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La sciarpa verde

Questo disse la donna, indicando al marito il perizoma viola ripiegato sul letto. L’uomo esitò. Avanti lo incalzò dallo scranno rosso su cui era seduta comando io, ricordi? L’uomo annuì. Raccolse il perizoma e lo indossò. Nel farlo, sentì gli occhi della donna su di sé. Guardati allo specchio gli disse. L’uomo si voltò e il suo riflesso contrasse la bocca disgustato. Non era per la calvizie precoce, o per la carne flaccida, e nemmeno per la pancia gonfia. Era perché tutto ciò che rimaneva della sua mascolinità si nascondeva dietro un triangolo di stoffa che si gonfiava sempre di più.

È iniziata un martedì sera. Mia figlia Lidia compiva diciotto anni e voleva festeggiare solo con noi e Dafne, la sua migliore amica. Diceva che per gli altri ci sarebbe stato tempo, che le importava solo della sua famiglia. E di Dafne.
Si conoscevano da quando erano in fasce, ma questo lo hanno scoperto solo molti anni dopo, quando, inconsapevoli l’una dell’altra, si sono sedute vicine al loro primo giorno di elementari. All’uscita da scuola mi sono venute incontro mano nella mano, sorridendo. Mia figlia con i capelli rossi e il viso lentigginoso, Dafne con dei grandi occhi grigi sempre in movimento e un fiocco celeste che si intrecciava trai capelli neri e che ha indossato per tutta la vita.
Dafne si è presentata e mi ha indicato una signora alta e corpulenta. È mia mamma ha detto e io, incredula, ho riconosciuto la donna con cui avevo condiviso la stanza d’ospedale nei giorni precedenti al parto. Lidia e Dafne avevano quattro ore di differenza.
Sono diventate inseparabili e, fino a quel martedì sera, lo sono sempre state.

Lo guardava infilarsi le autoreggenti, seduto per terra. Attento, se le smagli sai cosa succede disse agitando un piccolo frustino. L’uomo sentiva le trame delle calza tirargli e strappare i peli della gamba. Corrugava le sopracciglia e la fronte, vergognandosi dell’erezione che non riusciva a nascondere alla moglie. Sembra ti piaccia disse lei con una punta di malizia. Mi chiedo cosa, però… Vedere le cosce insaccate nelle calze, o l’idea di essere punito per quello che hai fatto?

Ci sono stati dei segnali, quella sera. Dei segnali che qualunque donna avrebbe dovuto cogliere, ma non io. Il suo piatto quasi intatto, il suo sorriso tirato nelle foto, la sua fetta di torta al cioccolato rimasta integra al centro del tovagliolo, un petalo del fiore di glassa spezzato. Poi il brindisi e lei che dopo un piccolo sorso di spumante scappa in bagno a vomitare. Vado io ha detto Lidia, seguendola. Ho guardato mio marito e ho mormorato ecco perché non aveva fame, le lasagne non erano così terribili. Questo ho detto. E ho riso. Ormoni ha suggerito lui. Ormoni, ho concordato io. Ho pensato che fosse meglio accompagnarla a casa e lui era d’accordo con me. Vado a cambiarmi ha detto scrollandosi le briciole dal maglione.

Sai dove ho trovato questa guêpière? gli chiese, facendo scorrere le stringhe nelle asole. L’uomo aprì la bocca per rispondere, ma la donna strinse i lacci con una forza e una repentinità tali da comprimergli il torace e farlo quasi strozzare con le sue stesse parole. Dove abitava Dafne continuò lei c’è un piccolo sexy shop. L’uomo provò a voltarsi, ma la donna tirò nuovamente le stringhe costringendolo a un gemito. Il proprietario mi divorava con gli occhi. Scoppiò a ridere. Pensava lo avrei indossato io, capisci?

Sono rimasta alla finestra a guardare la macchina partire e scomparire nella nebbia. Guida piano, ti prego. In cucina mia figlia era in piedi accanto al tavolo, lo sguardo basso. Mi sono avvicinata e le ho detto che avrei sparecchiato io, quella sera, che lei era la festeggiata e che avremmo recuperato una volta che Dafne si fosse ripresa. Ha detto e mi ha abbracciata. Ha preso la busta con dentro il regalo ed è andata in camera sua.
Del regalo si era occupata Dafne. Mi aveva telefonato quel pomeriggio, mentre stavo macinando la carne per le lasagne, e mi aveva detto entusiasta di aver trovato il regalo perfetto per Lidia: un piccolo carillon con la ninnananna di Brahms. Mia figlia ha una sorta di venerazione per quel brano, lo ascolta decine di volte al giorno. Dice che c’entra qualcosa con il suo primo ricordo, che non sa in che modo, ma ne è sicura.
Il carillon era caro, molto caro. Lo aveva trovato in un piccolo negozio di antiquariato del centro. La mia macchina era dal meccanico e lei non aveva abbastanza soldi per comprarlo. Le ho chiesto di lasciare qualcosa come anticipo e di tornare a casa a prepararsi. Avrei mandato Massimo a prenderla, così avrebbero potuto ritirare il carillon prima di venire qui per cena. Ha detto che andava bene, che Lidia sarebbe stata felicissima.
Mio marito è rincasato tardi. Dormivo e mi sono accorta di lui solo quando ho sentito il materasso sprofondare sotto il suo peso. Mi sono avvicinata al suo petto nudo. Emanava un odore penetrante, quasi selvatico. Non ho saputo trattenermi dal baciarlo e dall’accarezzargli la coscia e stavo per mettermi sopra di lui quando mi ha allontanata. Sono stanco ha detto. Lei sta bene, sta bene. Si è girato dall’altra parte e il suo respiro si è fatto pesante.

Degli occhi dell’uomo non era rimasta che una fessura, quando la donna ebbe finito di calcarne i contorni con la matita nera. Nel sentire quel profumo intenso e particolare, si ricordò di quand’era poco più di un bambino e spiava sua sorella truccarsi. Poteva rivederla in piedi davanti allo specchio, la mano ferma e il tratto sicuro. Quando aveva finito, si guardava soddisfatta e ritirava i trucchi. A lui non interessava di quel cerimoniale, rimaneva nascosto in attesa di un unico gesto, il respiro sospeso. Poteva vederla, sì, mentre si sfilava le mutandine da sotto la minigonna e le lasciava cadere sul pavimento, per poi precipitarsi fuori di casa tra le braccia del fidanzato.

Il giorno dopo ho chiesto a Lidia come stesse Dafne. Non ha risposto, si è limitata a una scrollata di spalle. Ho cercato di capire se fosse successo qualcosa, ma lei ha negato. Sapevo che era una bugia. Quando mente fa come me: alza inconsciamente un angolo della bocca e sulla sua faccia si disegna un sorriso a metà. Ho lasciato perdere. È giusto che i figli abbiano dei segreti.
Quando mio marito è tornato a casa, gli ho detto che mi serviva la macchina. Mia madre ha di nuovo dimenticato come si accende la caldaia… Faccio in fretta. Si è offerto di andare al mio posto, ma sapevo quanto fosse stanco di ritorno da lavoro. Ho zittito le sue proteste con un bacio.
Entrata in macchina, ho iniziato a cercare senza successo la leva per spostare in avanti il sedile. Mentre scandagliavo il sotto sedile, qualcosa mi si è intrecciato attorno alla mano. Ho ritratto istintivamente il braccio. Il nastro di Dafne penzolava moscio tra le mie dita.

Non ti sta male disse la donna. Ti ho sempre suggerito di farti crescere i capelli, ma non hai voluto ascoltarmi. Si avvicinò all’uomo. Stai proprio bene ripeté esaminando la chioma nera e posticcia che gli ricadeva sulle spalle. La frangia gli copriva le sopracciglia che si era impegnata a ridefinire. Ora dovresti invitarmi a ballare il twist, Mia lo prese in giro. L’uomo, impacciato, non sapeva cosa fare. La fissava intimorito, in piedi in mezzo alla loro stanza matrimoniale. Abbiamo quasi finito, non ti preoccupare. Manca un dettaglio. Aprì il cassetto del comodino e ne tirò fuori un nastro celeste. Te lo ricordi?

Venerdì Lidia è tornata a casa piangendo. Erano le nove del mattino ed ero già vestita per andare a lavoro. È morta ha singhiozzato. È morta e l’ultima cosa che le ho detto è che era una stronza. È morta. Sua madre è andata a svegliarla e l’ha trovata impiccata con la sua sciarpa verde. A scuola non hanno detto nulla ai ragazzi: né del trucco pesante che le copriva la faccia, né di come si fosse tagliata i capelli in un caschetto maldestro, né dei vestiti che aveva scelto di indossare. Quando sua madre me l’ha confidato tra le lacrime, mi sono chiesta quanto altro dolore le avesse procurato ritrovarla con indosso quella lingerie, quanto quella confessione potesse aiutarla a dimenticare ciò che la figlia aveva lasciato scritto su decine di fogli sparsi sul pavimento. Mamma, tua figlia è una puttana.
Ho preso un giorno di permesso da lavoro. Avevo paura a lasciare Lidia da sola per così tanto tempo. Ho passato la mattinata sul divano ad ascoltare i singhiozzi che venivano dalla sua camera. Egoisticamente mi sono sentita fortunata. Ho mandato un messaggio a mio marito per informarlo, ma non ha risposto. Lavora sempre tanto.
All’ora di pranzo ho bussato alla porta di Lidia. Era per terra, in pigiama. Continuava a ripetere non è possibile. Le ho chiesto se avesse notato qualcosa di diverso in lei. Non abbiamo più parlato e ieri non è venuta a scuola. Stringeva tra le mani una foto in cui sorridevano, abbracciate. Mi sono seduta accanto a lei. Il freddo delle mattonelle mi ha fatta rabbrividire. Mercoledì ha scelto un altro banco ha continuato mi evitava. Nell’intervallo le ho chiesto perché. Lasciami stare, ha detto. Le ho chiesto perché. Mi fai schifo, ha detto. Mi fate schifo. Tuo padre è una merda. Sei solo una povera stronza, le ho urlato. Ho guardato Lidia sprofondare dentro di sé. Perché ti ha detto quella cosa su papà? Sembrava non avermi sentito. È andata via subito dopo. Aveva mal di pancia. Ha firmato e se n’è andata. E ora è morta.

La donna legò i polsi del marito alla spalliera del letto. Sì assicurò che i collant usati come manette fossero abbastanza resistenti e non rischiassero di cedere. In quella posizione, più che una pecora, gli ricordava un agnello. Che non può essere mangiato, però, un agnello dalla carne impura. Non gli aveva tappato la bocca. Voleva potesse sentire anche il dolore nella sua stessa voce. Quando l’uomo sentì la fredda punta dello strap-on contro l’ano, tremò. Poi si dimenò e scalciò. Urlò, digrignò i denti, ringhiò. La donna guardava l’ano contrarsi e rilassarsi e contrarsi. Le ricordò un cuore che batte.

C’era voluto qualche giorno prima che capissi. Giorni che la mia mente ha impiegato a elaborare, assemblare, ricostruire. E io ne ero inconsapevole, non potevo accettare di dubitare. Eppure era tardi, era già dentro di me. L’idea stava germogliando e ogni coincidenza era acqua che la rinvigoriva. Tutto quello che faceva mi appariva strano. Il modo di sbucciare una mela, o di tenere in mano il telecomando, o di radersi. In ogni sua parola vedevo un’ambiguità, un non detto che si dibatteva per emergere. Quando, all’ultimo momento, si è rifiutato di venire al funerale perché non se la sentiva, cosa le hai fatto? mi è uscito spontaneo. Lui mi ha guardato e quello che ricordo è di aver intravisto un senso di gratitudine nel fondo delle sue pupille. Massimo, cosa le hai fatto? ho chiesto di nuovo, prendendo coscienza della verità. Non doveva morire ha piagnucolato accasciandosi a terra.
Quella sera gli ho detto che non l’avrei denunciato. Gli ho detto che mi sarei limitata a punirlo, che volevo capisse cosa aveva fatto. Se fai quello che voglio, se farai quello che ti dirò, non ti denuncerò. Non ti succederà niente.

L’uomo, ormai, non opponeva più resistenza. I collant attorno ai polsi sembravano essere l’unica cosa che gli impedisse di sprofondare nel vuoto in cui era perso il suo sguardo. Le lenzuola erano imbrattate del sangue che colava lungo le cosce dell’uomo. La donna pensò che fosse abbastanza e si sfilò, concedendo alle sue gambe di cedere. L’uomo sentiva in lontananza il trafficare della moglie per sfilarsi lo strap-on. Non aveva la forza di voltarsi verso di lei. La donna si allontanò dal letto, ma tornò presto sui suoi passi, una sciarpa verde stretta in mano. Abbiamo quasi finito disse. Non ti succederà niente. Alzò inconsciamente un angolo della bocca e sulla sua faccia si disegnò un sorriso a metà.

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Brucia la strega (1/2)

In questo momento non riesco a non pensare a Don Antonio e alle sue omelie. Una in particolare. Citava un passo del vangelo, forse Luca 15:2, che diceva più o meno vivrà nel fuoco della Bestia/brucerà il peccatore che ha dimenticato/come colui che ha tradito Cristo/ogni debito verrà pagato. Quella notte ho sognato di essere una strega, che molti uomini venissero a prendermi nel sonno e mi portassero in un bosco per bruciarmi viva. Il mio peccato? Aver fatto l’amore a quindici anni.

***

Eravamo al supermercato.
Sono scoppiata a ridere per una battuta di mio marito e, con un movimento brusco, ho fatto cadere un pacco di pasta dal carrello. Un signore si è avvicinato per raccoglierlo e io gli ho sorriso per ringraziarlo. Rimasti soli, mi è tornato da ridere. Non a mio marito, però. Mi ha guardata per qualche istante, poi si è limitato a dire vergogna.
Arrivati a casa, avevo appena posato le buste della spesa, quando mi ha afferrata per il polso e mi ha dato uno schiaffo in faccia. Io non me lo aspettavo e sono caduta per terra. Il pavimento era freddo; la mia guancia bruciava. Vergogna ha ripetuto e si è sfilato la cintura dai pantaloni. Io ho provato a replicare, ma la prima cinghiata mi ha ricacciato la voce in gola.

***

Non avevo fatto l’amore a cuor leggero, la prima volta. Come tutte le ragazze mi sono chiesta se fosse la persona giusta e se io fossi pronta. Ma il mio corpo, ormai, era quello di una donna e di donna erano anche le mie voglie. Così ho deciso di lasciarmi andare, felice e orgogliosa della mia decisione.
L’entusiasmo, o forse il non credermi più una ragazzina, mi ha portato a vedere mia madre come un’amica con cui confidarmi. E così ho fatto.
La mia era una madre moderna. Non se ne stava nell’angolo della cucina, zitta a guardare cosa facesse mio padre. No, lei era al passo coi tempi e spesso lo sfidava per dimostrargli che fossero sullo stesso piano. Così, subito dopo la mai confidenza, che aveva più il tono di una confessione, mi ha picchiata proprio come se fosse mio padre. E mentre lo faceva, continuava a darmi della svergognata e a chiedermi perché le avessi voluto fare del male. Perché la gente avrebbe parlato e loro che razza di genitori sarebbero stati, agli occhi degli altri?
Il lavandino era pieno dei miei capelli castani, strappati da quelle stesse mani in cui cercavo delle carezze. Ho contato le ciocche e per ciascuna di esse ho letto la definizione della parola vergogna.
La ricordo ancora adesso: vergogna s. f. Sentimento di colpa o di umiliante mortificazione che si prova per un atto o un comportamento, propri o altrui, sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti.

***

Io Massimo non l’ho mai giustificato.
Lui mi aveva picchiata e lo aveva fatto con crudeltà: la voce era fredda e pacata, la mano non aveva esitato. Non era stato un raptus. Eppure, ho creduto di doverlo aiutare. Aiutare, sì, perché da subito ho pensato che il suo fosse un problema. Ho sempre avuto la tendenza ad attribuire ogni azione, sbagliata o giusta che sia, a un fatto pregresso. Non so, magari qualcosa legato all’infanzia, su cui poi una persona costruisce un lato del proprio carattere. Ecco, quando mi ha picchiata, io Massimo lo conoscevo da otto anni e stavamo insieme da sette.
Ricordo quel ventiduenne gentile e sicuro di sé che mi fermava nei corridoi dell’università e che si faceva sempre avanti per offrirmi un caffè. Ricordo anche che più imparavo a conoscerlo, più quella sicurezza si mostrava fragilità. Massimo aveva paura che il suo ruolo di uomo venisse sovvertito. Per esempio aveva bisogno di pagare per me; oppure aveva bisogno che io non indossassi i tacchi, così da non essere più alta di lui. Aveva persino bisogno di diventare l’unica persona che riuscisse a farmi stare bene, perché credeva che solo così sarei rimasta con lui.

***

Anche se avevo solo quindici anni, dovevo sposarmi. Era questo che pensavano i miei genitori. Devi sposarti dicevano. Secondo loro – secondo tutti – solo il matrimonio avrebbe potuto restituirmi l’onore che avevo buttato via stupidamente. Me lo ripetevano ogni giorno, da quando avevano iniziato a parlarmi di nuovo. Io, però, invece di convincermene, iniziai solo a sentire crescere qualcosa dentro di me che mi avrebbe accompagnato per anni. Ogni volta che ero attratta da un ragazzo, o che più semplicemente sentivo il bisogno di averne uno, mi sentivo a disagio. Forse anche sporca. Di sicuro meritevole di una punizione. Sì, temevo che Dio mi avrebbe punita per le mie pulsioni impure.
Quando decidevo di andare a letto con un ragazzo, provavo uno sprizzante senso del pericolo e dello sbagliato. Mi lasciavo trascinare dalla passione e dai miei desideri, ma ero sempre consapevole che una parte di me pensasse che fosse sbagliato e che avrei dovuto fermarmi finché fossi stata in tempo. Durante i rapporti, il piacere schiacciava questa pulsione, ma, per quanto fossi trasportata e coinvolta, più i miei sensi si avvicinavano al culmine, più sentivo crescere, martellante, il senso di colpa. I miei orgasmi erano un’esplosione di gioia e tristezza allo stesso tempo ed era solo quest’ultima a trascinarsi fino alla fine, a tenermi compagnia anche quando ero rimasta sola nel mio letto.

***

Massimo non fu più lo stesso.
Forse è stato proprio il suo improvviso cambiamento a non farmi andare via, a convincermi che non potessi lasciarlo solo. Dopotutto negli anni avevo avuto anche io delle crisi e lui, rimanendo al mio fianco, mi aveva aiutata. Quando l’ho visto chiudersi sempre più in sé stesso e diventare solo uno spettatore del nostro rapporto, ho capito che aiutarlo fosse una mia responsabilità. Non ho mai sopportato chi distrugge una relazione solo perché sfaldare è più semplice che ricucire. E io ci ho provato: mi sono costretta ad arginare quella prima volta – che nella mia testa era anche l’ultima – nel cassetto delle esperienze sbagliate.
Una volta, a lezione, avevo sentito dire che persino un’esperienza negativa può essere un’opportunità. Ne ho fatto la mia filosofia di vita: trasformare una brutta situazione in un punto di partenza e non di arrivo. Io e Massimo avremmo potuto sfruttare l’occasione e, insieme, avremmo potuto cambiare e risolvere quelle debolezze della sua personalità che gli impedivano di vivere serenamente. E che la prima di queste sue fragilità si chiamasse vergogna, lo avevo ormai intuito.

***

E’ servito del tempo prima che riuscissi a trovarmi a mio agio con la mia sessualità. Ho dovuto fare un lungo lavoro su me stessa, a partire dalla rimozione di qualsiasi concetto cattolico che mi era stato inculcato durante l’infanzia. Forse è un po’ spietato affermare che il sesso e l’anima abbiano poco da spartire, ma la realtà ti costringe al cinismo. Mi sono ritrovata a usare gli uomini e a illuderli del contrario. Il modo migliore di sedurre è essere sedotti.
Per seguire l’università avevo dovuto trasferirmi. Dividevo un piccolo appartamento con una ragazza di Perugia. Spesso, quando uscivamo la sera, qualche ragazzo si faceva avanti per offrirmi da bere. Io accettavo. Non avevo remore nell’approfittare della stupidità maschile. Finivo il bicchiere, mostravo un bel sorriso e me ne tornavo a casa. Oppure decidevo di rimanere e di non tornarci da sola, a casa.
Avevo un’ottima media e agli occhi dei miei genitori era la dimostrazione che fossi diventata una brava ragazza. Come se non la fossi sempre stata… Poi è arrivato Massimo. Lui sì che speravo volesse offrirmi qualcosa. E infatti lo fece, più volte, ma io accettai solo la prima. Le altre, ognuno il suo. Con lui mi interessava avere un rapporto alla pari, anzi: con lui mi interessava avere un rapporto. Da allora, per anni, è stato l’unico uomo che ho frequentato.

***

Sapevo che Massimo sarebbe peggiorato.
Inizialmente sembrava non solo aver capito il suo errore, ma anche disposto ad affrontare i propri lati più torbidi. Io l’ho trattato amorevolmente, forse ancora più di prima, come se l’essere consapevole della sua debolezza mi spingesse a prendermi cura di lui. E’ stata la contraddizione maggiore con cui abbia dovuto convivere, perché io, quello schiaffo e quelle cinghiate, non ho potuto scordarli. Non era una questione di orgoglio ferito, si trattava proprio dell’essere stata ferita, nell’animo e fisicamente. Ho provato quel dolore che è figlio del tradimento e nella mia testa si è ricreata l’immagine di uno specchio che, illuminato al centro di una stanza buia, va in frantumi. Lo stesso specchio che avevo visto frantumarsi già una volta, da ragazza; l’identica sensazione di impotenza e incredulità, quando a mancare è proprio quell’appiglio che reputavamo eterno, solido, dalle radici profonde e incorruttibili. Avevo capito, inequivocabilmente, che tra me e Massimo era finita. Alle mie amiche, quando sfogavano le proprie frustrazioni di coppia, ripetevo che l’amore è solo un fatto di equilibrio e che i problemi devono essere relegati entro certi confini indelebili. Quando non si riesce ad arginarli, a ridurli, sforano e corrodono tutto e tu lo sai, tu te ne rendi conto, perché qualcosa in te muore e la senti morire, ma ormai non puoi più fare niente. Rattoppare è inutile. E’ tutto lì, l’amore.

***

Ero tornata ragazza. Era così che mi sentivo, che mi vedevo. Quando ero seduta al tavolino di un bar, mi sorprendevo a guardare un uomo poco distante: ne immaginavo il profumo, le carezze e persino l’intensità dei baci. Finivo per sorridere, imbarazzata ma felice. Finché non mi ricordavo di dover tornare a casa e di dover vedere Massimo, di dover passare del tempo con lui senza poterlo evitare. Vivevo di espedienti. La sera andavo a letto presto, anche se non avevo sonno, e se Massimo mi raggiungeva nell’immediato, fingevo di dormire. A fatica resistevo alle sue mani sul mio corpo. Avevo voglia, ma non con lui. Non cedevo. Non ero più una ragazzina, potevo controllarmi. L’astinenza mi confermò quello che già sapevo e cioè che non provavo più nulla per Massimo, nemmeno l’attrazione sufficiente per il sesso. Avrei potuto farlo, ma sarebbe stato come fare l’amore da sola. Era finita e me ne rammaricai. Era arrivato il momento di voltare pagina.

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GIUDA

Giuda-Iscariota

Mi trascinarono sullo sterrato tenendomi per i capelli. Quando si furono stancati, me li tagliarono. Io non volevo. Io non capivo. Mi spogliarono e mi picchiarono. Quando fui esanime, si allontanarono. Sperai fosse tutto finito, ma in cuor mio sapevo che non era così.
Tornarono presto, ma non si avvicinarono.
Poi la prima pietra fu scagliata e mi colpì la spalla. Non dissi niente.
La seconda mi ruppe il ginocchio.
La terza il cranio.
Ma io rimasi zitto.

– Non lo posso fare, Maestro.
– Cerca di capire.
– Chiedilo a Marco, a Matteo. Loro ti seguiranno.
– Tu sei l’unico, fratello mio.
– Non lo voglio fare.
– Tu sei “colui che serve”. E’ nel tuo nome. E’ nel tuo sangue.
– Mi uccideranno.
– E’ nel volere di Dio.
– Sia fatta la sua volontà.
– E così sia.

Un bacio. Con un bacio. Morire per un bacio.
E dimenticarsi di quando si era bambini, di quando si giocava insieme. O forse ricordarlo troppo bene. Ai ricordi non puoi scappare. Io non ci sono riuscito. Non ho potuto. E non avrei voluto.

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