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Un passo appena

Lei si alza la gonna.
Lei si alza la gonna e si lascia andare.
Cadere.
Morire.

Era bionda, forse bruna. Di sicuro non rossa.
Io ero seduto in un bar, lo sguardo costretto alla televisione.
Col passare dei minuti sempre più persone sono entrate e si sono accalcate davanti allo schermo. Il gestore non si è preoccupato che consumassero. Nessuno osava parlare. Avevamo capito tutti che stava succedendo qualcosa di grosso, che da quel momento il nostro paese sarebbe cambiato.
Pensai a mio figlio: era arruolabile.
Pregai Cristo Nostro Signore che non scoppiasse la guerra e che non lo richiamassero. Mio padre ha fatto il Vietnam. Non l’ho mai conosciuto.

Le torri crollano dicono.
Siamo sotto attacco insistono.
E’ un triste giorno per l’America concludono.

Il fumo riempì l’inquadratura e le nostre certezze vennero abbattute da due aerei di linea. Poi tre. Forse quattro.
Un uomo vicino al bancone scoppiò a piangere, mentre una giovane donna strinse a sé il proprio bambino.
Lasciai che la birra si scaldasse nel bicchiere. La gola secca mi fece tossire appena.
I giornalisti della CNN si fecero carico delle emozioni di tutti noi. Dissero esattamente ciò che stavamo pensando, senza lacrime e singhiozzi. Il fiume della storia umana si stava mostrando ai nostri occhi e loro avevano il privilegio di raccontarlo. Penso lo sapessero.

La telecamera decise di fendere il fumo che avvolgeva i piani alti della torre e provò a guardare oltre, nel tentativo di darci speranza. Non si può dare speranza quando non si vede nemmeno più il cielo.
C’erano degli uomini affacciati alle finestre. Alcuni si sporgevano, altri si sbracciavano, come passeggeri di un treno in partenza.
Probabilmente urlavano.
Nessuno di noi, compreso il cameraman, riuscì a levare lo sguardo. Rimanemmo tutti in silenzio, forse convinti che stando zitti non avremmo sottratto loro la voce e che se avessero continuato a urlare, qualcuno, magari Dio, li avrebbe sentiti e ascoltati.
Pregai anche per loro.
Pregai per mia moglie, che si era trasferita da poco nel Wisconsin. Il biglietto aereo gliel’avevano dato le mie continue sbronze e le troppe telefonate dei vicini al 911.
Non ho più toccato una donna, neanche una carezza.
Lei mi odia e anche mio figlio. Ma io pregai per loro. Da quel giorno non ho mai smesso.

Mi ricordai di essere in un programma di recupero per gli alcolisti. Non avrei dovuto stringere in mano un bicchiere. E quegli aerei non dovrebbero essere in quelle torri pensai. Se l’America si fosse arresa, l’avrei fatto anche io.
Ero un fatalista, uno di quelli che cercano dei segni per giustificare le proprie azioni. Probabilmente sarebbe stato corretto anche definirmi un senzapalle.
Le mie dita si adattavano alla forma del bicchiere, pronte a non lasciarlo andare.
Una sorta di bipolarismo faceva sì che una parte di me chiedesse di fornirle un motivo valido per non smettere di bere e l’altra, una sorta di cancro, glielo fornisse semplicemente guardandosi attorno.

Poi la inquadrarono.
Fu questione di un attimo, una manciata di secondi che decisero di apparire minuti.
C’era una donna in piedi, là dove avrebbe dovuto esserci una finestra.
Indossava una camicetta rossa e una gonna nera e guardava nel vuoto. Fissava ciò che le stava davanti come se non lo temesse e, al contrario, potesse controllarlo. Mentre tutti urlavano e sbracciavano, lei se ne stava ferma davanti alla tempesta proprio come l’uomo di quel quadro.
Nel silenzio generale del bar, io me ne innamorai. Un amore sincero e infantile, quello che ti fa chiedere a una perfetta sconosciuta di sposarti. Lo avrei fatto, lo leggevo nel fondo del mio bicchiere. Avrei lasciato alle spalle tutti i miei fallimenti per quella giovane donna e insieme avremmo avuto dei bambini, sì, e la domenica saremmo andati tutti insieme fuori città e io le avrei tenuto la portiera aperta, porgendole la mano per aiutarla a scendere.
Mi alzai in piedi pronto a correre fuori dal bar, per andare ad aspettarla ai piedi della torre. Nel momento stesso in cui l’avrei vista uscire, mi sarei inginocchiato ringraziando Dio. L’avrei presa per un braccio e insieme saremmo corsi via, al sicuro.

Poi la vidi.
Controllò che la camicetta fosse priva di pieghe e le cadesse ai fianchi così come provato più volte davanti allo specchio, quella mattina.
Si alzò la gonna nera perché non le intralciasse i movimenti. Giusto un po’, come dovesse affrontare la lunga scalinata di una chiesa.
Infine quel passo nel vuoto, avvolta dal fumo e dalla sua bellezza.

D’istinto, tesi le braccia in avanti come ad afferrarla, aspettandomi che potesse cascarmi addosso.
Non accadde.

La televisione continuò a restituirci la stessa inquadratura per molto tempo e molti furono gli uomini e le donne che guardammo buttarsi, padroni della propria vita e della propria morte.

Tornai al mio tavolo e al mio bicchiere. Lo strinsi, sconvolto nel mio lutto.
Brindo a te, amore mio pensai.
Per smettere di bere, ci sarebbe sempre stato un giorno migliore.

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Civetta

Non era ancora il tramonto, ma il cortile era già in ombra. L’uomo sul balcone del secondo piano pensò che le case popolari fossero così povere da non avere nemmeno diritto alla luce. Appoggiato alla ringhiera, lasciò la cenere penzolare dal mozzicone che stringeva tra pollice e medio. Aveva smesso con le cose superflue.

Il monolocale era spoglio, giusto un materasso per terra e qualche libro. Una lampadina bruciata era appesa al soffitto. Le serrande si erano rotte tempo prima. Ne aveva approfittato e si era fatto staccare la luce. Viveva secondo natura, svegliandosi all’alba e dormendo quando era troppo scuro per leggere. Una parte dei soldi guadagnati pulendo le scale finiva in sigarette, il resto nelle rose. Da quando aveva iniziato a comprarle, non poteva permettersi più di un pasto al giorno.

Si mise addosso qualcosa di pulito e riempì un sacco nero con i vestiti sparsi per terra.

Al lavasecco scambiò un saluto con gli altri clienti. Le solite facce, il solito cenno. Avviò la centrifuga e uscì, come sempre. Coprì l’isolato che lo separava dalla fioraia sentendo crescere in lui l’eccitazione.

La donna dietro al bancone sorrise. Arrossendo, gli chiese se avrebbe comprato una rosa al giorno anche per lei. L’uomo scosse la testa, poi lasciò le monete sul bancone e uscì.

Giorno dispari: rosa bianca.

Non faceva pulire il gambo; le spine dovevano ricordare il possibile dolore di ogni bellezza. Soffrire ogni giorno aiuta a non soffrire più. Una sorta di veleno. Recuperò i vestiti e tornò a casa. L’eccitazione era diventata aspettativa.

Pochi metri distanziavano il suo balcone da quello dell’appartamento di fronte. Le tende fini e l’interno ben illuminato erano suoi complici. Su quello strano palcoscenico, lo spettacolo era già iniziato. Un letto matrimoniale e due ragazzi davanti: lei era inginocchiata, stava facendo un pompino.

L’uomo non riusciva a mettere a fuoco la nudità di lei ed era costretto a immaginarla. Si accese una sigaretta; i due ora erano sul letto.

All’uomo parve che la ragazza lo guardasse. Urlava e gemeva e lo guardava.

L’uomo spense la sigaretta e si abbassò i pantaloni.

Iniziò a masturbarsi cercando lo sguardo di lei. Il buio escludeva tutto ciò che li circondava. C’erano solo lui e la ragazza. Di lei sapeva che aveva gli occhi grigi e qualche lentiggine, i capelli castani e un cappotto rosso. Sapeva anche che le piaceva essere presa da dietro, come in quel momento. Le sue urla gli facevano credere che fosse lui a fotterla.

Non era venuto. Quei due avevano finito e lui era rimasto col cazzo mezzo moscio in mano. Avevano spento la luce e l’avevano lasciato là da solo, in mezzo al nulla.

Ancora nudo, si buttò sul materasso.

La sveglia suonò: il sole ancora non illuminava la casa nella sua interezza. Aveva dormito poco e male. Mentre si radeva, le crepe dello specchio gli restituirono il volto deforme di un mostro. Arricciò le labbra. Le guance scavate erano lenzuoli impigliati agli zigomi pronunciati. Non sì sentì più brutto del necessario.

Prima di uscire recuperò la rosa dal vaso. L’acqua aveva mantenuto i petali freschi. Uscì di casa e, come ogni mattina, deviò verso l’altro condominio. Il portone era spalancato come tutti gli altri. Salì per i due piani e si trovò di fronte all’appartamento. Posò la rosa sul gatto dello zerbino e se ne andò.

A lavoro, la ripetitività del pulire le scale lo fece sprofondare nel proprio malessere. La ragazza lo aveva deluso. Per la prima volta, dopo mesi, non era più riuscita a soddisfarlo. Forse era il momento di cambiare. Decise di non pensarci.

La giornata proseguì anonima. Niente eccitazione, nessuna aspettativa. Al lavasecco, anche le facce degli avventori gli parvero maschere di tristezza. Persino la fioraia aveva di meglio da fare che dargli attenzione.

Giorno pari: rosa rossa.

Questa volta era in anticipo. Rimase in balcone a fumare finché non vide accendersi la luce dell’appartamento di fronte. Era irrequieto: aveva persino già sbottonato i pantaloni. Si concentrò su quello che vedeva e, quando non bastava, su quello che immaginava. Con la mano emulava il ritmo del bacino del ragazzo.

Non funzionò. Non era riuscito a concentrarsi, le urla della ragazza erano un’eco lontana. Si rivestì. Ormai era chiaro cosa dovesse fare. Non poteva più evitarlo.

Aspettò di vedere il ragazzo uscire dal condominio.

Le due: era una civetta pronta a braccare la preda per il proprio sostentamento.

Si vestì di tutto punto. Prese la rosa dal vaso e strinse il gambo, poi lo sfregò contro le proprie guance.

E’ necessario pensò nel salire le scale.

E’ necessario pensò nel bussare alla porta.

E’ necessario pensò nel guardare la ragazza.

E’ necessario pensò mentre sentiva rinascere il desiderio dentro di sé. Il corpo nudo di lei a terra, una collana di lividi a cingerle il collo e il sangue, il sangue a ridare passione a quel fiore che sembrava ormai appassito

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