non aveva molto tempo. Doveva arrivare prima che lei potesse uscire. Se l’avesse persa, se si fossero sfiorati appena, sarebbe stato tutto inutile.
Camminava velocemente, come faceva da ragazzo. Se anche le serrande non fossero state abbassate, non si sarebbe lasciato distrarre.
Piazza Castello lo costrinse a indugiare. Trovarsi di fronte Palazzo Madama, così, con ai piedi le fontane e la statua gli aveva sempre restituito un certo senso di appartenenza, un orgoglio che gli aveva sempre fatto pensare io sono tuo e non ti lascerò mai.
Non provò nulla e forse se ne dispiacque.
Inconsciamente evitò via Po. Se avesse dovuto trovarsi di fronte piazza Vittorio, con alle spalle la Gran Madre, avrebbe retto? E così eccolo nel reticolo di traverse, in quel labirinto di parallele e perpendicolari che ricordava a memoria.
Contò i numeri.
Sei. Otto. Venti.
Trentadue. Quaranta. Cinquantaquattro.
Prese la lettera dalla tasca.
Cinquantaquattro.
Un portoncino in legno di castagno, con un pomo d’ottone consumato. Un gradino in pietra scura, ruvida.
Si guardò attorno. La strada era deserta.
Per un po’ stette seduto sul gradino. Poi i numerosi portoni della via iniziarono a riversare persone in strada, assonnate e frenetiche, e decise di alzarsi. Attraversò la strada e raggiunse il marciapiede opposto.
Rimase in piedi per ore e non pensò a nulla in particolare. Ogni tanto si rigirava la lettera tra le mani e l’annusava cercando di trovarci sopra ancora tracce di profumo. Si chiese se un profumo potesse sopravvivere alle poste e ai postini e alla tasca della sua giacca. E al profumo di un’altra donna, nel bagno di un treno. Si disse di sì, perché riusciva a ricordarselo e allora non importava che la busta ne fosse ancora impregnata. Quello che importava era che annusandola ne rievocasse il ricordo. Istintivamente se la portò alle labbra e la baciò, ma non successe nulla.
Poi accadde.
Il sole era alto e tra Iso e il cinquantaquattro era un costante viavai di macchine. Un SUV bianco si fermò in coda proprio davanti a lui, impedendogli di vedere il portoncino. Iso non ci fece caso. Poi, tra i clacson che suonavano minacciosi sentì un suono sordo e uno scatto metallico. Fu come un brusco risveglio. Si infilò tra le macchine e attraversò la strada. A pochi passi dal cinquantaquattro una donna che si allontanava, dandogli la schiena. Indossava degli stivali neri e dei jeans che si intravedevano sotto a un cappotto grigio. I capelli castani le cadevano sulle spalle, oppure scomparivano sotto a una sciarpa verde smeraldo. Sembrava dovesse cadere a ogni passo e a ogni passo faceva un piccolo saltello. Quante volte avevano scherzato su questo suo modo di camminare?
E ora era davanti a lui. Poteva guardarla allontanarsi sapendo che non sarebbe scappata e che gli sarebbero bastati pochi istanti per raggiungerla. Provò a immaginarsela. Forse i suoi lineamenti si erano induriti con l’età e non avrebbero più avuto nulla della ragazza che ricordava e forse le sue labbra sempre un po’ schiuse non sarebbero più sembrate chiedere di essere baciate e forse i suoi occhi non avrebbero più avuto quel velo che le dava un’aria così malinconica e forse… Basta, non poteva più aspettare. Si diede una sistemata al colletto della camicia e a quello della giacca.
La raggiunse in una manciata di passi e nel superarla riconobbe il profumo impresso sulla lettera. Sentì una stretta allo stomaco nel girarsi e nel fermarsi davanti a lei.
La guardò e le tempie si contrassero e la mascella si serrò.
Ebbe l’impressione di sentire il battito del proprio cuore e non parlò finché non lo sentì calmarsi.
Il silenzio.
Il prato e le carezze e i baci e i sorrisi e le risa e mi sposerai.
Il letto e le lacrime e i pianti e la rabbia e il dolore e mi sposo.
Il silenzio.
– Ciao Lucia.
Il silenzio.
X
Si sedettero su una panchina e si persero nel gorgoglio del fiume davanti a loro. Lucia avrebbe preferito l’intimità di un bar, ma Iso aveva insistito perché raggiungessero la sponda del Po e passeggiassero come da ragazzi. Non parlarono molto. La sorpresa iniziale di Lucia nel vedersi davanti Iso era svanita con il passare dei minuti. Aveva detto che in fondo se lo aspettava, perché lui era fatto così. Aveva anche aggiunto che non aveva molto tempo, che c’erano alcune faccende da sbrigare per il matrimonio. Guardavano le anatre immergersi nell’acqua.
Passeggiando, Iso aveva pensato a cosa dirle. Sin da quando gli era stata recapitata la lettera, aveva cercato di capire quali parole potesse usare per convincere Lucia. Ma in quel momento, su quella panchina, si rese conto che non c’era un motivo valido perché lei dovesse tornare da lui.
– Lucia, ricordi quanto eravamo felici?
– Io sono ancora felice.
La guardò stringersi nel cappotto. Si era seduta lontana da lui, come se non volesse rischiare di essere sfiorata.
– Lui ti rende felice?
– No, io mi rendo felice.
– E perché lo sposi?
Lucia si girò verso di lui, forse per la prima volta da quando erano seduti. Sembrava serena, di quella serenità che caratterizza chi ha già deciso.
– Perché è quello che voglio – si limitò a dire.
– Non perché lo ami?
– Forse. Ma non è importante. Preferisco la tranquillità. E non è l’amore a dartela.
– Io con te ero tranquillo.
– Allora non era amore.
– E cosa?
– Egoismo, penso. Magari ossessione.
– Egoismo?
– Io ti ho amato, Iso. E non sono mai stata tranquilla. Era come se tu avessi bisogno di qualcuno che si facesse carico dei tuoi problemi. Non che te li risolvesse, questo no, tu non hai mai voluto risolverli. Non potevo continuare. Convivevo con l’ansia, iniziavo a soffrire di attacchi di panico e tu non te ne sei mai accorto. Non riuscivo più a dormire. Il tramonto mi angosciava perché voleva dire che la notte era vicina.
Fece una pausa e Iso provò a interromperla.
– Sono cambiato – disse, ma Lucia sembrò non averlo sentito e continuò.
– Ricordo una notte, una delle ultime. Eravamo nel mio letto e tu dormivi. Mi sono svegliata, il tuo braccio intorno al mio corpo. Era un cappio. Mi sentivo soffocare e non riuscivo a liberarmene. Sentivo il tuo respiro sui miei capelli, caldo e ritmato. L’ho odiato. Ti ho odiato. Tu parlavi di sposarci e io non avrei potuto sopportare il tuo braccio e il tuo respiro ogni maledetta notte. L’ho capito in quel momento. Ho capito che era finita.
Iso non disse nulla, né si voltò verso di lei. Guardava l’acqua incresparsi. Quante volte gli era capitato di avere tante cose da dire e poi, quando arrivava il momento di tirarle fuori, gli era sembrato che non ne valesse più la pena? Da ragazzo, soprattutto, e anche con Lucia. Si sentiva impotente davanti alla risolutezza. Mise le mani nelle tasche della giacca, incapace di tenerle ferme. Con la destra accarezzava la superficie filacciosa della busta in carta di riso, con la sinistra sentiva il manico del coltello che aveva trovato il giorno precedente. Lorenzo ed Erica pensò.
Sentì Lucia dire qualcosa tipo mi dispiace. Rispose distrattamente sì.
Non si era illuso che la situazione potesse cambiare, in tutti quei giorni. Sapeva che qualcosa sarebbe successo, che in qualche modo sarebbe finita, e forse era là per quello. Forse aveva vagabondato solo per farsi condurre alla conclusione, per scoprire quale sarebbe stato l’epilogo e quale sarebbe stato il suo ruolo. Credette di averlo capito.
– Ora è meglio che vada, – disse Lucia – e per il matrimonio non ti preoccupare. Per l’invito, intendo. Se non vuoi, ecco.
Iso le sorrise, ma non fiatò. Anni prima, in quella situazione Lucia avrebbe detto però parlami, Iso, ti prego. Anni prima, però. Non era più così e infatti non si sentì in dovere di aggiungere altro. Anzi, sussurrò ora capisci?
Prima di alzarsi, gli si avvicinò.
– Penso sia un addio – disse.
Iso annuì.
Lucia lo abbracciò e chiuse gli occhi. Si stupì nel sentirsi ricambiata. Per un istante tornò ai tempi in cui era normale che si abbracciassero e le labbra le si arricciarono. Quando sentì la lama del coltello affondarle nella schiena strinse Iso appena un po’ più forte. Provò a contare quante altre volte la lama penetrò la sua carne ancora tenera, ma si fermò a quattro. Poi non ne fu più capace. Una lacrima le scivolò sullo zigomo e non andò oltre.
Iso la rimise seduta. Sembrava addormentata. Le diede un bacio sulla fronte sudata e si alzò. Non c’era nessuno e pensò che non si era nemmeno preoccupato di poter essere visto. Non gli importava, in fondo, ma meglio così. Chiuse il serramanico, lo soppesò e lo lanciò in acqua. Se ne andò senza guardarla un’ultima volta.
– Ho bisogno di un biglietto per Bologna – disse Iso.
– C’è un treno tra venti minuti – gli rispose la donna minuta dall’altra parte del vetro.
– Va bene.
– Classe?
– Non importa.
– Il ritorno?
– No, sola andata.
– Binario ventuno.
Prima di salire sul treno si fermò davanti a un cestino, prese la lettera e la buttò.
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Aura
La collina più alta di Torino. Non poteva che essere questo, il posto giusto. Ho aspettato tre giorni, Aura, perché anche il momento fosse quello giusto.
Ho imparato, ho imparato il tempismo.
Tre giorni seduto sul nostro prato, due notti a dormire in macchina nel piazzale. La mano a cercarti sul sedile che non è più il tuo. Toccare il vuoto e scoprire che punge più di una spina.
Gli occhi rossi, Aura, come durante quei giorni di afa in cui andavamo in Vespa senza casco per sentire l’aria colpirci la faccia; dicevi che era il vento a schiaffeggiarti per aver scelto una città dal clima fermo e stantio. Tu qui non ci sei mai stata bene, Aura. Ti mancava Portovenere, sederti sugli scogli e pensare. Un libro aperto sulle ginocchia, la tramontana a stropicciarne le pagine.
Ho pensato che avrei dovuto riportarti a casa, che forse era quello il posto giusto. Tu però non ci sei mai voluta tornare. Per le persone, dicevi. Il vento mi ha spinta qui, tra le tue braccia e ridevi. Ma i tuoi occhi tristi dicevano altro, come se ti stessi chiedendo perché quello stesso vento non avesse potuto spazzare via tutto il resto, dalla tua vita.
Mi sono convinto che tornare, per te, sarebbe stato un passo indietro e che non me lo avresti mai perdonato, tu che hai sempre guardato avanti. Anche gli ultimi giorni, quando la malattia ti suggeriva di tirare le somme in vista del traguardo, tu hai preferito provare a spostarlo qualche metro più in là, il traguardo. E allora eccoti a chiamarmi vicino a te per parlarmi del viaggio che avremmo fatto ad agosto, del Grande Nord che avremmo visitato. Io non ti ascoltavo, no. Respiravo il tuo profumo e cercavo di imprimerlo nella mia testa. Ho persino letto un libro, Chiudi i ricordi in un cassetto e impara ad aprirlo quando vuoi, ma non ha funzionato. Forse, se fossi stato più attento alla tua voce, avrei capito se ci credevi davvero a quel viaggio, se davvero pensavi che la tua sola forza bastasse a superare questo novembre dai colori cupi e sbiaditi.
Mi hai istruito sul viaggio che avremmo fatto insieme, ma non su quello che avresti fatto da sola. Confidavi che avrei fatto la scelta giusta? Ti fidavi così tanto di me?
Mi sono detto che non eri mai appartenuta alla terra. Il pensarti dentro a una cassa di legno mi dava gli incubi. Non avrei mai potuto chiuderti in gabbia per l’eternità, sigillare la tua prigionia con tre metri di terra.
So che non sei nemmeno dentro quest’urna anonima che stringo tra le mani. Sei libera, da qualche parte. Forse il vento ti ha riportata a casa, a fare pace col tuo passato, o forse sei riuscita a convincerlo perché ti facesse visitare ancora il mondo.
Quante volte siamo stati quassù, a guardare Torino ai nostri piedi? Quando insieme alla città mi sono inginocchiato anche io, proprio qui, e ho racchiuso me stesso in un anello sottile come il dito che lo indossava.
È questo il posto giusto e lo è anche il momento. Guardalo, il vento, come scuote le chiome e sentilo, il vento, come fa suonare le foglie raccolte per terra. Mi ha fatto aspettare. Ci ha fatti aspettare. Ma non era in ritardo, si stava solo preparando per te. Perché fosse forte abbastanza da accoglierti, perché anche lui ha avuto bisogno di piangere una figlia che portava il suo nome.
Addio, Aura disse l’uomo, prima di aprire l’urna.
Addio, ripeté, mentre le ceneri danzavano alte.
Addio, sussurrò, e il sospiro del vento aveva ormai coperto la sua voce.
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Il mio 11 settembre
Capisci di essere arrivato a Ground Zero perché la città di colpo tace, come se le fronde degli oltre 400 alberi del parco riuscissero a trattenere le molte voci della città di New York. Ci vuole un po’ di tempo prima che le tue orecchie riescano a sostituire il vociare delle persone con il cinguettio degli uccelli e il rumore del traffico con il gorgoglio dell’acqua che scorre della fontane della rimembranza. Il tempo sembra fermarsi. O meglio: il tempo sembra essersi fermato quattordici anni prima. Ti guardi attorno sperduto: New York torna a essere a misura d’uomo.
Avvicinandoti alle due fontane, che poi sono due vasche ricavate dalle fondamenta delle Torri Gemelle, non puoi fare a meno di provare un senso di vuoto. Un senso di vuoto fisico, sì, ma anche spirituale. Perché ogni mattina, là, si aggiravano migliaia di persone e ora non più.
Di quegli uomini e di quelle donne, ora, non rimane altro che i nomi incisi sulle due cornici delle fontane. Inizi a leggerne uno, poi un altro, e vai avanti perché non riesci a fermarti. Vorresti sapere chi sono, la loro storia. È la forza nascosta di questo memoriale, il ricordarti che quelli non sono soltanto dei nomi. Sono quei nomi. E dietro quei nomi ci sono delle vite sgretolatesi in un istante che non è soltanto un istante, ma è quell’istante.
Tanti sono cognomi italiani, figli e nipoti di emigranti. Ti chiedi cosa li abbia portati là. In fondo conosci la risposta, ma cerchi un’individualità che forse non esiste.
Sottolinei i nomi con l’indice, come si fa quando si impara a leggere. Vuoi essere sicuro di non sbagliare neppure una sola lettera.
Ogni tanto una rosa rossa: il gambo infilato nel vuoto delle lettere di un nome. Emily, leggi. Ti dicono che oggi sarebbe stato il suo compleanno. Trattieni il respiro. La rosa non ha spine, ma è come se ti avesse punto comunque. È il compleanno anche di John. E di Mark e di Joy. Di Mary.
Fa male, sì.
Guardi l’acqua scorrere nelle vasche. Viene risucchiata non appena tocca il fondo. Vorrebbe riempire quel vuoto, ma non può farlo. Ti ricorda che non può farlo.
Abbandoni le fontane, ma vorresti tornare sui tuoi passi. Ti sembra di non aver dedicato abbastanza tempo a quei nomi.
Ti metti in fila per entrare nel museo. I parenti delle vittime entrano gratis. Torni bruscamente alla realtà. Esistono dei mariti, delle mogli, dei genitori e dei figli. Quel giorno non è poi così lontano. Per noi è storia, per loro sono quattordici anni.
Mostri il biglietto e ti avvii verso il controllo sicurezza. Svuoti le tasche, passi il detector. Ti chiedi se ce ne sia davvero bisogno. In un mondo normale no. Poi ti guardi attorno, pensi a cos’hai appena visto e cosa stai per visitare, e ti ricordi che qui di normale non c’è proprio nulla.
Ti trovi davanti una smisurata parete di mattonelle blu. Una frase al centro no day shall erase you from the memory of time. Virgilio.
Continui a scendere nelle viscere di quelle che erano le fondamenta delle due torri. Un pilastro è rimasto in piedi, ora è ricoperto di nomi e foto. Capisci che da quel momento non sarà facile.
Viene ricostruito quel giorno, ora per ora. Ti spiegano chi fossero i terroristi. Puoi guardarli in faccia, ci sono anche le loro foto.
Ti muovi tra camion dei pompieri distrutti ed effetti personali recuperati intatti ed esposti in piccole teche di vetro. Scarpe col tacco che non hanno più ritrovato i loro piedi, bambolotti, ventiquattrore. Un telefono nero. Alzi la cornetta e la porti all’orecchio. La voce di un uomo che dice alla moglie che la ama, che il volo è stato dirottato, che non si rivedranno mai più. Quell’uomo era sull’aereo, la donna no. Posi la cornetta e piangi.
Continui ad aggirarti nella ricostruzione di quel giorno spettrale, senza sapere che sarà sempre peggio. Ti trovi a fissare una foto di Mike Kehoe, un ragazzo vestito da pompiere immortalato su una delle scale mentre sgrana gli occhi verso la camera. Cosa sta succedendo si chiede. Mike, in quel momento, mentre aiutava nelle operazioni di soccorso, non sapeva che sarebbe sopravvissuto.
Prosegui, passi davanti a un’enorme bandiera americana fatta di brandelli mandati da ogni stato del mondo e cuciti insieme. La fratellanza esiste solo nei momenti drammatici?
Tra i molti oggetti personali raccolti, una bandana rossa attira la tua attenzione. Leggi il pannello descrittivo, scopri la storia di Welles Crowther, piangi. La rileggi, piangi di nuovo. L’uomo con la bandana rossa. Nei fumetti, il supereroe si salva sempre. È per questo che continui a rileggere quel maledetto pannello: speri che il finale possa cambiare. Non è così. Welles è morto. Ti allontani per riprendere il controllo sulla tua respirazione, ma dietro l’angolo vedi la proiezione di un filmato: una donna si lascia cadere da una finestra della torre in fiamme (Un passo appena). Un gesto ripetuto da più di duecento persone.
Nella sala regna il silenzio, ma tu vorresti scappare. Senti il frastuono dei pilastri che cedono, delle torri che crollano, le urla di chi cerca disperatamente aiuto senza trovarlo. Vorresti gridare anche tu, dire basta, ma non succede nulla. Così come non successe nulla quando sono state quelle persone a chiedere disperatamente che tutto finisse.
Ormai non ti importa più di quello che puoi vedere. Sei pronto a tutto. O quasi. Perché di trovarti davanti a un muro con sopra più di 2800 facce, proprio non te lo aspetti. Ti fermi, ti perdi nei loro occhi. Capisci cosa voglia dire vita spezzata. Alle tue spalle c’è una piccola saletta. Prima di entrare, scorri il dito sui dei pannelli touch-screen: puoi vedere la biografia di ciascuna vittima. Lo fai. Quando capisci di essere al limite, che forse quelle storie non volevi davvero conoscerle, sposti finalmente la tenda ed entri nella piccola saletta.
Da un altoparlante, la voce di una donna legge dei nomi. Per ogni nome, viene proiettata una foto sul muro. Un cenno biografico. E così per sempre, senza sosta. Le tue gambe non reggono e ti siedi su di una delle panche di legno ospitate dalle pareti nere. Ai lati di ogni panca c’è un distributore di fazzoletti. Decidi di alzarti prima di doverli usare. Alle tue spalle, mentre esci, quei nomi scanditi nell’eternità e il rumore di fazzoletti strappati via.
Via.
Via.
Esci dal museo e il gorgoglio dell’acqua delle fontane ti sembra ora l’infrangersi di una cascata. Puoi sentire quei nomi urlare e vedere le rose appassire. Entri di fretta nella Freedom Tower e sali al centoduesimo piano.
New York si estende davanti ai tuoi occhi. Cerchi la Statua della Libertà. La trovi.
Sorridi.
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Shankara, la perla d’Oriente
Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitino il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti.
Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Prius, influente cavaliere della guardia del re DI QUALCOSA nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa fu la giustificazione che si diede Ultius, insignificante contadino delle terre del re DI QUALCOSA, nel giacere con la regina, nonché moglie del suddetto.
E certo questa non fu la giustificazione che si diede Dain, re DI QUALCOSA, nel trovare Prius e Ultius giacere con la regina, nonché propria moglie.
Prius e Ultius furono molto fortunati. Quello, infatti, fu l’unico anno in cui nel regno DI QUALCOSA venne sospesa la pena di morte. Gli eruditi avevano suggerito al re di prendere questa decisione perché, a loro dire, terrorizzare i sudditi si era rivelato più volte una scelta controproducente. Re Dain, uno di quei re che vogliono essere ricordati per la loro magnanimità, si scoprì entusiasta di potersi mostrare così progressista agli occhi degli altri sovrani e accettò di buon grado la proposta.
E chissà cosa sarebbe successo, se il cuore del buon re avesse retto e non avesse deciso, invece, di esplodere al pari di un fiore che sboccia. Forse egli stesso si sarebbe accorto che, per governare, il pugno duro serve eccome! Che i servi hanno bisogno di limiti imposti dai padroni, così come gli angeli e le cose tutte hanno bisogno di Dio. E un buon sovrano è questo che non deve far dimenticare ai propri sudditi: come Dio, egli può privarli di ogni cosa, perfino della vita, e in qualsiasi momento. Solo in questo modo i ruoli vengono rispettati. Ma, come dicevamo, il povero re Dain non ebbe possibilità di rimediare allo sbaglio commesso e i due traditori vennero banditi e null’altro.
La pena di morte, reintrodotta dal sovrano seguente, Tyrano, recuperò ben presto l’anno perduto e collezionò ottantasette teste nel solo primo mese di attività. Ma quello che successe nel regno DI QUALCOSA, dopo l’allontanamento dei padri fondatori di Ogniranza, è ininfluente al proseguo della nostra storia e non deve interessarci.
Prius e Ultius erano due uomini affini, due anime che Dio avrebbe fatto incontrare anche se fossero nate agli estremi opposti del globo. L’unico ostacolo tra loro era l’appartenere a due classi sociali profondamente diverse. Con l’esilio questa unica barriera fu abbattuta e i due uomini capirono di avere un destino in comune. Il peccato e il sesso che l’aveva originato, nonché l’eguale pena subita, appianarono le divergenze e i pregiudizi radicati nella testa dei due. Certo, la prima volta non fu facile. Prius era alto e vigoroso, la pelle liscia e un portamento che non l’avrebbe mai lasciato confondere con uno di quegli altri: bassi e tarchiati dalla zappa, la pelle ustionata dal sole sempre presente, schiavista per diletto, rozzi e grezzi; insomma: uno come Ultius. E Prius lo guardò dall’alto al basso, quella prima volta. Lo guardò con la sufficienza di chi crede che la vita in certi corpi sia proprio uno spreco. E che gli occhi neri e lerci di un contadino non si abbassassero davanti ai suoi, verdi come le foglie della più in salute tra le piante, lo irritava e non poco. In altra sede, quell’insolenza sarebbe stata punita con un bel fendente tra mento e spalle. Ah, se solo la regina gli avesse permesso di tenere le armi con sé… Non riusciva a capire cosa ci trovasse, in quell’essere, e si chiese quanta perversione scorresse nelle vene di una donna non solo così potente, ma anche di una raffinatezza famosa in tutto il regno.
– Vi ho convocati qui perché questa notte ho sognato di voi – disse la regina.
Congedò gli uomini di scorta con un cenno. Rimase in silenzio e Ultius non poté fare a meno di volgere la più totale attenzione all’ambiente che li ospitava. Il soffitto si ergeva forse sei metri al di sopra del suo naso schiacciato, sorretto da mura in pietra calcarea accuratamente ridipinta di bordò; sulla sommità, alte finestre lasciavano che la luce, filtrata da fini tende color panna, disegnasse morbide ombre sulla parete opposta, mettendone in risalto lunghi arazzi mai stufi di raccontare le gesta della stirpe reale. E poi mobili d’oro e legno massiccio, intarsiati di lapislazzuli e pietre preziose di ogni genere, a occupare la vastità della stanza come tante isole puntellano il più bello dei mari. Così al centro di quell’arcipelago, come un meraviglioso vulcano, si ergeva il letto della regina: un baldacchino alto come possono esserlo due uomini che si sorreggono l’uno sulle spalle dell’altro, racchiuso da spessi teli ricamati dalle migliori filatrici del regno; e il cuore, grande quanto una qualunque stanza da letto, già placava gli animi più focosi mostrando loro la quantità di cuscini pronti a ospitarne lo stanco riposo. E infine, quella conchiglia non poteva lustrarsi di perla migliore: la regina Shankara. Ora che lo sguardo si era fermato su di lei, non gli riusciva più di distoglierlo. Il suo nome raggiungeva ogni confine del regno e si erano sprecate leggende sulla sua bellezza. Qualcuna la voleva alta e bionda come una ninfa del nord, altre un’Ispanica dal sangue guerriero; e ancora una raminga che aveva stregato re Dain con un filtro d’amore. Ma la verità era diversa e Ultius non poteva conoscerla. Perfino Prius, così vicino alla famiglia reale, ignorava cosa ne fosse di Shankara prima di essere regina. Eppure, a osservarla, qualcosa si smosse nella memoria del contadino. Quella lunga chioma nera che ricadeva con una compostezza quasi selvaggia sulle spalle della donna e quella carnagione olivastra che la rendeva unica all’interno del regno, gli fecero riaffiorare le parole di un viandante ospitato forse un paio di lustri addietro. Questi diceva di aver fatto parte della scorta che aveva portato la regina Shankara a re Dain. Viene dalle terre d’oriente, dove le lettere degli uomini si chiamano numeri, ed è figlia di un importante sovrano, da anni in guerra contro re Dain. I due regni, logori dal conflitto, hanno tentato di sancire una pace duratura tramite un legame di sangue. Così la più giovane, nonché più bella, delle figlie del sovrano d’Oriente, è stata data in sposa a re Dain, che era ancora un giovane condottiero. Shankara è il suo nome. Partì bambina e arrivò donna.
Solo allora Ultius si accorse dell’inumana bellezza che gli stava di fronte, a pochi passi, vestita di un sari che lasciava vederne il corpo e, allo stesso tempo, ne nascondeva i tratti più desiderati.
Non riuscì ad alzare lo sguardo al di sopra di quelle labbra, tinte del colore del sangue, finché non scoccarono.
– Di te ho memoria, Prius. Sei a capo della scorta di mio marito. Immagino, invece, che tu sia solo uno spregevole contadino, ma per me non fa differenza. Se è la volontà degli dei… Ho sognato di questo momento in una notte come tante altre. Vivo in un palazzo grande quanto un qualsiasi regno a noi confinante e la mia stanza potrebbe ospitare le famiglie di un’intera città. Forse questo è il desiderio di molti, ma non il mio. È la solitudine a riempire il vuoto tra queste mura fredde, mentre io nascondo il mio volto sotto a quella pila di inutili cuscini. Ho provato a dare vita a qualcosa che potesse avvicinarsi alla mia infanzia, o almeno ai ricordi confusi che le appartengono, ma è stato tutto vano.
Si avvicinò con passo fermo a uno degli arazzi celebrativi e lo sfiorò con le dita, più simili a quelle di una bambina che non aveva mai dovuto adoperarle, che a quelle di una giovane donna.
Il tempo sembrò fermarsi, mentre la regina leggeva impassibile la storia raccontata da quelle trame filate con così tanta cura. Il respiro dei due uomini era l’unica testimonianza dello scorrere dei secondi, l’unico appiglio della stessa Shankara nel pantano nutrito da una fanciullezza che, lieve come un canto lontano, le si insinuava nella testa ricordandole cosa fossero l’innocenza e la felicità, ma senza riuscirvi.
– La verità è che la mia stessa infanzia non mi appartiene più. Non troverete gioia nella mia ricchezza. Io stessa sono ricchezza, merce scambiata in nome del nulla: la pace. Un padre dovrebbe essere pronto alla guerra, se qualcuno volesse privarlo della propria bambina… Ma non il mio. Forse non ne ho mai avuto uno.
Continuava a guardare l’arazzo, parlando più a se stessa che ai due uomini.
– Durante il viaggio che mi ha condotto in questo regno, sono riuscita a convincermi di essere solo questo, un oggetto che due uomini potenti si scambiavano in segno di ammirazione. Ed è ciò su cui è fondata la devozione per mio marito, re Dain. La scarsa stima che avevo di me, nascondeva ai miei occhi la vera natura di quel ragazzo così debole da terminare una guerra solo per avere una bambina che scaldasse il suo letto. Perché è questa che è stata la mia vita, quella di una bambina abbandonata e sedotta, convinta di avere trovato un fratello maggiore, forse un vero padre, e non un mostro che la illudeva sulla vera natura del volersi bene.
Si voltò, gli occhi lustrati come boccioli dalla rugiada.
– Guardate il mio regno! – disse allargando le braccia – Ma gli dei mi hanno parlato. Sì, quegli stessi dei che mi hanno abbandonata nel corso di tutta la mia esistenza. Quegli stessi dei che ho giurato di odiare molto tempo fa. Dapprima erano ombre, poi le ombre si sono animate e parole di un linguaggio antico, primitivo, hanno mosso le mie stesse labbra. Non posso svelarvi ogni cosa, perché il futuro non vedrebbe la luce, ma la mia vita ha trovato un senso. I battiti che il mio cuore ha speso sinora, non sono stati vani come credevo. Ora io so di essere importante, ora io conosco il mio scopo.
Aveva la testa bassa, ma teneva lo sguardo alto: una tigre sicura dei propri passi.
Ultius sentì le sue mani ordinargli di seguirla verso il letto e si lasciò andare, così come una bestia trascinata per il collo capisce di non poter fare nulla e segue rassegnata il suo destino.
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Nella sua lunga storia il piccolo comune aveva sempre avuto delle elezioni ufficiali, adeguandosi in questo modo all’Estero, ma i capi della comunità venivano scelti in maniere molto più traverse e discutibili. Si può dire che quella di Ogniranza sia una vera e propria democrazia diretta e che i cittadini esercitano il diritto di assegnare il potere senza passare da alcuna burocrazia. Già in antichità, mentre i grandi imperi si preoccupavano di introdurre nuovi metodi elettivi in grado di coinvolgere maggiormente il popolo, Ogniranza vantava una solida stabilità sociale e politica. Ci si era accorti che la migliore filosofia consistesse nella semplicità: le cose facili sono le più funzionali e il volerle complicare è una tendenza innata nell’uomo, una sorta di entropia barocca. Tutto va agghindato, l’arte povera è per i non abbienti. Ogniranza aveva sperimentato più forme di governo, attraversando ogni sorta di utopia, dalla dittatura all’anarchia e dall’oligarchia al principato.
Nell’anno della fondazione, il 1050 a.C., Ogniranza si presentava come il più classico degli agglomerati umani: la tribù. La sedentarietà non era ancora così radicata nel mondo e, per quanto fossero numerose le comunità che decidevano di stanziarsi all’interno di labili confini, non erano rari i casi in cui gruppi di persone che sentivano di possedere ideali e principii affini decidevano di abbandonare le proprie terre natie. Nello specifico, la comunità ognirante nacque dall’incontro incestuoso di cavalieri e contadini. Questi erano il gradino più basso di ogni piramide sociale, appena al di sopra degli schiavi, mentre i cavalieri stuzzicano l’immaginario collettivo dall’alto dei loro destrieri. Insomma, gli uni con la schiena piegata sul terreno, verso il basso; gli altri con la schiena ben dritta, verso l’alto, elevati ancor più dalle loro cavalcature. Due estremi senza alcun punto in comune. Apparentemente.
Ma si sa, non esiste uomo senza vizio.
E così viene tramandato che i due padri fondatori di Ogniranza sono un contadino, Ultius, e il cavaliere capo della scorta del re di Tyrania, Prius. In quell’unico anno, il re decise di sospendere la pena di morte, confidando di apparire un progressista agli occhi dei sovrani dei regni confinanti e di ingraziarsi gli intellettuali che lo avrebbero così elogiato. Il povero re si chiamava Dain e in giovinezza fu un temibile condottiero; da anni in guerra con il Sovrano d’Oriente, decise di arrestare le proprie mire espansioniste in cambio della più preziosa tra le ricchezze dell’avversario: sua figlia Shankara. Nonostante fosse poco più che una bambina, si parlava della sua bellezza in ogni angolo del mondo conosciuto. Shankara, la perla d’Oriente. E come una perla, il padre la infiocchettò e spedì al giovane Dain in segno di rispetto.
Partì bambina, arrivò donna.
Se il capriccioso Dain fosse stato cosciente della rovina cui stava andando incontro, forse non avrebbe provato così tanta soddisfazione nel vedersela recapitare a palazzo e l’eccitazione nel gustarne il corpo appena spogliato del sari, sarebbe sfumata all’istante.
Passarono gli anni e Shankara li trascorse prigioniera di un palazzo vasto quanto un regno, di una stanza che avrebbe potuto ospitare le famiglie di un’intera città. Ma ai suoi occhi le pareti di quella camera erano sempre più opprimenti e non bastava l’averle dipinte di bordò, decorate di arazzi che inventassero un’infanzia smarrita, o ancora aver fatto di un baldacchino sontuoso la propria capitale. Regina di quell’harem, Shankara crebbe ostile a re Dain, oltre che al proprio padre, e agli dei; quegli stessi dei che, in una delle poche notti libere dalla veglia, le si palesarono in sogno come ombre confuse, depositarie di un linguaggio primitivo e solenne. Avrebbe avuto modo di riscattarsi. Avrebbe avuto modo di vendicarsi. Non si erano dimenticati di lei. Shankara, la perla d’Oriente, avrebbe cambiato per sempre il corso della storia.
Svegliatasi, non perse tempo. Diede ordine di trovare quei due, Prius e Ultius, secondo le disposizioni degli dei. Avrebbe aspettato seduta al suo specchio e sarebbe stata pronta, la più bella di tutte. La perla d’Oriente sarebbe tornata a brillare.
Li trovarono e glieli consegnarono. Il contadino e il cavaliere. E lei li accolse, li accolse tra le sue gambe come una madre accoglie tra le braccia un figlio ritrovato dopo tanto tempo. Le pareti si tinsero di un rosso più acceso, di quella stessa passione che per la prima volta fece chiudere le tende di quel baldacchino.
La perla d’Oriente continuava a brillare.
Fu re Dain a riaprirle, quelle tende, e a trovarsi davanti a quella conchiglia di corpi che gelosamente custodiva la sua perla. Nessun urlo, giusto un sibilo. Forse un sussurro. E il cuore del re esplose come un bocciolo in fiore.
Prius e Ultius, in assenza della pena capitale, vennero banditi e catapultati dal regno di Shankara a quello di nessuno, fatto non di morbide lenzuola, ma di lande desolate.
Della regina, invece, nessuno sentì più parlare. Ma è quello che spetta a chi veramente decide di scrivere la storia.
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Rael, lo spirito della palude (o studio su “Racconti fantastici di Liao” di Pu Songling)
C’era un tempo un ricco funzionario del ministero che si chiamava Alheen. Era un uomo molto importante e quando camminava per strada tutti si affrettavano a inchinarsi per riverirlo. Aveva una barba nera molto lunga e molto folta di cui era orgoglioso e tutti i bambini della città di Ahreheo sognavano di averne una bella come la sua. Gli anziani dicevano che la sua barba era così pesante da andare a fondo in una bacinella d’acqua, anziché galleggiare.
Era molto arrogante e maltrattava tutti quelli che il suo rango gli permetteva di maltrattare. Molti erano i poveri e i mendicanti che aveva picchiato con il suo bastone di giada bianca. Al ministero lo temevano tutti, soprattutto una vecchia puzzolente che faceva le pulizie e che lui prendeva sempre a sputi, calci e bastonate mentre i funzionari guardavano e ridevano.
Un mattino, dopo essersi lavato e cambiato d’abito, Alheen notò nel lavandino un pelo lungo e bianco. Dapprima lo scambiò per il baffo della tigre Saar, spirito di Ahreheo, e se ne rallegrò perché compariva solo alle persone illustri in segno di buon auspicio. Dopo averlo osservato con attenzione, però, gli sembrò invece un pelo della sua barba e si preoccupò molto perché non ne aveva mai perso uno e non ne aveva mai avuto uno bianco. In preda all’agitazione e ai brutti pensieri, si affrettò a uscire.
Alheen non si presentò al ministero e tutti furono sorpresi perché era andato anche il giorno che era morta sua moglie.
La voce si sparse veloce veloce e alcuni funzionari dissero di aver visto Alheen correre per le vie di Ahreheo senza fermarsi, come se il demone Aru muovesse le sue gambe per produrre calore con cui bruciare la legna dell’Inferno. Altri ancora riferirono che l’Imperatore lo aveva chiamato alla Capitale perché voleva farlo governatore della regione.
Sentendo fare questi discorsi e dire tante bugie, la vecchia puzzolente che faceva le pulizie al ministero affermò di sapere dove fosse Alheen e che lo avrebbe detto in cambio di una ciotola calda di brodo di lepre e una caraffa di vino. Tutti erano curiosi e così le promisero ciò che voleva.
La vecchia puzzolente si sentì importante e disse che Alheen era andato in gran segreto dal contabile Turuc e che lei lo sapeva perché lo aveva seguito.
A quel punto tutti scoppiarono a ridere e così anche la vecchia puzzolente scoppiò a ridere e chiese la sua ricompensa. Così i funzionari continuarono a ridere più forte e la presero a turno a calci nel sedere dicendole che quello era il suo premio per essere una spiona e di continuare a lavare i pavimenti, o le avrebbero dato altre ricompense.
Ma Alheen era andato davvero dal contabile Turuc, che era un suo uomo di fiducia e caro amico. Ogni anno Turuc contava i peli della barba di Alheen e riportava il numero su un foglio segreto che nascondeva. E ogni anno Turuc contava cinquemilaquattrocentosettantatré peli di colore nero.
Anche se li avevano contati pochi mesi prima, Alheen gli raccontò del suo ritrovamento e lo pregò di controllare.
Così Turuc contò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Così Turuc ricontò cinquemilaquattrocentosettantadue peli di colore nero e tutti e due rimasero in silenzio.
Poi Alheen scoppiò a piangere e cominciò a darsi pugni sulla testa e Turuc lo fermò prima che si strappasse la barba a grandi ciuffi.
Alheen era disperato e Turuc era dispiaciuto per l’amico. Provò a consolarlo ma non ci riuscì e allora gli disse dopotutto è solo un pelo bianco e menomale che ne è caduto uno bianco!
Ma Alheen si arrabbiò molto e gli disse stupido, non lo sai che se cade un pelo bianco da una folta barba nera è presagio di grande sfortuna? Sei davvero un figlio di un cane e me ne vado prima di prenderti a bastonate!
E infatti dopo pochi giorni Alheen fu colpito da numerose sventure.
Ogni mattino trovava nel lavandino numerosi peli e la sua barba diventava sempre più striminzita e tutti i bambini della città di Ahreheo lo prendevano in giro e gli tiravano addosso le pietre quando passava. Alheen anche dimagrì molto perché tutto il cibo che comprava veniva divorato dalle formiche prima che riuscisse a mangiarlo. Era così asciutto da sembrare un fantasma delle paludi e, siccome molti al lavoro si spaventavano nel vederlo, il magistrato gli ordinò di rimanere a casa per curarsi e non tornare finché non fosse guarito.
Nessuno riconosceva più Alheen e tutti lo scambiavano per un mendicante pidocchioso.
Lui si sentiva a poco a poco morire perché nessuno gli dava del cibo e in casa non ne aveva più.
Così un giorno andò nella locanda di Shyin dove andava sempre, ma Shyin non lo riconobbe e lo cacciò via a manate. Allora provò nella locanda di Assaji dove anche andava sempre, ma Assaji non lo riconobbe e lo cacciò via a calci. Allora provò nella locanda di Semin dove anche andava sempre, ma Semin non lo riconobbe e lo cacciò via a bastonate.
Ormai rassegnato e col corpo livido, Alheen il ricco funzionario del ministero si trascinò verso l’uscita della città, deciso a farla finita.
Proprio mentre superava l’ultima casa, vide uno splendido edifico che non aveva mai visto prima. Era una grossa locanda con enormi tavoli in legno e stendardi dorati a forma di dente di tigre. Alheen pensò che un posto così bello non lo aveva mai visto ed era strano e che avrebbe tanto voluto andarci. Ma nessuno lo avrebbe voluto e lo superò.
Una voce di donna però lo chiamò signore! signore! e lui incredulo si girò e vide questa donna vestita da cameriera che gli faceva segno di avvicinarsi. Lui non si mosse e così la donna andò da lui, lo prese sottobraccio e lo fece sedere a uno dei tavoli. L’uomo rimase meravigliato, ma non fece in tempo a parlare perché la donna scomparve nella locanda.
Dopo un po’ che l’aspettava, la donna tornò con un vassoio pieno di cibi di ogni tipo e Alheen divorò tutto con grande voracità, senza preoccuparsi di sporcarsi tutta la faccia. Tanto non sono più io pensò.
La donna portò molti vassoi per molto tempo e Alheen mangiò tutto.
Perché siete così buona con uno schifoso mendicante chiese e la donna rispose io so chi siete voi. Siete voi che non lo sapete più. Ma io vi voglio aiutare e ora che avete mangiato potete partire. Partire per dove? chiese Alheen. Per le paludi. Dovete cercare Rael lo spirito della palude. Sono sicura che vi si mostrerà e vi aiuterà, anche se vi farà credere di no. Voi fate tutto quello che vi dice e sarete chi eravate.
L’uomo ringraziò la donna molte volte chinando il capo e uscì dalla città.
Arrivò alle paludi dopo molte ore. La notte non lo spaventava più, perché egli stesso era un fantasma e gli spiritelli facevano i dispetti solo agli uomini.
Cercò e cercò, ma non trovò nulla. Era disperato ma continuò a vagare per le paludi.
A un certo punto vide una palla di luce bianca sopra a una pozza di acqua putrida.
Vieni qui e purificati disse la voce di donna più bella che avesse mai sentito.
Alheen pensò che fosse Rael e fece ciò che gli era stato comandato.
Sei proprio uno scemo iniziò a canzonarlo la voce. Sei uno scemo, stupido puzzone di un mendicante fantasmino. Adesso che sei entrato nella pozza il tuo fetore è come quello di dieci elefanti morti. Fai così schifo che le acque non ti annegano perché nemmeno la Morte ti vuole con lei.
Alheen disse è vero.
Adesso devi saltellare come le pulci che vivono nelle tue orecchie e poi rotolare come i maiali nel fango.
Sì disse Alheen e lo fece.
Adesso devi bere tutta l’acqua che puoi bere e non devi né vomitare né cacarti addosso.
L’uomo bevve tutta l’acqua putrida e con grande forza di volontà riuscì a non vomitare e a non cacarsi addosso.
Bravo scemo disse la palla di luce bianca fai più schifo dell’acqua in cui sguazzi.
E sparì.
Alheen scoppiò a piangere e decise di ammazzarsi. Così si inginocchiò e mise la testa sott’acqua e si obbligò di respirare.
Proprio quando i polmoni erano pieni di melma putrida, Alheen spalancò gli occhi e vide una giovane sott’acqua come lui che lo guardava. Era sicuramente la ragazza più bella che avesse mai visto e subito s’innamorò. Lei lo prese per i capelli e lo fece riemergere. I polmoni si riempirono di aria e Alheen vide che la ragazza aveva orecchie di volpe. Capì che era Rael lo spirito della palude. Tu sei un uomo povero, perché sei sempre stato povero disse Rael e dopo un po’ tutte le verità degli uomini si mostrano per quelle che sono. Alheen sapeva che era vero e rimase zitto. È scritto che tu farai cose importanti ma tu hai già sprecato metà della tua esistenza e non hai fatto nulla di buono. Gli dei ti hanno dato tanti talenti e tu li hai usati per accontentarti di una vita mediocre da uomo mediocre e allora è giusto tu muoia e che i tuoi talenti vengano riassegnati a un uomo migliore di te. Alheen sapeva che era tutto vero e allora disse voglio cambiare, ti prego dimmi cosa devo fare, tu hai ragione perché io sono un uomo piccolo piccolo e tu una una giovane ragazza grande grande. Mettimi alla prova, io farò tutto ciò che mi comanderai e non ti deluderò. Rael lo guardò sospettosa, poi gli sorrise e gli disse di tornare a casa. Alheen si innamorò del suo sorriso e tornò a casa pensando solo a esso.
Trascorsero molti giorni e Alheen recuperò l’aspetto e la salute di un tempo: persino la barba ricrebbe folta, nera e rigogliosa. Il suo prestigio tornò a precederlo e per strada tutti lo riverivano e nelle locande tutti lo servivano. Il magistrato gli restituì il suo impiego e tutte le voci su di lui cessarono.
Una sera stava mangiando un cosciotto di capra quando sentì bussare alla porta. Aprì e si trovò davanti la vecchia puzzolente. Ho fame gli disse inginocchiandosi e sbattendo molte volte la fronte contro il terreno. Alheem scoppiò a ridere e stava per chiuderle la porta in faccia, quando si ricordò di cosa volesse dire morire di fame. Allora si affrettò ad aiutare la vecchia puzzolente ad alzarsi e la fece entrare.
La vecchia teneva lo sguardo basso e si vergognava molto, ma Alheen la fece accomodare alla sua tavola e le servì tutte le pietanze che aveva cucinato per sé. La vecchia mangiò tutto molto in fretta e dopo aver ringraziato andò via.
Alheem era molto felice ed ebbe un sonno riposante e ricco di sogni, come non ne aveva da tempo.
Il giorno dopo al ministero vide che la vecchia puzzolente veniva derisa e presa a calci da due giovani funzionari e si ricordò dei calci e delle bastonate che aveva ricevuto anche lui. Allora ordinò smettetela! e li fece frustare cinquanta volte per uno. Da quel giorno nessuno maltrattò più la vecchia.
La sera stessa, all’ora di cena, sentì nuovamente bussare alla sua porta. Era la vecchia che inginocchiata sbatteva la fronte contro il terreno dicendo ho fame. Alheen la portò in casa e la sfamò con tutto il cibo che aveva.
Lei sorrise soddisfatta e sazia e lui si innamorò del suo sorriso.
Così fu per molte sere e molte cene, finché Alheen disse io sono un uomo solo e vedovo e la mia casa ha bisogno di una donna. Io amo il tuo sorriso e soddisfarti mi rallegra e fa sentire un uomo migliore. La donna arrossì e rimase davvero sorpresa quando Alheen le chiese vuoi sposarmi?
Due settimane dopo erano marito e moglie e al matrimonio non era andato nessuno, dato che tutti ridevano della vecchia puzzolente e dicevano che Alheen era diventato matto.
Ma Alheen non se ne curò, perché era molto innamorato e non gli importava d’altro.
Passarono molti giorni e molte notti, quando una sera la vecchia disse non mi sento molto bene e si ammalò.
Alheen era in pena per la sua sposa e il suo animo soffriva.
Mentre piangeva e accendeva numerosi bastoncini di incenso agli dei, pregandoli di salvare sua moglie, successe qualcosa di straordinario.
La vecchia gli disse avvicinati al letto e accarezzò la sua faccia e la sua barba. Alheen piangeva e la donna, veramente colpita per quanta devozione il marito avesse per lei, sorrise. Subito, il suo corpo divenne luce blu e poi azzurra, fino a diventare una palla di luce bianca.
L’uomo non capiva, ma invece di spaventarsi rimase immobile, pronto ad affrontare ciò che sarebbe accaduto.
Ora che ti sei salvato disse la palla di luce bianca riavrai indietro tua moglie.
La luce esplose e tornò a essere corpo e carne.
Alheen ci mise un po’ a riaprire gli occhi accecati dalle scintille bianche e quando riuscì trovò davanti a sé, seduta sul letto, Rael lo spirito della palude.
La giovane ragazza disse hai fatto ciò che volevo quando ero una palla di luce bianca nella palude e mi hai dimostrato rispetto e fedeltà quando ero una vecchia puzzolente. Ora io sono tua moglie perché da molto tempo siamo sposati e la volontà degli dei si realizzerà.
Alheen, grazie a una serie di eventi straordinari, divenne imperatore e con la sua saggezza evitò molte guerre e salvò molte vite. Sotto di lui, il regno fu prospero e la vita serena. Dall’unione con Rael ebbe tredici figli e morì a centotrentasette anni insieme alla propria moglie. Il suo spirito salì in Paradiso e divenne Imperatore del Regno dei Cieli con la sua fedele Rael come regina.
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L’importanza di scrivere
L’altra sera ho ricevuto un racconto via email.
Era di una ragazza con cui avevo scambiato giusto qualche messaggio.
Pochi giorni prima mi dice che le piace scrivere e le chiedo di mandarmi qualcosa, che sono curioso.
Così, superate le remore o la vergogna, un paio di sere fa si decide a mandarmi due vecchi lavori.
Mi dice che sono un po’ datati: 2010 e 2012.
La sera stessa, prima di dormire, decido di leggerli, che in fondo Mo Yan per una volta può aspettare.
So di non avere davanti il lavoro di una professionista, eppure c’è qualcosa che non mi fa levare gli occhi da quella pagina. Questo qualcosa è la sincerità con cui è scritta.
Quel racconto, a differenza di tanti altri che ho letto – e anche di parecchi romanzi – è puro, vero, credibile.
Leggendo quelle parole, mi è sembrato di conoscere quella ragazza da sempre e poco importava se la storia fosse autobiografica o totalmente inventata: io sapevo di star leggendo semplicemente lei.
Poi una frase: Tu che avevi la pazienza di un amore discreto e rassegnato…
L’ho trovata di una bellezza disarmante. Poche parole di una forza incredibile. Persino in questo momento non riesco a fare a meno di leggerle e rileggerle e leggerle ancora. Quella frase racchiude un mondo di emozioni e di immagini. Quella frase mi ha reso invidioso di non esserne l’autore.
Ho finito di leggere il racconto con i brividi, quasi vergognandomi dello star spiando – seppur con il permesso – la vita e il passato di questa ragazza.
Ero stanco, ma dovevo assolutamente leggere anche il secondo racconto.
Una volta finito, sono rimasto fermo. Poi ho spento la luce e mi sono messo a dormire.
Quando mi sono svegliato, però, ciò che avevo letto la sera precedente era ancora vivo nella mia testa. Era qualcosa che io stesso avevo vissuto.
Ho deciso, allora, di prendermi due giorni per pensarci sopra. Ne avevo bisogno.
Quei due racconti avevano stimolato non solo il mio lato creativo, dandomi subito la voglia di scrivere, ma anche la necessità di maturare una riflessione; la sensazione che ci fosse qualcosa che mi stesse sfuggendo e che fosse proprio lì, a due passi dal comprenderla.
Oggi ho finito di leggere il romanzo “Il supplizio del legno di sandalo” del sopracitato Mo Yan e ci sono arrivato.
Anche la sua scrittura era autentica e sincera. Per quanto stesse raccontando una storia, c’era lui. La fase della dissimulazione era superata, non c’era più bisogno di nascondersi dietro a una penna. E ho provato la medesima cosa nel leggere Benni, o Pennac, o McEwan, e altri grandi narratori. C’è sempre un momento in cui ti rendi conto che è tutto vero. Che sì, tutte quelle pagine servono a trasmettere qualcosa e arricchirti.
Eppure, tutti questi autori, sentendoli parlare ti fanno desiderare di non averlo mai fatto. Vorresti rimanere sulle loro pagine, perché sai che il modo in cui si comportano non è sincero. E’ quella la vera maschera.
Ma la loro natura, la loro essenza, è quella di cui sono intrise le loro parole.
E allora ho pensato che essere un grande narratore voglia dire avere il coraggio di raccontare sé stessi attraverso le storie di altri e abbattere quel noioso muro che troppa gente si diverte a erigere tra fiction e non fiction.
Che essere un grande narratore, come diceva Carver, è vedere ogni evento della propria vita, piacevole o spiacevole che sia, come un’occasione. Un’occasione per raccontare qualcosa, per fare letteratura, per esprimere sé stessi senza sigillarsi nella propria maschera pirandelliana.
Ed eccola, la meraviglia della letteratura! Eccola, la meraviglia dell’arte! L’arma di chi non ha paura di mostrarsi, dei coraggiosi che davvero non temono giudizio e non si vergognano di farsi denudare da chiunque, aspettandolo con il cuore in mano come il Cristo Misericordioso.
E allora scrivete! Scrivete tutti! Che tutti scrivano e possano sentirsi, per una volta, vivi.
Questo è il mio invito a raccontarvi, a farvi conoscere, a non avere pudore o vergognarvi.
A essere dei bambini che non guardano indietro con rammarico e avanti con rassegnazione.
Per quello che riguarda i due racconti, non smetterò mai di ringraziare quella ragazza per avermeli fatti leggere. Per avermi dato modo di migliorarmi e soprattutto, per aver mostrato uno scorcio della meraviglia che sta dentro di lei.
Anche se non lo ha mai pensato, anche se non ci ha mai creduto, anche se la scrittura rimarrà sempre il suo piacevole passatempo, lei è un’autrice migliore di un mucchio d’altri che possono vedere il proprio nome dietro la vetrina di una libreria.
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Supportami
Ho voluto fare un esperimento, un azzardo.
Da oggi è disponibile su Amazon “Racconti Raccolti“, un ebook che raccoglie sei miei racconti al prezzo simbolico di € 0.99.
I racconti, escluso uno, sono tutti editi qui sul mio blog e quindi fruibili gratuitamente.
Allora perché farlo?
Perché in questi giorni ho letto ovunque commenti di persone che si aspettano che un prodotto artistico – chiamiamolo così – libro o disco che sia, venga distribuito gratuitamente perché “l’arte deve essere accessibile a tutti”. Sono pienamente d’accordo, ma solo nella misura in cui si parla di fissare un tetto massimo per un prodotto.
La verità, però, è che un prodotto artistico – continuiamo a chiamarlo così – richiede ore e ore di lavoro. Ecco: quello che molti fanno difficoltà a capire è che questo è un lavoro.
Dietro ai miei racconti c’è la fatica dettata dalla speranza di consegnavi un prodotto al massimo delle mie capacità, un prodotto in cui metto tutto il mio impegno affinché possa essere qualitativo; e tutto questo mentre continuo la stesura del mio romanzo.
Insomma, la mia “arte” sarà sempre fruibile a tutti gratuitamente, ma se qualcuno volesse sposare la mia causa e supportare il mio lavoro, beh, potete farlo con meno di 1€.
Alla peggio, mi accontento anche di una recensione su Amazon e di una condivisione.
Grazie a tutti,
Andrea
Se siete interessati, potete trovarlo qui.
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Tutto il resto può aspettare
Prendere una curva agli ottanta non è il massimo, soprattutto su una strada non illuminata. Dirò che c’era un cinghiale e ho sterzato per evitarlo. Cappottarsi è inevitabile. Era successo anche a Massimo e nessuno ne aveva dubitato. Il problema sarà spiegare perché mi sono ribaltato su questa strada. Puttane. Dirò che volevo vedere le puttane. Quando sei triste, non c’è cosa migliore. Noi lo facevamo sempre, prima di tornare a casa. Abbiamo iniziato che ancora non eravamo maggiorenni. Tranne Massimo, lui è più grande di un paio d’anni e la macchina era sua. Finito l’ultimo grammo d’erba e buttata giù l’ultima goccia di tamango, riempivamo quella maledetta Panda, partivamo da Piazza Vittorio e andavamo a vederle. Ogni tanto ci parlavamo pure. Una volta io, un’altra Davide, poi Fabrizio. Massimo mai, che doveva essere pronto a partire se passava la polizia. Immagino che per le puttane fosse noioso perdere del tempo con noi. Un giorno, però, la ragazza di Fabrizio l’ha scoperto e gli ha detto di smetterla. Ci abbiamo riso sopra. Poi è successa la stessa cosa a Davide e alla fine mi sembrava di essere in una canzone, solo che al posto del bar noi avevamo la macchina. Non conoscevo ancora Cristina. Quando ci siamo messi insieme, ho smesso anche io.
Non mi dà neanche il tempo di entrare in casa. Mi prende la testa tra le mani, mi bacia, sussurra qualcosa. Dice che ha sbagliato tutto, che adesso ha capito. Ride, sorride, piange. Mi guardo attorno, mentre mi trascina in camera sua. Non entro in questa casa da un paio d’anni. È uguale a quando l’ho lasciata. La casa, intendo. Lei, invece, è diversa. Non è più una ragazza. È come se si fosse liberata dell’età con una scrollata. Penso di amarla ancora.
Che poi secondo me anche una pianta si accorge di star morendo. Mi fa un po’ ridere pensare di essere estirpato da questo mondo. Fa molto filosofo, o scrittore. Io ci ho provato a fare lo scrittore, ma non avevo l’attitudine. O forse non è andata così. È che a un certo punto non me ne è più fregato niente. Da quando Cristina se n’è andata, non ho più avuto obiettivi. E’ tutto così vuoto, così grigio. A ogni modo, dicevo che non so se avrò il tempo di dire a qualcuno del cinghiale.
Resta accesa solo una piccola lampada. Lei è raggomitolata al mio fianco. Il letto è a una piazza e mi costringe a starle vicino abbastanza da sentirne il respiro caldo. Ha gli occhi grigi, o almeno è quello che sostiene. Ho smesso di dirle che secondo me sono verdi, di un verde bellissimo. Ho smesso di dirle tante cose. Una, però, provo a non reprimerla. Il tuo profumo mi fa sempre impazzire, dico. Lei sorride.
Facciamo finta che il cellulare sia ancora nella tasca destra dei miei pantaloni e che non si sia rotto: come lo prendo? Non sono mai stato molto atletico, ma sfido chiunque a stare a testa in giù – se non per vomitare, come facevamo noi – con le gambe piegate che fanno di tutto per caderti addosso, il braccio destro spezzato, il sangue che dalla fronte ti gocciola nei capelli e qualcosa che attraversa la spalla sinistra. Sfido chiunque nella mia situazione a prendere quel maledetto cellulare. Credo che la cintura di sicurezza mi abbia compresso al punto che lo stomaco mi si è piazzato tra i polmoni. Dovrò dire al meccanico che non è esploso l’airbag. L’assicurazione pagherà? Ma soprattutto, qualcuno passerà da queste parti? Tutto questo mi ricorda che volevo fare un’esperienza di rally. Solo che là ti fanno affiancare da un professionista. Io non capisco niente di motori, ma la velocità della macchina mi fa impazzire. Ogni tanto, quando torno a casa, sposto indietro il sedile e inclino lo schienale. Sostanzialmente resto sdraiato. Poi, quando so che la strada sarà libera, inizio a spingere come un dannato. È che mi sento libero.
Dimmi qualcosa che non so, chiede mentre le accarezzo i capelli. Sono morbidi, castani, mossi. Non so cosa dire. Non riesco a staccare gli occhi dalle sue labbra. Lei le fa vibrare, sottili, e insiste. La sua schiena è perfetta. Non come la mia, simile a una S. Ricordo che ero bravo con le parole, che in fondo era quello che volevo fare nella vita. Guardo per un istante il soffitto. Stringimi in un calice infuocato/fa di un ricordo l’odore che hai assaporato/io sono il do/la nota più bassa che tu hai trascurato. Sospira. Mi sei mancata, dico. Sai cosa? dice stringendosi a me. La guardo curioso. Non le stacco gli occhi dalle labbra. È strano, ma anche divertente. Se uno dei due morisse, per l’altro sarebbe una tragedia. Sorride. Già, dico. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.
Mi sentivo libero quando scrivevo. Mi divertiva giocare con le parole e con lo stile. In redazione dicevano: bravo Valerio, hai talento. Mi piaceva mandare i miei racconti, pensavo di aver trovato finalmente qualcosa di vero, di sincero. Ma nella scrittura, di vero e sincero c’è poco o niente. In fondo, com’è che diceva quello stronzo del direttore? Che è come essere artigiani, apprendisti, garzoni. Che a furia di lavorare si diventa migliori. Ma lo si deve fare tutti i giorni. Ho mollato perché non trovavo niente di spontaneo nel dirsi mi alzo e lavoro per otto ore. Mi sono detto: è l’unico modo, c’è poco da fare, ma allora non mi va. Facciano loro. Continuino con le loro stupide gare. Io mollo tutto. Non mi piacciono le catene. Invece il parapendio sì. Non l’ho mai fatto, ma voglio provare da anni. Mi immagino con le cuffie – non so nemmeno se sia possibile – e Neffa che mi dice è il ritorno del guaglione sulla traccia. Cristo, quanto mi manca Neffa. Comunque poi mi butto giù, guardo la Morte in faccia e le dico buh.
Vado via da Torino, dico. Lei mi guarda. Pensa che non sia vero. Non sto scherzando. Si mette cavalcioni su di me, le mani sul mio petto. I capelli le cadono fermi nel vuoto. Anche i seni, con le punte all’insù. Penso che restare non sarebbe neanche male. Si china a baciarmi. Tanto ci vedremmo solo quando hai voglia di ricordarti cosa vuol dire essere amata, come in questi due anni dico. Lo so, dice. Non finirà mai, ma non ho voglia di pensarci. Per una volta voglio credere che esista solo il qui e ora. Che se sto bene adesso, non per forza starò male domani. Perché? chiedo. La nostra vita è questa. Strana, ma è questa.
Fuori dalla macchina c’è Cristina. Sono sicuro di averla vista, chinata a sbirciare dal finestrino. Ha cercato il mio sguardo e l’ha trovato. Un po’ come quando ci siamo conosciuti. Ero appena andato a vivere da solo, per scrivere senza distrazioni. C’era un locale sotto casa e la sera stavo sempre là, seduto al bancone, da solo. Bevevo vino e leggevo. Una sera, un gruppo di ragazze entra. Il proprietario le indirizza verso un tavolo nell’altra sala. Riuscivo a vedere solo un posto, quello dove era seduta lei. L’ho guardata per tutta la sera, finché non se ne sono andate. Ma il giorno dopo è tornata, da sola. E ora è qua, fuori dalla macchina, che poi è ancora sua. Ricordo ancora quando l’abbiamo comprata. Avevo ventiquattro anni e convivevamo da uno. Abbiamo preso una Seicento usata, molto usata. L’ha comprata lei, ma ha voluto cointestarla. Mi ha lasciato tre anni dopo. Ha detto che potevo tenermi la macchina, che lei aveva i soldi per comprarne un’altra. E io l’ho tenuta, l’unica cosa che mi ricordasse di lei ogni giorno, che ancora ne respiravo il profumo.
La portiera si apre e Cristina entra dal lato del passeggero. Guarda il parabrezza sfondato, poi me. Provo a sorridere. Non credo di esserci riuscito. È strana. Il suo colorito tende al grigio, come gli occhi. Ora che li guardo, penso che abbia ragione lei. Non so come, ma è riuscita a sedersi. Al contrario. Come me. Le chiedo come ha fatto. Lei mi guarda senza rispondere. Si tende verso di me, mi prende la testa tra le mani e mi dà un bacio. Io chiudo gli occhi. Tutto il resto può aspettare.
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